(foto LaPresse)

Progetto Italia, è ora di osare

Pier Paolo Tamburelli

Usciti dalla pandemia e dopo quarant’anni di declino, forse siamo davanti alla “grande occasione”. Per tornare a capire il territorio, per pensare al futuro delle cento città, per ridisegnare scuole, ospedali, infrastrutture. Senza sensi di colpa

E’ venuta l’epidemia del Covid-19 ed eravamo impreparati. Eravamo impreparati perché non volevamo prendere in considerazione conseguenze, perché volevamo essere impreparati. Nel lungo periodo infatti saremmo morti tutti, e quindi, del lungo periodo, non se ne è occupato nessuno: pianificare è stupido, progettare retrogrado. Poi è venuta l’epidemia e i letti negli ospedali non sono bastati. Ora forse ci siamo ricreduti. Sembra persino che ci siano i soldi per fare qualcosa. Forse siamo davanti alla “grande occasione obbligata”. Tutti si sono messi a fare programmi e siamo tornati ai grandi successi: incentivi alle ristrutturazioni e ponte sullo Stretto di Messina. Forse, confusamente, è anche un segnale promettente. Si può tornare a progettare. In caso, il programma non può che essere molto vasto. L’epidemia ha colpito tutti (anche se certamente non allo stesso modo). Se la temperatura del pianeta aumenta, aumenta per tutti. Questo è forse il punto decisivo: per anni abbiamo pensato che si potesse evitare di fare la somma, che si potessero rimandare e rimpallare le conseguenze su qualcun altro. Qualunque tentativo di affrontare i problemi nella loro totalità (dal punto di vista della totalità, come avrebbe detto Lukács) era subito condannato come insano e totalitario, come se qualsiasi atto di realismo e qualsiasi volontà di piano fosse già un atto di violenza. In realtà, dalle epidemie e dal riscaldamento del pianeta ci possiamo salvare solo tutti assieme e solo pensando subito alle conseguenze. L’epidemia ci ha anche fatto vedere delle cose. Ha ridotto le emissioni di gas serra mondiali (le stime variano tra il 5 e il 10 per cento) e ci ha mostrato città diverse. Se anche questa riduzione non sembra sufficiente a limitare le emissioni come previsto dagli accordi di Parigi 2015, fornisce tuttavia una ragionevole approssimazione di cosa vorrebbe dire adottare queste politiche. Di questo obiettivo lontano e astratto adesso abbiamo tutti un’esperienza immediata, un’esperienza tanto spaventosa, come le strade percorse solo da ambulanze, quanto meravigliosa, come l’azzurro del cielo di Milano nello scorso aprile. A partire da questa esperienza possiamo anche pensare all’Italia.

 

E l’Italia è un caso particolarmente interessante perché è il paese che in questi ultimi quarant’anni ha più testardamente creduto di non dover progettare, di lasciar fare al caso, di aspettare che qualcun altro trovasse la soluzione per poi copiarla comodamente, se non direttamente di farsi governare da qualcun altro. L’ultimo tentativo di “fare un piano” in Italia è stato Progetto ‘80, che si chiamava così proprio perché il 1980 era il suo orizzonte, ed era quindi un documento dei primi anni Settanta. Dopo, più niente. E se non si è fatto più niente di buono, non è perché non si sapesse dove trovare i soldi, ma perché nessuno sapeva cosa farne. Nessuno aveva un’idea. E senza idee manca anche il coraggio, e finisce che non servono nemmeno i soldi.

 

Negli ultimi anni, l’architettura è stata forse l’unica forma di riflessione che ha ancora provato a misurarsi su un arco temporale esteso, che ha pensato a un tempo lungo. E questo non per una scelta di campo (anzi, non c’è stata altra abbondanza che tentativi di pensare un’architettura nuova, veloce, scattante, e città sbarazzine, furbe, le famose smart cities), ma per il puro e semplice fatto che l’architettura è lenta e pesante, ha bisogno di molto tempo per essere costruita e viene poi utilizzata per periodi molto lunghi. Così, mentre tutti erano presi dalla favola di un mondo liquido e istantaneo, l’architettura era ancora costretta a osservare il territorio, a misurarsi sul lungo periodo. Ora questo punto di vista potrebbe essere nuovamente utile. E a partire da questo punto di vista si potrebbe provare a fare di nuovo alcune cose: osservare il territorio, progettare le città, costruire infrastruttura, immaginare una forma per lo spazio pubblico (e anche accettare la possibilità di fallire).


