Il candidato alle primarie del Partito democratico, Bernie Sanders, durante un comizio (Foto LaPresse)

La sinistra e il mondo. Un saggio sul dogma liberal in politica estera

Paul Berman

Bernie Sanders non è come i Mélenchon e i Corbyn europei (nemmeno sul Venezuela). I due discorsi che spiegano questa differenza, i tic di default dei più radicali e “la politica della finzione”

Pubblichiamo il secondo articolo di una serie sulla sinistra occidentale scritta dall’intellettuale americano Paul Berman e originariamente pubblicata su Tablet magazine. La prima puntata è uscita il 12 gennaio e si può leggere sul foglio.it

 

Cosa pensa la sinistra americana della politica estera? Tutti sanno cosa pensa riguardo alle questioni interne. La sinistra crede che la coscienza sociale debba elevarsi e diventare politiche concrete; che le disuguaglianze più estreme in termini di ricchezza e di vantaggi sociali debbano essere ridotte; che i sindacati debbano essere incoraggiati; che i fanatismi più stupidi debbano essere combattuti; che i diritti delle donne debbano essere promossi; che i fiumi e le foreste debbano essere protetti. Chi apre una scuola chiude una prigione, ha detto Victor Hugo, e la sinistra americana è d’accordo. Ma la politica estera è un’altra questione.

 

È difficile persino descrivere la trama del pensiero di sinistra sull’argomento. Michael Walzer ha pubblicato un libro intitolato “Una politica estera per la sinistra” (edito da Cortina Raffaello), in cui sostiene che, quando la sinistra si occupa di affari interni, lo fa in modo serio, sobrio e serio – o almeno fa quello che Walzer considera uno sforzo onesto. Ma quando la sinistra si occupa di affari del mondo, scivola in un approccio mentale diverso, come se si trasferisse da un lobo del cervello all’altro. La disciplina intellettuale si allenta. La consapevolezza svanisce, l’informazione si assottiglia. E i ben intenzionati e altrimenti rigorosi politici di sinistra si immergono in fantasie remote e inebrianti.

Naturalmente queste abitudini e questo approccio non riguardano chiunque abbia un orientamento di sinistra. La sinistra americana ha i suoi dotti specialisti di politica estera, con le loro idee precise, che restano sobri, studiosi, lucidi e ammirevoli. Ma il pubblico di sinistra, come lo interpreta Walzer, non attribuisce particolare importanza agli specialisti e alla loro competenza astemia. Il pubblico di sinistra preferisce abbracciare opinioni di politica estera semplicemente invocando un piccolo grappolo di ipotesi o credenze, equivalenti a slogan o pregiudizi ritenuti veri, e così non necessitano di esperti e di analisi.

Walzer descrive il grappolo di ipotesi e credenze come un’impostazione predefinita di un computer, che diventa automaticamente operativa al momento dell’avvio. Si apre una questione di politica estera e il pubblico di sinistra risponde pensando: “Tutto ciò che nel mondo va storto è colpa dell’America”. Non pare necessaria alcuna elaborazione. Da un assunto seguono tutti gli altri. L’assunto “è tutta colpa dell’America” si fonda sul fatto che il potere americano, oltre a essere sinistro, è anche illimitato e che il potere di tutti gli altri non conta nulla. In alternativa, l’assunto implica che, anche se il potere americano avesse dei limiti, l’arroganza dell’America non ne ha. E, non riuscendo a riconoscere i limiti delle proprie capacità, l’arrogante America produce i suoi danni goffamente, barcollando da un errore all’altro. L’obiettivo della sinistra dovrebbe essere meno potere alla superpotenza e più potere alle istituzioni internazionali impotenti. Ogni volta che c’è un’emergenza in qualche parte del mondo, la responsabilità di affrontarla dovrebbe ricadere sulle istituzioni internazionali e non sugli unilaterali, incontrollati, pirateschi, imperialisti Stati Uniti d’America.

Può darsi che, come osserva Walzer, nessuno della sinistra americana abbia in realtà fiducia nelle capacità delle Nazioni Unite o della Corte penale internazionale o di qualsiasi altra istituzione internazionale. Eppure la sinistra americana, nella sua modalità predefinita, si rivolge comunque all’Onu o alla Corte penale internazionale, e questo è strano. Walzer nota una forzatura nell’entusiasmo di sinistra per queste istituzioni, che descrive come una “politica della finzione”. Che come tale implica una certa disonestà. Nell’analisi di Walzer, c’è una vena di disonestà nell’approccio di default della sinistra.

A volte grande parte della sinistra americana si fissa su movimenti politici autoritari e su dittatori terribili in angoli remoti dell’universo e ama immaginare che, lungi dall’essere autoritari o dittatoriali, i movimenti e i dittatori siano audacemente progressisti, superiori persino all’Onu e alla Corte internazionale – anche se Walzer accenna al fatto che, nei loro pensieri più intimi, molte persone siano alquanto più consapevoli. Ma continuano comunque a proclamare la loro fantasia politica, il che equivale a un’ulteriore svolta nella “politica della finzione”.

