Foto di Filippo Attili, via LaPresse 

un'indagine

Sull'energia serve un'Europa unita. Le sfide e qualche idea per il governo che verrà

Carlo Stagnaro

L’Italia di fronte all’imperativo di frenare il caro bollette (e al bazooka tedesco). Perché conviene battersi per un meccanismo di redistribuzione a livello europeo abbandonando alcune battaglie sbagliate, come quella per il price cap

Tutti gli stati membri dell’Unione europea hanno impegnato una fetta consistente del rispettivo bilancio per frenare l’aumento delle bollette. A oggi, l’Italia ha già speso o impegnato 60 miliardi di euro, pari a 3,3 punti di pil: più di noi hanno fatto solo Grecia e Croazia. La stessa Germania finora si era dimostrata relativamente accorta, avendo mobilitato circa il 2,8 per cento del pil. Adesso, il bazooka da 200 miliardi (5 per cento del pil) sembra scombinare i giochi e segnare un sorpasso pericoloso da parte di Berlino, all’insegna dell’ognuno per sé. In uno dei suoi discorsi più noti ed efficaci, il 10 ottobre 1980, Margaret Thatcher si chiedeva cosa avrebbe potuto impedire alla Gran Bretagna di tornare a prosperare. “Sarà forse la prospettiva di un altro inverno di scontento? Suppongo che potrebbe. Ma preferisco credere che con l’esperienza abbiamo appreso alcune lezioni, che arriveremo, lentamente e con fatica, a un autunno di comprensione. E spero che dopo verrà un inverno di buonsenso”. Un autunno di comprensione è proprio ciò che servirebbe a Giorgia Meloni per affrontare un inverno che si preannuncia durissimo a causa della crisi energetica. Il cambio del testimone a Palazzo Chigi offre un’occasione unica per fare un tagliando alla linea seguita fin qui, confermando le iniziative che si sono rivelate utili e rivedendo, correggendo o abbandonando quelle che non hanno dato frutti. 

 

Tutti i governi europei – incluso quello italiano – hanno battuto finora tre strade parallele: la ricerca di nuovi approvvigionamenti di gas per sostituire quello russo; l’utilizzo della spesa pubblica per schermare i consumatori dai prezzi record; e l’adozione di misure più o meno strutturali per prevenire un impatto distruttivo sull’economia. Questa marcia disordinata ha prodotto un proliferare di misure nazionali, da cui sono scaturite anche tensioni tra gli stati membri e tra essi e la Commissione europea. Contemporaneamente, si fatica a vedere un disegno comune per affrontare un problema che ha una dimensione evidentemente europea, pur con impatti molto diversi tra i vari paesi. La principale proposta della Commissione, quella di una riduzione coordinata dei consumi con un target del 15 per cento, è stata rapidamente svuotata e annacquata. Le idee degli stati membri – tra cui il price cap italiano – sono cadute nel gioco dei veti incrociati. Sicché ognuno ha fatto per sé, mettendo a disposizione risorse ingenti per mitigare gli aumenti. Questo precario equilibrio si è rotto definitivamente giovedì 29 settembre, quando – alla vigilia di un Consiglio straordinario sull’energia – Berlino ha annunciato un maxi-pacchetto da 200 miliardi di euro per creare uno “scudo” contro il caro-bollette.

 

Il pessimo tempismo e la vaghezza con cui la manovra è stata rivelata hanno scatenato reazioni furiose, non senza qualche giustificazione. Persino Mario Draghi, solitamente misurato nei giudizi, ha detto che “davanti alle minacce comuni dei nostri tempi, non possiamo dividerci a seconda dello spazio nei nostri bilanci nazionali. Nei prossimi Consigli europei dobbiamo mostrarci compatti, determinati, solidali – proprio come lo siamo stati nel sostenere l’Ucraina”. Il premier ha fatto bene a sottolineare il nesso tra l’unità necessaria nelle decisioni di politica energetica e quella, ancora più importante, sull’Ucraina. Il rischio di una frammentazione distruttiva è evidente. 
Fortunatamente, non tutto è perduto e forse alcune reazioni sono state esagerate. Non solo la composizione della manovra tedesca è meno controversa e dirompente di come inizialmente sembrava, anche perché lo stanziamento copre spese in parte già sostenute e comunque si estende sul biennio 2023-24. Più importante, proprio la discussione che ne è scaturita ha posto le premesse per aprire un nuovo capitolo nel negoziato europeo. 