I quarant’anni del nostro declino sono stati quarant’anni di ignoranza del territorio, di ossessione provinciale per pochi luoghi lontani e mistificati (Silicon Valley, Londra). Ci siamo dimenticati che le città di provincia smarrivano la loro ragione di essere, che alcune città industriali perdevano un terzo della popolazione


 

La classe dirigente che ha governato l’Italia nel Dopoguerra conosceva l’Italia, e la conosceva perché aveva dovuto combattere i nazi-fascisti nelle valli, nei paesi, nelle colline, in montagna. E la sua – per noi quasi incredibile – indipendenza e maturità culturale derivava proprio dall’avere precisa conoscenza di questo territorio, e quindi anche di tutto quello che sarebbe potuto e che non sarebbe potuto diventare. Il primo passo per immaginare un nuovo progetto per l’Italia non può che essere percorrerla, osservarla, descriverla, usarla come termine di riferimento per il discorso pubblico. I quarant’anni del nostro declino sono stati quarant’anni di ignoranza del territorio, di ossessione provinciale per pochi luoghi lontani e mistificati (Silicon Valley, Londra). Ci siamo dimenticati di vedere che i boschi si espandevano come non succedeva dalla fine dell’Impero Romano, che le città di provincia smarrivano la loro ragione di essere, che alcune città industriali perdevano un terzo della popolazione. I segni sparsi nel paesaggio non li ha voluti leggere nessuno. Nella valle del basso Piemonte dove sono nato, fino agli anni 80 la terra era suddivisa in una miriade di lotti agricoli microscopici, che corrispondevano a una società di piccolissimi proprietari, tutti pseudo-contadini che già allora vivevano del loro impiego come operai o dipendenti pubblici nei capoluoghi più vicini. Oggi la valle la coltivano tutta tre o quattro micro-imprenditori agricoli. Una grande parte dei campi sono incolti o rimboschiti, sul fondovalle i campi sono stati raggruppati, spesso senza passaggi di proprietà, in parcelle molto più grandi di quelle originarie. A un paesaggio intessuto di atti di trasformazione infinitesimi, tutti registrati in un catasto incredibilmente minuto, si è sostituito un paesaggio più grossolano, in qualche misura deforme – come deforme è la monocultura viticola di altri, più pregiati, pezzi di Piemonte. Trasformazioni simili hanno coinvolto tutte le valli appenniniche, che sono metà della superficie del paese. Questa visibilissima ed estesissima mutazione del territorio, a cui corrispondono lo spopolamento dei paesi e l’invecchiamento della popolazione, non è mai stata oggetto di alcun dibattito politico. E piuttosto che eliminare le province (senza mettere in questione le unità territoriali nella loro consistenza geografica), sarebbe stato meglio verificare cosa corrispondesse sul territorio alle varie entità amministrative e chiedersi se la logica che produsse questa suddivisione avesse ancora senso, non solo nel suo disegno, ma anche nella sua ispirazione più generale. Siamo sicuri che le entità politiche minime distribuite sul territorio italiano siano davvero dei “comuni” come negli affreschi di Lorenzetti? Non ci stiamo ingannando con le parole? E a partire da una ridefinizione della cellula minima, non sarebbe da ripensare l’intera suddivisione?

 

Dimenticando di osservare il territorio è anche venuto meno un contesto per pensare le città. Ci siamo ostinati a guardare le città italiane con criteri che (forse) potevano andar bene per Parigi o Tokyo, ma che non servono a leggere questa frammentatissima, policentrica Kulturnation. Mentre tutti insistevano a immaginare città globali che in Italia non ci potranno mai essere (ce lo ricordiamo che Milano ha solo un milione e mezzo di abitanti?), si dimenticava di adeguare un tessuto urbano e produttivo complesso – e purtroppo anche molto delicato. E in effetti all’Italia non può bastare puntare tutto su Milano, anche se sarebbe più facile e le ricette sembrerebbero già pronte. Nemmeno basta un treno velocissimo che collega Milano a Roma e Napoli, tagliando fuori tutto il resto da questa dorsale troppo forte.