Un esempio spettacolare è l’illusione di sinistra sul movimento politico islamista – l’assunto di sinistra secondo il quale ci deve essere qualcosa di progressista negli islamisti, pure se gli islamisti sembrano piuttosto dei reazionari medievali; e l’ulteriore assunto secondo il quale i nemici dell’islamismo, musulmani e no, debbano per forza essere i veri reazionari, anche quando i nemici sembrano essere liberal e progressisti. Ecco la “politica del fingere” impacchettata con doppio fiocco. Il capitolo del libro di Walzer su questo tema – “Islamismo e sinistra” – lo porta al limite della pazienza, ma non oltre (questa pazienza inesauribile sembra essere un principio filosofico, per lui).

Ma perché un gran numero di idealisti di sinistra vuole tanto credere a questa politica estera della finzione? Dov’è il fascino di questo approccio? Il fascino è quello di evitare di pensare al mondo al di fuori degli Stati Uniti. La stessa sinistra che pone un grande accento sulle condizioni sociali ed economiche del proprio paese non si prende la briga di fare lo stesso con i problemi economico-sociali all’estero. Lo spirito è quello di “un’intimità di sinistra”. E’ un provincialismo che si autodefinisce idealismo.

 

II

 

O così sostiene Michael Walzer ne “Una politica estera per la sinistra americana”. Posso immaginare che alcuni dei suoi lettori di sinistra scuoteranno la testa increduli o, almeno, faranno finta di farlo. Si lamenteranno di questa caricatura poco simpatica, e penseranno che Walzer è stato ingiusto verso le persone che davvero hanno uno sguardo sul mondo. O si lamenteranno che, nel disegnare la caricatura, il filosofo abbia fatto troppo affidamento sulle proprie vaghe impressioni sulla scena di sinistra. C’è qualcosa di vero in queste lamentele?

 

È vero che la tecnica di ricerca di Walzer consiste nel parlare con gli amici, partecipare a incontri, leggere riviste e navigare su siti di sinistra – anche se non riesco a immaginare un metodo migliore. Il metodo, come accade spesso, si basa su un’esperienza quotidiana della sinistra. La precisione generale delle sue impressioni dovrebbe essere, in ogni caso, ovvia a prima vista. Alcune cose sono ovvie, anche se nessuno le ha messe in evidenza. Inoltre, Walzer fa entrare anche degli aneddoti nella sua analisi. Uno di questi compare subito, nella prima pagina del libro. Il filosofo finge di non volersene occupare troppo. Ma l’aneddoto è immenso, ed è irrefutabile. E’ la campagna elettorale di Bernie Sanders per le primarie democratiche del 2016.

 

La campagna di Bernie fu un evento epocale nella lunga storia della sinistra americana. Ha segnato un allontanamento dall’idea tattica principale della sinistra radicale dell’ultimo mezzo secolo e più – un allontanamento dalla politica di protesta a favore della politica elettorale, dove si ritrova il potere. Ha segnato un allontanamento dal modo preminente di raffigurare la vita attraverso un mix di rimostranze legate alla politica identitaria o a fantasie riguardo a eventi lontani, scegliendo al contrario il grande classico della sinistra che mescola rimostranze economiche e solidarietà della working class.

 

Eppure, per quanto riguarda la politica estera, la campagna di Bernie Sanders si è rivelata ossessivamente conforme alla posizione di default della politica estera identificata da Walzer. Sanders si è soprattutto conformato all’aspetto più importante di questo approccio di default: evitare la politica estera. La rivale di Bernie alle primarie si posizionava sulla base delle sue credenziali in politica estera e sui suoi successi, che erano, rispettivamente, vaste e mediocri. Bernie ha risposto offrendo sporadiche e amareggiate condanne alla guerra in Iraq, rabbrividendo d’orrore per Henry Kissinger, criticando la sua rivale di aver menzionato a malapena i palestinesi nel suo discorso all’Aipac (American Israel Public Affairs Committee). Ma per lo più ha tenuto la bocca chiusa.

 

I giornalisti si aspettavano da Bernie un discorso a tutto campo sulla politica estera, che avrebbero riferito nel dettaglio. Hanno anche insistito per averlo, e la loro insistenza è diventata notizia, per un attimo o due. Se il discorso non era possibile, allora volevano almeno sapere chi fossero i suoi consiglieri di politica estera – si diceva che i consiglieri di Hillary fossero centinaia. Nessuno sapeva chi fossero quelli di Bernie, né il suo staff voleva rivelarne i nomi, il che fece nascere il sospetto che non esistessero proprio.

 Il senatore Bernie Sanders, che nel 2016 ha perso le primarie del Partito repubblicano contro Hillary Clinton (Foto LaPresse)


 

Alla fine lo staff di Sanders presentò qualche nome – fu un momento comico: tutti quelli che erano stati citati negavano uno dopo l’altro di essere parte della squadra sandersiana. È apparso anche il nome di Michael Walzer sulla lista. Ma Walzer, come mi ha detto, non è mai stato un suo consigliere, tranne nel senso che un giorno, un paio d’anni prima, il senatore gli aveva telefonato e avevano parlato di Siria.