 

La strada l’hanno indicata i commissari Paolo Gentiloni e Thierry Breton, in un intervento a doppia firma su vari giornali europei: “Per superare le falle causate dai diversi margini di manovra dei bilanci nazionali, dobbiamo pensare a strumenti mutualizzati a livello europeo”. Per rispondere a questa sollecitazione – e reagire alla freddezza con cui è stata accolta anche a Bruxelles – occorre partire anzitutto dalle politiche già messe in atto e circoscrivere le battaglie da combattere.

 

Sotto questo profilo, la sfida per Meloni sarà triplice: razionalizzare, focalizzare e migliorare il disegno della spesa emergenziale a livello nazionale; rilanciare in Europa la proposta della Commissione di riduzione coordinata dei consumi attraverso strumenti volontari; e uscire dal vicolo cieco del price cap, la principale proposta dell’Italia in Europa che però non sembra trovare consenso né nella sua versione originale, né in quella del “corridoio” portata venerdì a Praga. Poiché tutti i partiti in campagna elettorale si sono schierati invece a favore di tale strumento, è bene partire da qui, per poi mettere a fuoco lo spazio (fiscale e politico) a livello nazionale ed europeo, e infine volgere lo sguardo al lungo termine.

 

Il price cap

Mesi di ostinato lavoro hanno consentito al governo italiano di coagulare attorno alla proposta del price cap quindici stati membri, tra cui la Francia. Nei fatti, però, l’unità è solo apparente perché ciascuno di essi interpreta in modo differente la proposta. Il ministro Roberto Cingolani si è assunto l’incarico di arrivare a una proposta unitaria, che alla fine ha raccolto l’appoggio di Grecia, Polonia e Belgio. Si tratta di una variazione abbastanza complessa dell’ipotesi di cap, che prevede una sorta di corridoio dinamico con una banda di oscillazione tra valori massimi e minimi a cui il gas potrebbe essere importato e scambiato. Il cuore del meccanismo, però, rimane quello presentato in un seminario tecnico con gli stati membri lo scorso 7 settembre. 

 

Esso prevede di modificare le regole di tutti i principali hub europei dove si scambia il gas (dal famigerato Ttf fino all’italiano Psv), stabilendo un livello di prezzo massimo (ed eventualmente uno minimo) oltre il quale i contratti di compravendita non potrebbero essere registrati. Questo avrebbe un impatto diretto sui modesti volumi scambiati sulle piattaforme europee, e indiretto sui contratti di importazione che a essi sono indicizzati. Inoltre, si applicherebbe anche a tutti gli scambi bilaterali di gas all’interno del territorio dell’Unione, agendo quindi – de facto – come un tetto indiretto anche ai prezzi retail. Nei confronti delle importazioni via tubo, il tetto sarebbe una sorta di “prendere o lasciare”: il gas che arriva attraverso i gasdotti internazionali non può essere indirizzato altrove, se non realizzando nuove infrastrutture. Al contrario, l’import via nave – che oggi rappresenta quasi la metà del totale, a livello europeo – rischierebbe di sfuggire, se altri paesi extra-europei pagassero un prezzo superiore al nostro cap. Pertanto, la proposta italiana prevede che, qualora questo si verifichi, possano intervenire gli stati versando la differenza tra i prezzi globali del Gnl e il cap interno.

