(foto LaPresse/Palazzo Chigi/Filippo Attili)

Gli Stati generali possono avere un senso se il governo passerà dal cosa al come

Veronica De Romanis

Se si vuole far ripartire il paese, occorre ricomporre subito la spesa a favore di interventi che daranno frutti più in là nel tempo

Per capire “cosa fare” per rilanciare l’economia italiana forse non c’è bisogno degli Stati generali. Gli ambiti d’azione sono noti visto che il governo li ha definiti nel Contratto di coalizione approvato lo scorso settembre dalle forze che compongono la maggioranza: pubblica amministrazione, giustizia, scuola, digitale, green, mercato del lavoro per giovani e donne, crescita inclusiva. Si tratta, peraltro, degli stessi ambiti che la Commissione europea identifica nelle sue raccomandazioni annuali. Sotto questo aspetto, non ci sarebbe stato neanche bisogno di invitare i rappresentanti delle istituzioni europee dal momento che – in collegamento virtuale con Villa Pamphilj – non hanno fatto altro che ribadire ciò che ripetono da molto tempo. La loro partecipazione è stata, tuttavia, utile per evidenziare la divergenza che permane tra Roma e Bruxelles sul “come fare” ossia su come trovare i finanziamenti. Per il governo italiano, le risorse sembrano non essere un problema. Lo ha confermato il ministro dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri, durante la conferenza stampa che ha chiuso i lavori della prima giornata. “Daremo a tutti quelli che hanno bisogno” ha spiegato. “Le risorse ci sono”. La posizione della Commissione europea è diametralmente opposta ed è arrivata per voce della presidente Ursula von der Leyen: le risorse non ci sono, e, per questo, ha spiegato “devono essere prese a prestito dai nostri figli”.

 

Mai come in questa crisi, il tema delle risorse prese a prestito che vanno a ingrandire il già enorme stock di debito pubblico sta passando in secondo piano nel dibattito politico. Il debito sembra non essere un problema complice la sospensione del Patto di stabilità e crescita e gli acquisti della Banca centrale europea (entro metà 2021 comprerà circa 300 miliardi di euro) che sono stati interpretati come un “via libera” alla spesa con soldi che non ci sono. Eppure, la sospensione delle regole è temporanea e l’intervento dell’Istituto di Francoforte non è né illimitato (come del resto non lo è nessuno delle altre banche centrali) né per sempre: finirà quando l’obiettivo in termini inflazionistici della Bce sarà stato raggiunto. E, così, il debito in rapporto al pil è previsto salire al 160 per cento, il secondo livello più elevato della zona euro dopo quello greco. 

 

 

Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha detto agli Stati generali che “la sostenibilità del debito pubblico non è in discussione”. Ma ha spiegato che ciò non significa che può continuare a crescere senza sosta. Sono necessarie “politiche di bilancio prudenti”. I piani d’azione individuati dal responsabile di Via Nazionale sono sostanzialmente tre. In primo luogo, la ricomposizione del bilancio che significa maggiori investimenti e spesa corrente lì dove serve (leggi meno previdenza e più sanità). In secondo luogo, il recupero della base imponibile che comporta una lotta all’evasione credibile e duratura nel tempo. In terzo luogo, una riduzione del premio per il rischio sui titoli di stato.

 

Anche queste indicazioni sono ben note. Nel Documento di economia e finanza dell’aprile scorso, il governo ha illustrato la strategia di rientro del debito che prevede “un congruo surplus primario (ossia più entrate dalla lotta all’evasione), il rilancio degli investimenti (e, quindi, più spesa in conto capitale) e, infine, un’attenuazione “dei rendimenti sui titoli di stato facilitata da riforme strutturali credibili”. Esattamente ciò che chiede Visco.

 

A conti fatti, dagli Stati generali è plausibile attendersi poche novità dal punto di vista dei contenuti del Recovery Programme. Ciò che poteva essere promesso dal governo è già stato promesso. La vera svolta, invece, potrebbe arrivare sul modo in cui le promesse verranno implementate. Il governo dovrebbe utilizzare queste giornate di incontri per definire un nuovo metodo di lavoro. Le caratteristiche potrebbero essere le seguenti. In primo luogo, la concretezza. Inutile garantire aiuti e sostegni a tutti quando le risorse non sono infinite. Il Conte 2 dovrà saper dire dei “no”. In secondo luogo, la visione lunga. Se, davvero, si vuole far ripartire il paese, è necessario avere il coraggio politico di ricomporre la spesa pubblica a favore di interventi (leggi investimenti) che daranno i loro frutti in là nel tempo. I ministri dovranno, pertanto, rinunciare a incassare nel breve termine i vantaggi in termini di consenso elettorale delle misure che hanno introdotto. Troppo spesso, in passato, il calcolo politico ha prevalso. Solo per fare un esempio, durante il Conte 1, il M5s ha introdotto il Reddito di cittadinanza in fretta e furia. L’obiettivo era quello di far arrivare l’assegno prima delle elezioni europee, nonostante i Centri per l’impiego non fossero in grado di fornire adeguata assistenza a chi doveva essere re-inserito nel mondo del lavoro. I centri per l’impiego non sono pronti neanche ora, a distanza di oltre un anno dall’introduzione del reddito. Ciò che è interessante rilevare, tuttavia, è che per andare all’incasso, la politica ha trasformato una misura che conteneva risorse anche per rafforzare le politiche attive del lavoro in un mero sussidio: il risultato opposto da quello annunciato dal Movimento.

 

Il premier Conte ha promesso di non voler tornare allo status quo ma di puntare a migliorare il paese. Non replicare errori simili sarebbe senza dubbio un passo importante in questa direzione.