 

A Bernie comunque non importava nulla, e non era preoccupato delle pressioni dei giornalisti. Masse più imponenti di quanto chiunque abbia mai visto nella storia moderna della sinistra americana continuavano a inviare contributi alla sua campagna, 27 dollari alla volta. Lo facevano perché volevano che il loro candidato continuasse a martellare su economia e corruzione in America. Volevano sentir parlare di riforme radicali. Tra i suoi sostenitori incoraggianti non c’era la minima richiesta di qualcosa che avesse a che fare con la politica estera. Era questa, la campagna storica. La riprova che la caricatura di Walzer era ben disegnata – “un’illustrazione quasi perfetta”, come dice Walzer, della sinistra americana e della sua posizione sugli affari esteri.

 

Ma tutto questo avveniva prima dell’arrivo del fatidico 9 novembre del 2016.

 

III

 

In seguito, si abbassarono le luci in America, molte cose cambiarono, e tra queste ci fu anche il primo esempio di Michael Walzer sulla posizione di default della sinistra americana: Bernie Sanders, “l’illustrazione quasi perfetta”. La trasformazione di Bernie aveva a che fare con una riflessione. Sanders aveva rimuginato a lungo sul suo silenzio in politica estera, o così possiamo immaginare. E, col tempo, aveva deciso di mettere fine al proprio silenzio. Era molto volubile, e lo fece due volte: al Westminster College di Fulton, in Missouri, nel settembre 2017 – il discorso di politica estera che tutti i giornalisti avevano richiesto nel 2016; e ancora alla Johns Hopkins, il 9 ottobre del 2018, dove le stesse idee sono riemerse con maggiore semplicità. In nessuna delle due occasioni i suoi punti di vista si sono rivelati quelli previsti.

 

Il fascino della posizione di default della sinistra si è sempre sorretto su uno sguardo in profondità, cioè sull’idea che, da qualche parte, sotto gli slogan e gli assunti, si trovasse un fondamento di pensiero serio, un fondamento del marxismo classico, forse, o l’influenza dei teorici anticolonialisti di molto tempo fa, o della riforma cristiana dalla scuola social-gospel. Questa idea conferisce solidità agli slogan e alle ipotesi. Ma tale solidità non esiste, e nemmeno il fondamento, non la maggior parte del pubblico di sinistra almeno. Non c’è una filosofia più profonda. Esiste solo una piccola serie di posizione di default non verificate, che vengono a galla come la polvere.

 

Eppure, la leggerezza di queste credenze ha una virtù inaspettata: la flessibilità. Aggrappandosi alla posizione predefinita, uno può ripetere gli stessi slogan per sei giorni alla settimana. Ma, arrivato il settimo giorno, la stessa persona, sfinita dal proprio dogmatismo, può decidere di introdurre un ulteriore pensiero o anche due, ignaro o indifferente ai pericoli dell’incoerenza ideologica. E così è stato per Bernie Sanders, nel corso del primo dei suoi discorsi di politica estera.

 

In quel discorso ha elencato con disciplina i concetti e gli slogan della posizione di default. Ha sottolineato gli effetti miserevoli del potere militare americano, come la guerra in Iraq, alla quale ha attribuito i problemi di tutto il medio oriente. Ha ricordato l’arroganza americana in Iran, Guatemala e Vietnam negli anni passati. Ha invocato le virtù delle Nazioni Unite e delle organizzazioni internazionali. Ha fatto qualche appello per l’uguaglianza economica e il rispetto ambientale. Ma poi, avendo dimostrato la propria ortodossia di sinistra, Bernie evidentemente ha sentito di avere il diritto di fare una giravolta e di aggiungere un’ulteriore riflessione.

 

Il Westminster College di Fulton, in Missouri, è il luogo in cui, nel 1946, Winston Churchill annunciò l’arrivo della Guerra Fredda dichiarando che una “cortina di ferro” era caduta sull’Europa, a separare la tirannia dell’Unione Sovietica dalla libertà dell’occidente. Churchill non era più primo ministro, ma era adorato dal pubblico americano e il presidente Harry Truman lo accompagnò in sala e rimase sul palco durante tutto il discorso. Lo scopo di Churchill a Fulton era di trascinare l’America fuori dalla sua “intimità” nazionale per portarla nella più ampia lotta per una civiltà democratica.

 

 

 Il discorso di Bernie Sanders at Westminster College di Fulton, in Missouri, il 20 settembre 2017 


  

Churchill riconsiderò la Seconda guerra mondiale descrivendola come una lotta ideologica per la democrazia e i diritti umani contro i fascisti. Voleva che gli americani capissero che, a partire dal 1946, Stalin e i sovietici rappresentavano una sfida equivalente. Voleva che gli Stati Uniti resistessero. E, al Westminster College, nel settembre del 2017, sullo stesso palco, Bernie Sanders, dopo aver detto tutte le cose giuste per dimostrare la buona fede della sua posizione di default, offrì un ampio richiamo agli argomenti internazionalisti e antitotalitaristi di Winston Churchill.