 

La proposta è ben congegnata e intellettualmente elegante, ma ha alcuni punti deboli. Il primo sono le complessità amministrative: una conseguenza potrebbe essere quella di svuotare il Ttf, che è una borsa non regolamentata ma relativamente liquida, facendo spostare gli scambi verso altre piattaforme ancora più opache. Nota bene: mentre questa eventualità è vista come un rischio dalla maggior parte degli analisti, essa sembra essere addirittura un obiettivo per il governo italiano. La seconda questione riguarda la difficoltà pratica ad applicare il cap a migliaia di scambi bilaterali. Ma il problema più grosso è di altro tipo. Lo ha rilevato la stessa Commissione europea in un “non-paper” che valuta le diverse opzioni e, pur senza citare l’Italia, risponde esplicitamente al nostro progetto.

 

Si legge nel documento: “Quando il tetto viene raggiunto, per definizione significa che in quel momento c’è più domanda che offerta di gas. Poiché è probabile che il cap sia raggiunto simultaneamente in più stati membri, non ci sarebbe alcun incentivo di mercato a garantire i flussi trans-frontalieri di gas attraverso i differenziali di prezzo”. A quel punto, sarebbe necessario definire in via amministrativa i criteri per la distribuzione del gas tra gli stati membri. Anche ignorando gli aspetti giuridici, le astrusità pratiche e i tempi necessari sarebbero immensi, anche perché ogni stato tirerebbe dal suo lato una coperta troppo corta per definizione. L’economia è come un sistema di vasi comunicanti: se si mette un tappo in punto, bisogna poi mettere infiniti tappi in altri punti, e il rischio è di perdere completamente il controllo del sistema e scoprire che il punto di arrivo è persino peggiore di quello di partenza. La seconda versione del piano, quella del corridoio, aggiunge complessità anziché ridurle, ipotizzando tra l’altro diverse procedure a seconda che l’offerta sia sufficiente, limitata o insufficiente a soddisfare la domanda. 

 

Il paradosso, comunque, è che quanto più si spinge verso un tetto al prezzo, tanto più bisogna prepararsi a “supply disruptions”, per usare il lessico esplicito della Commissione. Ma proprio l’Italia è stata tra i paesi più determinati nell’annacquare il progetto europeo di riduzione dei consumi del 15 per cento, ottenendo tali e tante deroghe che il nostro obiettivo nazionale è praticamente raggiunto anche senza fare nulla più di quanto abbiamo già (meritoriamente) programmato. Come insegna la storia – da Diocleziano in poi – un tetto ai prezzi si trascina sempre appresso un serio rischio di riduzione dell’offerta, perché azzoppa l’incentivo economico a portare il bene da dove è relativamente più abbondante a dove ce n’è maggior bisogno. Quindi, non si può ragionare di price cap senza contemporaneamente predisporre un piano duro di razionamento, specialmente in un contesto in cui l’inadeguatezza dei volumi disponibili è una eventualità concreta anche sotto scenari relativamente ottimistici.

 

La stessa Ursula von der Leyen lo ha ribadito proprio mentre sembrava aprire al price cap sul gas. Nella lettera inviata agli stati membri alla vigilia del Consiglio del 7 ottobre, la presidente della Commissione Ue ha scritto: “Propongo di collaborare per limitare i prezzi del gas… Nell’attesa di introdurre un indice [alternativo al Ttf], dovremmo considerare un limite ai prezzi in relazione al Ttf, in modo tale da continuare a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti di gas all’Europa e a tutti gli stati membri e da dimostrare che l’Ue non è pronta a pagare qualunque prezzo”. Tuttavia, “poiché l’Ue importa quasi tutto il gas che consuma, maggiore è l’intervento sui prezzi che abbiamo in mente, maggiore sarà lo sforzo di riduzione della domanda e di solidarietà interna di cui avremo bisogno. Dobbiamo pertanto riconoscere il rischio che è connaturato a un price cap e mettere in atto le necessarie salvaguardie”, cioè “obblighi più stringenti di riduzione della domanda”. Ma allora bisogna chiedersi se sia più sostenibile – economicamente e politicamente – un intervento a gamba tesa sui mercati, fatto di tetti ai prezzi e razionamenti amministrativi della domanda, o se invece non sia meglio partire dalla fisiologia dei mercati stessi per spingerli nella direzione voluta.