 

L’Italia deve restituire senso alle differenze e alla complementarità dei suoi territori, che non possono essere ridotti a un modello unico, ma vanno pensati all’interno di reti in cui sviluppare (e pianificare!) vocazioni coordinate. Questo significa che i progetti non possono essere pensati solo a partire dal centro, e nemmeno concepiti come una rivincita delle periferie, che le aree ricche e dense vanno pensate nel loro rapporto con quelle povere e spopolate, che la polpa non si può separare dall’osso.

 

In questo momento, l’elemento decisivo sono le città medie, quelle di 100-200 mila abitanti, ancora abbastanza ricche, almeno al Nord. Cosa ne vogliamo fare? Di Cremona? E di Piacenza? Devono diventare come Dubai? Qui viene in mente Manganelli: “Piacenza non è Singapore”. Oppure dobbiamo accettare che diventino paesoni pieni di pensionati? Sono forse troppe due città così simili a 40 km di distanza? Si può fare qualcosa per renderle più interessanti per chi ci abita e più attraenti anche per gli altri? Quando è stato fatto l’ultimo edificio pubblico di Cremona? Come convincere una ragazza intelligente di Cremona che il suo futuro potrebbe anche essere lì, o magari a Piacenza? Come convincere le famiglie ricche di Piacenza a comprare appartamenti per i loro figli a Piacenza, e non a Milano?


Con una nuova rete di trasporti, Modena e Reggio sarebbero più vicine di due quartieri di Londra. Combinando tecnologia e infrastrutture si potrebbe immaginare una città di città distribuita lungo la via Emilia. Una mancanza di ambizione pone le infrastrutture d’oggi al di sotto del livello qualitativo delle precedenti 


In un contesto globale, che non sparirà a causa dell’epidemia, una rete di città così fitta è tanto un problema quanto una risorsa. Queste città prossime dovranno diventare almeno parzialmente complementari, e quindi disposte a coordinarne il proprio sviluppo, accettando che gli interventi strategici non siano uniformemente distribuiti. Questo, ad esempio, vuol dire che i problemi dell’aeroporto di Firenze vanno risolti intervenendo su quello di Pisa, vuol dire che, con una nuova rete di trasporti, Modena e Reggio sarebbero più vicine di due quartieri di Londra, per non parlare di San Paolo. Combinando tecnologia e infrastrutture adeguate si potrebbe immaginare una città di città distribuita lungo la via Emilia, connessa da un trasporto metropolitano capace di estendere la vita quotidiana su tutti i 150 km da Bologna a Piacenza (o 200 km fino a Pavia?), dotando questo sistema di servizi nella scala di Milano o Berlino. Questa estrema prossimità di nuclei urbani nettamente distinti ha un potenziale enorme, che di certo non viene sfruttato se non si producono differenze all’interno e l’unica idea che si riesce a partorire è fare un’università a Piacenza e una a Parma e una a Reggio e una a Modena e una a Bologna. Un progetto per questa rete di città non sarebbe difficile, almeno per le due città a ridosso delle valli alpine e appenniniche nella Pianura padana, per la dorsale adriatica, per una città lagunare tra Padova, Mestre, Venezia e le isole minori (magari eliminando il ponte della Libertà e tornando a pensare Venezia come isola e come luogo della produzione). Non mancherebbero nemmeno le risorse per realizzarlo.

 

Non hanno fatto così in Germania e in Svizzera? Non hanno, con estrema determinazione, contrastato il modello delle global cities e difeso la loro costituzione federale, trovando un modo per mettere in relazione con il contesto internazionale un assetto territoriale che non poteva essere ignorato? Così, pur rafforzando alcune aree metropolitane, hanno scelto di non concentrare tutte le loro risorse in un unico punto, hanno evitato di destinare a monocultura turistica alcune porzioni di territorio, cercando di mantenerlo tutto almeno parzialmente produttivo, disegnando reti infrastrutturali complesse e diffuse.