 

Questa non era la posizione predefinita della sinistra americana. Nemmeno storicamente l’ammirazione per Churchill è stata mai un sentimento di sinistra. Il Partito socialista americano era ridotto a un soffio nel 1946 o giù di lì, ma dal vecchio partito era emersa una manciata di individui e di circoli politici che si era riunita a formare una fazione o un tendenza, con una forza istituzionale e un budget del sindacato dei lavoratori e di pochi altri esponenti del movimento operaio. Era una fazione socialdemocratica. I suoi membri si consideravano più cocciuti e più informati sugli affari del mondo rispetto ai liberal tradizionali. E mai questi socialdemocratici americani avrebbero scelto Churchill come loro eroe. Churchill era un conservatore. Era nemico del totalitarismo, ma era amico dell’imperialismo britannico. Se i socialdemocratici avessero voluto celebrare un eroe, avrebbero potuto guardare a loro stessi o ad alcuni dei loro compagni nel Partito laburista o nei sindacati britannici. Avrebbero potuto optare per Harry Truman, che era, almeno, un liberal.

  

Bernie Sanders nel 2017 invece applaudì Churchill. Forse perché era su quel palco storico. Ma attribuì anche agli Stati Uniti una vocazione a promuovere la democrazia in tutto il mondo, e questo era un punto che, nel 1946, i socialdemocratici americani, o almeno molti di loro, avrebbero approvato. Il suo concetto di promozione della democrazia non aveva connotazioni militari, ma voleva essere serio riguardo a questa questione. Nel settembre del 2017, alle Nazioni Unite, Donald Trump aveva tenuto uno dei suoi numerosi discorsi sul mondo che non faceva nemmeno un’allusione al ruolo della Russia nelle elezioni del 2016. E a Fulton, in Missouri, il leader della sinistra americana ha detto: “A proposito, ho trovato incredibile che quando il presidente degli Stati Uniti ha parlato davanti all’Onu, non ha nemmeno menzionato quell’offesa. Bene, lo farò io. Oggi dico al presidente Putin: non ti permetteremo di minare la democrazia americana o le democrazie in giro per il mondo. Il nostro obiettivo non è soltanto rafforzare la democrazia americana, ma lavorare assieme ai sostenitori della democrazia in tutto il mondo, anche in Russia. Nella lotta della democrazia contro l’autoritarismo, abbiamo intenzione di vincere”.

 

Al Westminster College, nel settembre del 2017, Bernie Sanders, offrì un ampio richiamo agli argomenti internazionalisti e antitotalitaristi di Winston Churchill


  

IV

  

Un anno dopo, nell’ottobre del 2018, nel suo secondo discorso di politica estera, alla Johns Hopkins, gli omaggi a Winston Churchill erano spariti. Ma era rimasto qualcosa dell’istinto di Churchill assieme all’istinto di vedere nella guerra contro il fascismo un modello per le sfide a venire. Secondo l’interpretazione di Bernie: “Attualmente c’è una lotta dalle conseguenze enorme negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Ci sono due visioni in competizione. Da un lato, c’è un movimento crescente verso l’autoritarismo, l’oligarchia e la cleptocrazia”.

 

 Il secondo discorso di politica estera di Bernie Sanders alla John Hopkins University a ottobre 2018 


 

Ha appiccicato la parola “asse” a questo movimento in crescita: “Stiamo assistendo all’ascesa di un nuovo asse autoritario. I leader di questo asse possono differire sotto alcuni aspetti, ma condividono elementi chiave: l’intolleranza verso le minoranze etniche e religiose, l’ostilità verso le norme democratiche, l’antagonismo verso una stampa libera, la costante paranoia su complotti stranieri e la convinzione che i leader al governo dovrebbero essere in grado di utilizzare la loro posizione di potere per servire i propri interessi finanziari”.

 

Sanders attribuì aspirazioni globali agli autoritari, agli oligarchi e ai cleptocrati. “L’asse autoritario”, disse, “è impegnato a demolire un ordine mondiale post Seconda guerra mondiale che limita il suo accesso a potere e ricchezza”. Prese atto della presenza di “una rete di oligarchi multimiliardari che vedono il mondo come il loro giocattolo economico”. Sottolineò il ruolo svolto dal presidente americano: “Sebbene questa tendenza autoritaria non abbia certamente avuto inizio con Donald Trump, non c’è dubbio che altri leader autoritari si siano ispirati al fatto che il presidente della democrazia più antica e potente del mondo sta infrangendo le norme democratiche, sta violentemente attaccando i media indipendenti e il sistema giudiziario indipendente, e sta trasformando in capri espiatori i membri più deboli e vulnerabili della nostra società”. Sanders intravvide anche una soluzione: “Dobbiamo contrastare l’autoritarismo oligarchico con un forte movimento progressista globale che parli ai bisogni dei lavoratori, che riconosca che molti dei problemi che abbiamo di fronte sono il prodotto di uno status quo fallito. Abbiamo bisogno di un movimento che riunisca persone di tutto il mondo che non cercano solo di ritornare a un passato romantico, un passato che non ha funzionato per così tanti, ma che si vuole impegnare per qualcosa di meglio”.