 

La scelta è brutalmente questa: da un lato lasciar funzionare i mercati e accettare prezzi potenzialmente più alti, in modo tale che siano questi a guidare le riduzioni della domanda. Dall’altro, porre un tetto ai prezzi e spostare dall’economia alla politica la decisione su come ripartire i razionamenti. Il prezzo di un price cap, per così dire, è il lockdown energetico. E se, invece di partire dai prezzi, partissimo dalle quantità e cercassimo di agire su queste, per spingere quelli al ribasso?

 

Di più non dimandare

Fino all’estate, i consumi di energia elettrica e gas sono sembrati praticamente insensibili ai prezzi record.  Poi si è cominciato a osservare un cambiamento, che si è presto trasformato in slavina. Il fenomeno riguarda soprattutto l’industria, che ha ridotto la domanda di gas del 22,5 per cento nel mese di settembre rispetto all’anno precedente. Molto meno le famiglie, che comunque fanno registrare una flessione attorno al 9 per cento. 
Il calo dei consumi delle imprese corrisponde a una simmetrica riduzione della produzione industriale, primo segnale di una recessione potenzialmente alle porte. Si tratta, probabilmente, di un male necessario, ma va affrontato con ragionevolezza: da un lato evitando – dove possibile – che i rallentamenti produttivi si trasformino da temporanei a permanenti (cioè da fermi provvisori a chiusure definitive); dall’altro intervenendo per prevenire disparità eccessive a livello europeo, che potrebbero alterare il panorama competitivo. Su questo torneremo più avanti. 

 

La riduzione della domanda è una strettoia ineludibile nei prossimi mesi. Il governo ha lanciato messaggi tranquillizzanti per tutta l’estate, rassicurando che non avremmo avuto problemi con le forniture. All’epoca c’era, forse, il beneficio di qualche dubbio. Oggi tale beneficio è scomparso. È possibile che, in termini aggregati, arriveranno nel corso dei prossimi mesi tutti i metri cubi di gas necessari: ma è più che probabile che vi saranno giornate in cui il flusso in tempo reale, anche tenendo conto delle quantità stoccate, non sarà sufficiente a soddisfare la domanda. È dunque necessario prepararsi, specie se l’inverno sarà lungo o freddo (o entrambe le cose) e se la Russia continuerà a tirare la corda. L’Agenzia internazionale dell’energia ha avvertito che, in caso di interruzione del gas russo, anche se tutto il resto andasse per il meglio, il livello degli stoccaggi europei scenderebbe sotto il 20 per cento già a febbraio. Lasciandoci in seria difficoltà durante la coda della stagione e aprendo un enorme interrogativo riguardo la nostra capacità di riempire nuovamente le riserve entro l’avvio dell’inverno successivo. 

 

La riduzione della domanda è l’unica leva disponibile nell’immediato. Avrebbe dovuto essere azionata fin dall’inizio dell’estate, per favorire il riempimento degli stoccaggi e ridurre la tensione sui prezzi. Non avendolo fatto ieri, è essenziale farlo oggi. Ciò significa, anzitutto, informare e sensibilizzare i consumatori, aiutandoli a comprendere che anche piccoli risparmi possono avere effetti importanti sui corsi del gas. E spiegando loro come fare, senza soverchi sacrifici, a tenere sotto controllo i consumi. Il governo si è finalmente mosso, cercando di massimizzare l’utilizzo di fonti energetiche diverse dal gas (per esempio il carbone nella generazione elettrica) e imponendo un primo vincolo all’uso dei riscaldamenti (quindici giorni in meno e riduzione di un’ora al giorno). 