 

A parte il MAXXI, la Tav, un po’ di metropolitana a Milano e Napoli e un muro che (forse) si leva in mezzo al mare, cosa abbiamo costruito negli ultimi quarant’anni? Parlo di cose solide, tangibili, che possano essere usate e poi trasmesse ai figli con ragionevole speranza che durino, cose che servono anche nella società liquida e senza le quali la società liquida non funziona: strade, ferrovie, ponti, cavi sottomarini, stazioni, parchi, ospedali, biblioteche, scuole. La dotazione infrastrutturale di questo paese è sostanzialmente quella di quarant’anni fa: con pochissime eccezioni, le stazioni sono ancora quelle del Fascismo, le autostrade quelle del Dopoguerra, le scuole medie e gli ospedali quelli degli anni Settanta. A tutti i livelli, la nostra infrastruttura sta cadendo a pezzi. Non si tratta solo dei ponti delle autostrade, ma di strade dove non si rifanno i muri di contenimento, asili dove non si dipingono le pareti, palestre col tetto sfondato da nevicate del secolo scorso. Se osserviamo i “monumenti” di questo ultimo periodo, vediamo realizzazioni enormi ma in qualche modo sepolte: una galleria in una remota valle alpina, un muro sotto il mare, cose grosse ma tendenzialmente invisibili, da tenere lontane dalla pubblica discussione e soprattutto non strategiche in quanto non è mai stata spiegata l’ipotesi di sviluppo in cui erano inserite, quali fossero le reti in cui si andavano a collocare, quale fosse il beneficio che la periferia poteva trarre da interventi sul centro, e viceversa. A questa deliberata assenza di piano ha corrisposto un’idea della tecnologia come gadget, come se i problemi potessero essere tutti risolti alla micro-scala, con qualche secchio per il compost e qualche app dal nome possibilmente stupido, senza tirare a mano tubi, cavi, server, batterie, energia. Eppure una strategia generale serve anche solo per fare le cose semplici, quelle immediatamente possibili, ma che al di fuori di un’idea generale di trasformazione finiscono per non funzionare nemmeno loro.

 

Un progetto per l’Italia non può fare a meno di immaginare anche la sua forma, obiettivo che abbiamo ignorato votandoci a una timidezza formale che rasenta il desiderio di castrazione (la metropolitana lilla), a una grettezza incapace persino di riconoscere il valore economico delle cose (l’atrofizzazione di tutti gli spazi principali della Stazione Centrale di Milano, con sequestro dei viaggiatori in un sotterraneo inferno di tapis roulant), a una mancanza di ambizione che pone subito le infrastrutture contemporanee al di sotto del livello qualitativo di quelle che le precedevano (la stazione Principe a Genova, con quella dolce atmosfera da cucina di casa di riposo). In tutti questi casi si ha la sensazione che per i promotori e gli architetti progettare, e quindi pensare al futuro, fosse una specie di colpa; si legge il terrore delle sovrintendenze, la cappa di sospetti reciproci, l’ansia di mettere subito la propria mediocrità sul conto di altri (la soprintendenza! la burocrazia!), senza mai nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi – tutto sommato non impossibile – di far qualcosa di decente.

 

Infine, una condizione essenziale per un possibile progetto è recuperare un rapporto equilibrato con la possibilità di fallire, smettere di avere paura e accettare che si possa scoprire qualcosa di diverso da quello che si cercava. Uno dei fallimenti più belli della pianificazione è quello che ha prodotto la Fôret de Tronçais, una foresta di querce centenarie che si trova in mezzo alla Francia, nell’Alvernia. Nel 1669 Colbert, all’interno di una riorganizzazione generale del sistema forestale del regno, riserva una serie di foreste strategiche destinate a produrre legno per le navi della marina militare. Si ridefinisce tutta la filiera produttiva: vengono piantati nuovi alberi, fatte strade, si ridisegna la logistica del trasporto fluviale che porta i tronchi lungo la Charente fino alla nuova città di Rochefort, dove nei cantieri lavorano fino a 20 mila persone. L’iniziativa è quanto di più tecnocratico si possa immaginare. Colbert coinvolge matematici e scienziati; viene realizzato anche un dettagliato catalogo di legni storti (bois tors) necessari alla cantieristica. La cosa per un po’ funziona; nel 1677 i cantieri hanno già prodotto trecento vascelli. Poi la tecnologia navale cambia, grossomodo a partire dalla guerra civile americana le navi si fanno d’acciaio e le querce fatte piantare da Colbert per essere pronte trecento anni dopo non servono più. Adesso ci fanno le botti per l’Armagnac.

L’autore di questo articolo, tra i fondatori dello studio di architettura baukuh, insegna al Politecnico di Milano e all’Harvard Graduate School of Design.