  

Il discorso ricostruisce uno schizzo in miniatura degli eventi mondiali, disegnato con penna nera e senso del dramma. Strizza l’occhio ammirato all’espressione “autoritarismo oligarchico”. E’ una frase di Emmanuel Goldstein, personaggio di “1984”, libro di George Orwell. Non è “l’autoritarismo oligarchico” una descrizione buona del sistema politico di Putin? Naturalmente questo schizzo in miniatura omette alcuni particolari, cioè le realtà specifiche di ogni angolo problematico del mondo. Non dice nulla riguardo alle ideologie folli (a parte l’osservazione sull’Arabia Saudita, “una dittatura dispotica”, “chiaramente ispirata da Trump”, che ha dedicato gli ultimi decenni a sovvenzionare una “forma estrema di islam nel mondo”). Sanders non ha offerto granché in termini di politiche concrete, a parte il ritiro del sostegno americano alla guerra in Yemen e la riduzione del budget della Difesa, che sono opinioni convenzionali nel Partito democratico. Cosa propone quindi Bernie? Lui non lo dice. Mi chiedo quanto lavoro abbia messo per definire i dettagli programmatici. Ma il discorso è interessante non per i dettagli.

 

Tutti comprendono lo slogan “America first” di Trump. È un vecchio slogan. Lo ha preso in prestito dagli isolazionisti dell’American First Committee dei primi anni Quaranta, per i quali significava un’America che rinunciava ai principi di solidarietà democratica e che quindi aveva ben poche ragioni per essere coinvolta in conflitti all’estero – un’America che trasudava simpatia per i regimi fascisti d’Europa, e non era troppo entusiasta degli ebrei: un’America che calcolava precisamente i propri interessi. La versione di Trump significa praticamente la stessa cosa, a parte l’avversione specifica per gli ebrei, tranne qualche volta.

“America first” significa un’America che non si sente obbligata a difendere la democrazia o le istituzioni democratiche nel mondo, un’America che sente invece una simpatia per l’autoritarismo oligarchico e sostiene una visione entrate-uscite degli affari mondiali: un’America che considera l’idealismo come un inganno. Lo slogan non potrebbe essere più semplice, eppure esprime una filosofia più ampia – una filosofia arida, egoista, senza fantasia, sulfurea, rabbiosa, ma comunque una filosofia. E questa filosofia consente a Trump di porre la più grande delle domande di politica estera. Ad esempio: perché l’America dovrebbe difendere i propri alleati? Non sarebbe più furbo per l’America trattare gli alleati come partner commerciali, da respingere o abbandonare non appena il flusso di cassa prende la direzione sbagliata? La Nato non è una truffa antiamericana? E tutto ciò solleva una questione ancora diversa: qual è il modo giusto per rispondere a queste domande?

 

Hillary Clinton ha descritto le sue risposte nel suo libro elettorale con Tim Kaine, “Stronger Together”, nella sezione sulla politica estera. L’America, secondo Hillary, deve difendere i suoi alleati. E l’America dovrebbe essere riflessiva, attiva e generosa sul clima, sul commercio, sui diritti delle donne e sui diritti umani. Definì le sue posizioni in stile Clinton, cioè come una lista della spesa, ogni punto ben concepito, almeno ai miei occhi. Ma una lista della spesa potrebbe non essere la piattaforma ideale per affrontare grandi domande come: perché non aderire a una visione entrate-uscite della vita? E Hillary ha sì affrontato le grandi questioni, ma lo ha fatto principalmente invocando il tema principale della sua campagna, che era un culto della forza.

 

Ma qual è lo scopo della forza? In “Stronger Together”, ci ha detto che la sicurezza era lo scopo, proprio come se l’obiettivo minimo della superpotenza mondiale dovesse essere il suo massimo obiettivo. “Safer Together” era il titolo del capitolo sulla politica estera. “Sicurezza” era la parola di riferimento in alto su ogni pagina. Non spiegava mai perché la sua versione di sicurezza fosse preferibile a quella di Trump.

 

La superiorità dello schizzo in miniatura di Bernie Sanders risiede, credo, nella sua capacità di indicare cose che sono più grandi di una lista della spesa. La lotta mondiale per la democrazia e la giustizia è il suo scopo, e la solidarietà è il suo principio. L’evocazione di queste cose non risulta particolarmente sofisticata: i diplomatici nel pubblico alla Johns Hopkins devono aver mormorato: “Quest’uomo avrebbe bisogno di qualche consiglio”. Ma c’è qualcosa per cui vale la pena battersi, nello scopo e nel principio di Sanders. E parla dritto a Donald Trump.

  

“America first”, nella versione di Trump, suona come un appello a un ritiro americano dai conflitti mondiali. C’è un appello a un ritorno agli anni Quaranta, la richiesta che l’America smantelli tutto ciò che è uscito dalla vittoria americana nella guerra mondiale, l’avanzata della democrazia, le istituzioni internazionali, la nozione di una civiltà democratica.

 

E qualcosa nello schizzo in miniatura di Bernie riconduce allo stesso modo agli anni Quaranta – nel caso di Bernie, ad alcuni di quegli stessi socialdemocratici americani che pure non lo trattennero dall’elogiare Churchill, ma che appartengono ancestralmente al suo universo. Le persone che uscirono dal vecchio Partito socialista americano, Reinhold Niebuhr e pochi altri, furono proprio quelle che guidarono la battaglia culturale contro l’America First Committee. Niebuhr e i suoi compagni organizzarono un loro comitato, l’Unione per l’azione democratica, che era allo stesso tempo di sinistra e internazionalista, in favore di “una lotta su due fronti per la democrazia, in patria e all’estero”.