 

Il grosso dello sforzo, però, ricadrà inevitabilmente sulle imprese, che pertanto vanno ingaggiate con un duplice obiettivo: ridurre i volumi domandati e, all’occorrenza, tagliare il consumo con scarso preavviso per contribuire a superare i picchi di domanda in assenza di offerta commisurata. A tal fine è necessario elaborare (e condividere) un piano di intervento rapido. Ma è ancora più importante seguire un suggerimento della Commissione europea, che pare finora caduto nel vuoto: cioè creare incentivi economici al risparmio di energia, che possono riguardare soprattutto le grandi imprese. Per esempio, si può immaginare il ricorso alla cassa integrazione straordinaria per coprire il costo del lavoro a quelle imprese che, almeno un giorno alla settimana, sospendono l’attività nei periodi più critici (soprattutto i primi mesi dell’anno). Oppure spingere aziende e sindacati a concordare modifiche dell’orario di lavoro tali da minimizzare il consumo energetico a parità di prodotto. 
Incentivi economici al risparmio energetico sembrano contraddire uno dei pilastri della politica seguita finora dal governo, cioè l’impiego di risorse massicce per attenuare i rincari. In fondo, che senso ha sussidiare sia il consumo (attraverso gli sgravi) sia il risparmio di energia? Infatti, il disegno degli aiuti va ripensato: oggi è terribilmente inefficiente. E qui, ci può venire in soccorso l’odiata Germania. 

 

Lo strappo tedesco 

Anche la Germania, come tutti, ha deciso di intervenire per mitigare l’impatto economico dei rincari. Lo ha fatto in modo più accorto rispetto ad altri (tra cui l’Italia), che hanno dedicato solo una porzione minore delle risorse a interventi selettivi. Gli sgravi introdotti dal nostro paese, applicandosi indifferentemente a tutte le tipologie di consumatori e a qualunque livello di consumo, agiscono come un incentivo implicito alla domanda. Rischiano, dunque, di aggravare le cause del problema alleviandone i sintomi. In più, costano tantissimo: si è tanto polemizzato sui 200 miliardi annunciati da Scholz (il 5 per cento del pil) per il prossimo biennio. Non è stato altrettanto sottolineato che, finora, la Germania ha speso “solo” il 2,8 per cento del pil, mentre l’Italia ha già messo sul piatto il 3,3 per cento e, se le misure in scadenza saranno prorogate fino a fine anno, supererà agevolmente il 3,5 per cento. 

 

Il maxi-piano tedesco poggia su due pilastri: il supporto finanziario alle famiglie (e, forse, alle imprese) e un fondo di emergenza a sostegno della liquidità dei venditori e trader di elettricità e gas. L’uno assume la forma di un “freno” ai prezzi: in pratica, lo stato sussidia il consumo fino a una certa soglia (circa l’80 per cento della domanda di una famiglia “frugale”), pagando la differenza tra un prezzo ritenuto congruo e il costo di mercato di luce e gas. Oltre quella soglia, i consumatori dovranno farsi carico del costo pieno dei prodotti energetici. L’intuizione di base consiste nel fatto che, in tal modo, si fornisce effettivo sollievo alle finanze domestiche, senza tuttavia rimuovere l’incentivo implicito al risparmio: infatti, chi molto consuma, moltissimo pagherà. 

 

L’altro elemento della strategia tedesca è un fondo per supportare la liquidità e, in casi estremi, provvedere al salvataggio delle imprese di vendita. L’intervento più importante, a dire il vero, è già stato varato poche settimane fa, con la nazionalizzazione temporanea di Uniper, il maggior importatore tedesco di gas che serve circa il 40 per cento delle famiglie. Garantire la liquidità delle imprese di vendita della luce e del gas è necessario per evitare che esse finiscano strangolate dagli oneri finanziari che devono sostenere per coprirsi contro la volatilità dei prezzi (le cosiddette marginazioni). Se non lo facessero, esporrebbero sé stesse e i propri clienti a rischi enormi. Inoltre, le incertezze finanziarie spingono i venditori a un eccesso di cautela, sicché molte imprese consumatrici, specie di medio-grandi dimensioni, faticano a trovare un fornitore per coprire i propri consumi attesi. In Italia, anziché riconoscere tale condizione drammatica, abbiamo scambiato gli operatori del mercato dell’energia per galline dalle uova d’oro, imponendo misure come l’obbligo di rateizzazione, il divieto di adeguare i contratti di vendita all’andamento dei mercati e, naturalmente, la tassa sugli extraprofitti. Insomma: anziché essere parte della soluzione, la politica economica del governo è stata (ed è) parte del problema. 