  

Questo comitato si è sviluppato in un’organizzazione più ampia denominata Americans for Democratic Action, con finanziamenti e sostegno politico da parte dei sindacati socialdemocratici, il che significava David Dubinsky e gli operai del settore dell’abbigliamento. E, negli anni di Truman, gli Americani per una azione democratica hanno svolto un ruolo fondamentale nel generare le idee post Seconda guerra mondiale, non del tutto false o disoneste (anche se a volte false e disoneste) relative a un impegno americano per la libertà in patria e nel mondo. I socialdemocratici e i loro amici liberal hanno visto il mondo in rovina dopo la guerra, e hanno visto la forza dell’America e gli ideali che potevano essere dell’America, e hanno cercato una politica estera che potesse essere conforme ai princìpi socialdemocratici o del New Deal, una politica internazionalista, democratica, pro lavoro, antitotalitaria e in generale a favore dello smantellamento degli imperi europei.

 

E’ questo che Bernie ha in mente per la nostra epoca: un internazionalismo progressista, con il punto di vista della classe operaia e con il potere americano come suo strumento? No, sarebbe troppo. In nessuno dei suoi discorsi Bernie ha contemplato l’utilizzo del potere americano. Né sembra aver contemplato quel tipo di politica estera indipendente o non governativa che, in passato, i sindacati socialdemocratici avevano esercitato. 

 

Tuttavia, da un discorso all’altro, qualcosa nel linguaggio di Bernie sembra andare in questa direzione, e questo spostamento solleva delle possibilità. Negli anni Quaranta era giunto il momento per l’America di adottare una politica estera radicalmente nuova, e la forza politica che intervenne per promuovere una nuova politica fu l’ala socialdemocratica della sinistra americana, un aspetto della storia americana che pochi ricordano. Perché non dovrebbe qualcuno della sinistra americana del nostro tempo, un libero pensatore, proporre una politica estera anche per questa nostra epoca? Se qualcuno dell’ala progressista del Partito democratico volesse rompere in modo netto con il modo di pensare della sinistra moderna, se qualcuno volesse rivivere alcuni degli istinti della sinistra socialdemocratica degli anni Quaranta, aggiornati e corretti per questa epoca completamente diversa, la porta non sarebbe aperta? Ma ho lasciato che i miei pensieri vagassero fuori dalla zona di ciò che è realistico.

  

V

  

In realtà, ci sono molti ostacoli a tale sviluppo, e uno di quegli ostacoli è la fastidiosa domanda di un fastidioso antisionismo in alcune parti della sinistra. E la carriera di Bernie Sanders mostra quanto fastidioso possa essere l’ostacolo antisionista. Winston Churchill era noto per la difesa del sionismo. Ma nel 1946, nel suo discorso a Fulton, non disse nulla riguardo agli ebrei e alle loro aspirazioni. E quando Bernie Sanders è salito sullo stesso palco nel 2017, anche lui non ha detto nulla, nemmeno una parola, su questo tema. Né ha fatto molto per compensare l’omissione nel discorso successivo. Ha dedicato a Israele una sola frase, accusando Trump di incoraggiare gli impulsi illiberali del governo di Benjamin Netanyahu – che era un’osservazione ragionevole, ma non rivelava nulla della sua visione più ampia. Come può Bernie aver detto così poco, quando così tante persone hanno chiesto la sua opinione?

 

Lui solo potrebbe dircelo. Tuttavia, posso indovinare gli sviluppi che potrebbero averlo portato a questo punto, cominciando dall’inizio. Le persone di ambienti come il suo, della working class immigrata ebraica, tendono a partire, nel modo più semplice e naturale, come simpatizzanti istintivi del progetto sionista; e la simpatia istintiva è stata la sua posizione di partenza. In uno dei suoi dibattiti nel 2016 con Hillary, Bernie ha descritto se stesso come uno “al 100 per cento pro Israele, nel lungo periodo”.

  

Sembra che Sanders non abbia prestato troppa attenzione a Israele negli anni a seguire. E ogni volta che lo ha guardato recentemente, lo spettacolo lo ha sorpreso. Ogni nuovo incidente violento tra israeliani e palestinesi lo porta a supporre che, dato il modo in cui l’equilibrio del potere è cambiato nel corso dei decenni, il conflitto deve sicuramente essere, in fondo, una battaglia tra la crudeltà israeliana e la giusta protesta palestinese. Rimprovera gli israeliani. Sottolinea la povertà a Gaza. Si congratula con qualsiasi campione della causa palestinese che parla un linguaggio di pace e ragionevolezza.

 

E poi, dopo aver rimproverato, sottolineato e applaudito, ha ripetutamente avuto l’impressione – o almeno così immagino – di inciampare in ulteriori e complicati dettagli, che lo portano a chiedersi se non è stato un po’ sbrigativo nell’esprimere una simpatia per questa o quella protesta palestinese. Ha condannato gli israeliani per la repressione della Grande marcia del ritorno palestinese negli ultimi mesi, che gli è sembrata un atto di eccessiva violenza contro una protesta fondamentalmente non violenta. Poi è andato avanti, enunciando una seconda, solenne, più recente, condanna, questa volta di Israele e di Hamas allo stesso modo, insieme, come se avesse recentemente iniziato a riflettere sul ruolo di Hamas nella protesta e le sue violente implicazioni.