 

A ogni modo, misure di supporto focalizzato a famiglie e imprese sarebbero meno dispersive e più efficaci, pur nella consapevolezza che lo spazio di bilancio è quello che è. Per l’Italia non è possibile correre alla stessa velocità di un paese, come la Germania, che ha un bilancio sano e pertanto maggiore spazio fiscale. (Anche questa è una lezione che la politica italiana prima o poi dovrebbe apprendere). È dunque vero che la diversa potenza di fuoco rischia di generare condizioni molto diverse tra le imprese italiane e tedesche, e di generare distorsioni potenzialmente significative tra quelle che competono le une con le altre. Come hanno scritto Simone Tagliapietra, Jeromin Zettelmeyer e Georg Zachmann, “il rischio principale del pacchetto consiste nel suo potenziale di sconvolgere il mercato interno europeo. In assenza di una risposta fiscale europea comune, i governi che dispongono di un maggiore spazio fiscale saranno inevitabilmente in grado di gestire meglio una crisi… Se il freno al prezzo del gas in Germania fa sì che le imprese tedesche abbiano maggiori possibilità di sopravvivere alla pandemia rispetto, ad esempio, a quelle italiane, ciò aggraverebbe ulteriormente le divergenze economiche nell’Ue e minaccerebbe l’unità europea nei confronti della Russia” (La Stampa, 3 ottobre 2022).

 

Anzi, la situazione è ancora peggiore. Mentre il nostro governo era impegnato a promuovere il price cap sul gas, non si è accorto delle conseguenze del nuovo regolamento europeo sui rincari elettrici, in vigore da oggi. Esso impone un tetto (180 euro / MWh) sul valore dell’energia elettrica generata da fonti diverse dal gas. Qualora i prezzi di mercato siano superiori, i produttori che si trovano in questa condizione (carbone, nucleare e rinnovabili) dovranno restituire la differenza, in modo che essa sia utilizzata a vantaggio dei consumatori. Si tratta di un meccanismo concettualmente simile a quello introdotto in Italia dal decreto sostegni-ter, che colpisce alcuni impianti rinnovabili (principalmente quelli fotovoltaici, eolici e idroelettrici più vecchi) imponendo un tetto di 60-70 euro / MWh.

 

L’applicazione di questo meccanismo a livello europeo avrà l’effetto di ridurre ovunque i prezzi dell’energia elettrica, attraverso la redistribuzione di parte delle cosiddette rendite inframarginali. Tuttavia, le conseguenze saranno assai differenziate tra paesi: per esempio la Francia, che utilizza il gas solo per il 10 per cento della sua energia, potrebbe catturare e restituire le rendite sul restante 90 per cento; la Germania sull’80 per cento. L’Italia è il paese europeo che ha più gas nel proprio mix: quindi lo spazio a nostra disposizione è inferiore al 60 per cento. Il risultato è che, pur pagando prezzi inferiori a oggi, le nostre imprese potrebbero sostenere un costo energetico superiore rispetto a quelle tedesche e francesi. E qui siamo a un altro paradosso: lo svantaggio competitivo sarà la conseguenza diretta di una scelta di policy, che il governo Draghi difficilmente può contestare sia perché finora se ne è disinteressato, sia perché essa replica una scelta che noi per primi abbiamo compiuto.

 

E lo stesso problema dovrebbero porselo tutti quelli che avanzano immaginifici progetti di “disaccoppiamento dell’energia elettrica dal gas”, come andava di moda dire in campagna elettorale. Se c’è una misura che rischia di produrre danni di breve e lungo termine, è proprio la distruzione del funzionamento dei mercati elettrici nel nome di un beneficio effimero nell’immediato con, in più, la conseguenza inintenzionale di causare uno svantaggio competitivo alle imprese italiane. Il cambio di governo apre una finestra di opportunità unica per aggiustare le nostre posizioni in Europa, chiedendo l’utile (per esempio un serio meccanismo di perequazione interna) anziché l’impossibile e dannoso (il price cap e le sue variazioni). 

 

Continuità e discontinuità

Ecco allora che torniamo al punto di partenza: i nuovi ministri della Transizione ecologica e dello Sviluppo economico, e la futura premier, dovranno sbrogliare una matassa che è sommamente ingarbugliata. Ma possono cominciare tirando il lembo che gli viene porto da Gentiloni e Breton: provare a costruire un fronte comune con altri paesi per introdurre elementi di mutualizzazione degli sforzi, sulla scorta del Sure utilizzato con successo durante la pandemia. La giustificazione di un intervento comune europeo sta proprio nelle premesse che abbiamo visto: l’impatto della crisi energetica è asimmetrico tra paesi; e lo è, spesso anche se non esclusivamente, in forza di scelte di policy compiute proprio a livello europeo. Ne sono esempi il citato regolamento sul funzionamento dei mercati elettrici e la scelta (dovuta soprattutto alla opposizione francese) di non integrare fino in fondo le reti elettriche e gas europee, tra l’altro lasciando pressoché isolata la penisola iberica. A causa di ciò, Spagna e Portogallo hanno ancora una significativa capacità di rigassificazione inutilizzata, perché non c’è modo di trasportare il gas verso est dove, invece, alcuni paesi sono quasi interamente esposti agli umori del Cremlino.

 

Oltre tutto, mai come oggi la richiesta di un intervento europeo – che presuppone anche il mantenimento dei vincoli di bilancio – è stata nell’interesse italiano: non sono in pochi a chiedere nuovamente un rilassamento del divieto di aiuti di stato, come durante il Covid. Se ciò avvenisse, allora sì che i paesi con maggiore spazio fiscale potrebbero fare il bello e il cattivo tempo, cannibalizzando il mercato altrui: avrà Meloni la forza di chiedere più rigore europeo, per evitare che proprio quel lassismo che per anni abbiamo (e ha) invocato e praticato si ritorca contro di noi? 

 

Si tratta di un compito difficile, anche perché il fuoco di sbarramento contro la suggestione di Gentiloni e Breton è già partito. Il prossimo governo può decidere di affiancare i commissari italiano e francese oppure di insistere nel vicolo cieco in cui si è ficcato il nostro paese, insistendo su una proposta che non convince, probabilmente non funziona e comunque è tecnicamente complicatissima. Per giocare di sponda con Gentiloni e Breton, Meloni dovrà perseguire ed enfatizzare ora la continuità, ora la discontinuità col governo Draghi. La continuità dove esso si è mosso in modo ineccepibile, dall’intenso sforzo compiuto per trovare nuovi fornitori di gas alla realizzazione dei rigassificatori fino alle semplificazioni per le fonti rinnovabili. Lo stesso Draghi, appoggiando la richiesta di un Sure dell’energia venerdì scorso, ha aperto uno spazio di cui Meloni può approfittare.

 

Ma non si può pensare di chiedere contemporaneamente il meccanismo redistributivo e lo squadernamento dei mercati energetici. Da qui l’esigenza di discontinuità. Che passa anche per un serio aggiustamento di rotta nel disegno delle politiche di aiuto ai consumatori, mostrando consapevolezza dei limiti del nostro bilancio pubblico (nel quale peraltro si possono ritagliare ampi margini, per esempio rimodulando il reddito di cittadinanza o il superbonus). 

 

Nel lungo termine, usciremo dalla crisi solo aumentando l’offerta di energia: la produzione nazionale di gas, le infrastrutture per l’import di gas, le pale e i pannelli. Forse anche il nucleare, visto che i partiti che compongono la nuova maggioranza si sono tutti espressi in modo esplicito a favore dell’atomo, durante la campagna elettorale. Ma nell’immediato bisogna comporre un puzzle complesso le cui tessere principali sono l’uso intelligente dei (pochi) denari pubblici, la riduzione dei consumi, e un paziente lavoro in Europa per combattere battaglie possibili anziché rimanere prigionieri di progetti (forse) belli ma politicamente impervi. 


L’inverno metterà tutti e ciascuno alla prova. Se vogliamo che allo scontento inevitabile segua la ripresa sperata, è necessario dedicare queste settimane autunnali alla riflessione e al riposizionamento strategico.