 

Ha ripetutamente accolto nel suo staff o nella cerchia ristretta della sua campagna persone che condividono la sua sincera indignazione per la difficile situazione dei palestinesi ma che, dopo un po’, risultano non condividere la sua simpatia anche per gli israeliani. Linda Sarsour è stata una figura di spicco nella sua campagna del 2016 ed è diventata importante anche per il suo commento sul fatto che nulla è più spaventoso del sionismo. Questo non può essere piaciuto al vecchio kibbutznik. L’organizzazione Our Revolution è emersa dalla campagna del 2016 e, all’inizio del 2018, ha approvato la candidatura a governatore dell’Ohio di Dennis Kucinich, che sostiene Bashar el Assad nella guerra siriana. Bernie non può essere stato contento neanche di questo. Ha rifiutato di concedere il proprio sostegno personale a Kucinich (che ha perso le primarie). Eppure era bloccato dal fatto che, poiché si pensa che Our Revolution rappresenti il ​​suo stesso movimento, il nome di Assad e il suo erano inevitabilmente intrecciati assieme nei racconti politici dell’Ohio.

  

Gli autentici nemici di Israele nel pubblico americano sembrano notare il ronzio antisionista intorno a lui, e sono tenuti a chiedersi se, indipendentemente dalle sue origini ebraiche, Bernie sia uno di loro. Sperano che lo sia. E lui è continuamente obbligato a spiegare che è tutto un errore, e Israele non è, di fatto, raccapricciante ai suoi occhi. L’affermazione più eclatante che abbia mai fatto sul medio oriente è stata durante un incontro con i suoi elettori in Vermont, nel 2012: molti si aspettavano che lui denunciasse Israele per la guerra a Gaza di quell’anno. Sanders invece disse che Israele era finito sotto un attacco missilistico e che doveva difendersi. Si scaldò un po’, e quando alcuni iniziarono a pretendere una condanna da parte sua urlò: “Scusatemi, state zitti!” – la sua simpatia per un certo tipo di insulto antiisraeliano ha evidentemente dei limiti.

  

Non sarebbe intelligente mettere ordine in questa confusione? E un discorso di politica estera non sarebbe stato perfetto per farlo? Posso solo immaginare che, ogni volta che pensa di fare qualcosa del genere, il suo istinto politico lo trattenga. La posizione di default della sinistra americana moderna, come la descrive Walzer, non approva necessariamente di essere, come dice Bernie, “al 100 per cento pro Israele, nel lungo periodo”. Alle manifestazioni di Bernie, le folle esuberanti sono destinate a contenere un piccolo numero di guerrieri della giustizia sociale desiderosi di agitare le loro immaginarie scimitarre e cantare “From the river to the sea” insieme a un numero molto più grande di persone che possono soltanto mordersi la lingua – il che mi porta a dire che, tra il suo pubblico, c’è un serio bisogno di educazione politica. Bernie ama educare. L’oratoria didattica è il suo più grande dono. Adora educare, tuttavia, solo su temi domestici, economici e della classe operaia, con deviazioni occasionali sul riscaldamento globale. E il suo pubblico applaude. Ma è perché si attiene ai suoi temi.

  

L’uomo è in una fase di correzione. Lui e nessun altro è il leader che ha sdoganato la sinistra radicale marginalizzata e orientata alla protesta nel mainstream politico americano; ma, nel corso della campagna del 2016, si è astenuto dal dire ai suoi ammiratori dove posizionarsi in politica estera. Anche adesso, dopo aver iniziato a definire una politica estera per la sinistra, non ha offerto alcuna guida su Israele e Palestina in particolare, se non facendo alcune nomine di personale che aprono all’ondata di antisionismo. E arriva la marea, piena di voci che chiedono a gran voce di cancellare Israele dalla mappa.

 

Alcuni degli antisionisti che lui ha contribuito a definire come ammirevolmente progressisti finiranno per raggiungere il glamour nazionale. Questo potrebbe essere già avvenuto in Michigan con l’elezione al Congresso di Rashida Tlaib, che mostra un vigore a difesa dei diritti dei lavoratori, ma è anche una paladina della scomparsa di Israele. Tlaib è un altro membro dei nuovi Socialisti democratici che boicottano Israele. E con qualche altra vittoria di persone attraenti come lei, finiremo per scoprire che la crisi europea della sinistra radicale ha attraversato l’oceano.

  

Mi sono già occupato (nella prima puntata di questa serie, ndr) della possibilità che, sotto una pressione antisionista, la cultura della sinistra liberale in America possa cominciare a piegarsi e collassare, come è già accaduto in vaste parti della sinistra del Regno Unito, della Francia e di altri luoghi. C’è la possibilità che “From the river to the sea!”, che è una chiamata al pogrom, inizierà a farsi sentire nel Partito democratico stesso, e che lo spirito di antirazzismo e di tolleranza e di difesa dei diritti universali subirà qualche sconfitta. Qualcosa del genere potrebbe succedere, sì. E’ immaginabile. Se è successo al Labour britannico, perché non ai democratici?

   

VI

  

Eppure, eppure, quando metto insieme le somiglianze della sinistra da questa e l’altra parte dell’Atlantico, inciampo sempre sulle differenze. Basta guardare le biografie dei leader principali. I leader britannici, francesi e americani della sinistra radicale, tutti quanti, provengono dagli ambienti tradizionali – in un angolo o nell’altro – della sinistra pura e autentica degli anni Sessanta: questi angoli però non sono identici. L’inglese Jeremy Corbyn esce dal terzomondismo radicale della New Left britannica degli anni Sessanta, Jean-Luc Mélenchon, ora leader della France insoumise, esce dal trotzkismo francese di quegli stessi anni (cioè l’Organizzazione comunista internazionalista di Pierre Lambert, una fazione semiclandestina per qualche tempo moderatamente influente all’interno del Partito socialista francese). Tutte correnti marxiste, in ogni caso. Entrambi hanno mantenuto un tratto marxista su anticapitalismo e questioni internazionali.

 

 

Secondo Berman, l'approccio alla politica estera del leader laburista Jeremy Corbyn è diverso da quello di Bernie Saunders (Foto LaPresse)


 

Questo approccio li porta a guardare con ostilità all’Unione europea e all’alleanza occidentale nel suo complesso (perché l’alleanza occidentale è la struttura di potere del capitalismo e dell’imperialismo). Questo approccio li porta a guardare con un certo grado di simpatia a Vladimir Putin (perché, anche se lo stile di destra di Putin non è il loro, il suo rifiuto del potere occidentale rappresenta una specie di resistenza anticapitalista, quindi va applaudito, e non è stata la rivoluzione ucraina del 2014 un colpo di stato antidemocratico ? Così la vede in particolare Mélenchon). Una propensione decisa a coltivare fantasie insensate su regioni remote del globo ha dominato l’immaginazione marxista negli ultimi cento anni, e tale tendenza induce sistematicamente Corbyn e Mélenchon, entrambi, a coltivare una fantasia europea sull’esotico Terzo mondo – una storia romanzata della nobile e selvaggia resistenza araba contro gli odiati colonialisti sionisti, nel caso di Corbyn (anche se ammira pure i marxisti latinoamericani), e una storia romanzata dei dittatori latinoamericani, nel caso di Mélenchon.

 

Bernie Sanders ha attraversato la sua fase di socialismo settario all’Università di Chicago nei primi anni Sessanta, che lo ha portato nella Young People’s Socialist League (Ypsl), la filiale giovanile del vecchio Partito socialista, o ciò che ne rimaneva, unita con i socialdemocratici sindacalizzati brizzolati degli anni Trenta, la Social Democratic Federation. L’organizzazione Sp-Sdf non era molto grande all’inizio degli anni Sessanta, ma non era nemmeno insignificante: era al centro del movimento per i diritti civili di quegli anni e sulla politica estera era rigorosamente contraria alle fantasie.

 

Forse Bernie non era molto uno degli Ypsl. Circa vent’anni dopo, quando era sindaco di Burlington, in Vermont, diede l’appoggio ufficiale al movimento di solidarietà con il Fronte di liberazione nazionale sandinista in Nicaragua, che alcuni degli anticomunisti della Sp-Sdf degli anni Sessanta gli avrebbero sconsigliato – anche se alcuni avrebbero approvato, dato che all’inizio i sandinisti promisero di essere democratici. La solidarietà sandinista sembra essere stata, in ogni caso, un episodio strettamente secondario nella carriera di Bernie. Per lo più il suo pensiero di politica estera si è conformato alla modalità predefinita descritta da Walzer, e questa nuova fase emerge soltanto ora, con una tendenza che assomiglia a un internazionalismo socialdemocratico. Tutto ciò gli conferisce una dimensione e qualità diversa rispetto a qualsiasi cosa si possa vedere nei suoi omologhi europei. Tra i simpatizzanti europei di Putin c’è un punto critico gelido nei confronti degli ebrei e dello stato ebraico – ghiacciato nel caso di Corbyn. Ma nel nemico americano dell’autoritarismo oligarchico questo punto è caldo.

  

Gli antisionisti e i sostenitori dei regimi autoritari che sono tra i fan di Bernie lo trovano frustrante per queste stesse ragioni. Potete leggerne ampiamente sul sito Truthdig, dove Sanders appare come uno che svende le idee della sinistra radicale, un non-socialista perché non sufficientemente antiimperialista e uno strumento del sulfureo Partito democratico. Gli antisionisti e i sostenitori delle fantasie autocratiche sognano un Corbyn americano. Sognano un leader nazionale che possa rendere realistiche le loro finzioni e le fantasie su dittatori lontani, e che le introduca nel mainstream americano, dicendo cose carine su Hamas e cose cattive su Israele, pronunciando un terribile discorso alla convention democratica, stando a braccetto con i più fanatici, e cacciando chiunque abbia un’anima ebraica dalla sinistra.

 

Ma l’America non ha prodotto un leader così. L’America ha prodotto Bernie Sanders. L’America è diversa, non sempre diversa, ma in questo sì, diversa. Perché? Alla prossima puntata.

  

Per gentile concessione di Tablet Magazine che ha pubblicato in inglese questo articolo su tabletmag.com

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