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Agire, non solo spendere

Per tornare a creare lavoro lo stato deve cominciare a togliere i freni alle imprese

Guido Tabellini

E’ ora di creare incentivi al mantenimento dell’occupazione senza prolungare il blocco dei licenziamenti. Un’agenda per ripartire. E occhio al mercato dei capitali

Cosa dovrebbe fare il governo per sostenere l’economia nell’uscita dal lockdown? Una prima e ovvia risposta è che bisognerebbe fare ciò che andrebbe fatto comunque, e che non è mai stato fatto. L’elenco è ben noto, e molte proposte sono contenute anche nel rapporto del Comitato guidata da Vittorio Colao: riformare la pubblica amministrazione, semplificare la burocrazia e far funzionare meglio la giustizia, investire in infrastrutture digitali e dei trasporti, migliorare il sistema dell’istruzione, avvicinare la scuola al mercato del lavoro, e così via. Lo choc causato dalla pandemia è un evento unico e particolare, tuttavia, sia per la sua profondità e rapidità, sia perché gli effetti economici del virus sono estremamente eterogenei tra settori e tra imprese. Non è detto che le ricette tradizionali siano gli strumenti migliori per affrontarlo. Nella fase più acuta, non vi erano alternative a quanto stato fatto per sostenere i redditi delle famiglie e far arrivare liquidità alle imprese. Man mano che l’emergenza sanitaria sarà superata, tuttavia, i sostegni al reddito e ai prestiti dovranno essere rimossi. Ma non è detto che tutto torni come prima, anzi è vero il contrario. Lavoro e capitale dovranno essere riallocati tra imprese e settori, magari anche in misura rilevante.

 

Uno studio recente sugli Stati Uniti, a cura di Barrero, Bloom e Davis, stima che addirittura il 40 per cento dei licenziamenti sarà associato a distruzioni permanenti di posti di lavoro. Riuscire a trovare il giusto equilibrio tra sostegno dei redditi e incentivi a una efficiente riallocazione delle risorse sarà la principale sfida, economica e politica. Cosa dovrebbe fare il governo per affrontare al meglio questa sfida? Chiaramente, lo stato non può sostituirsi alle imprese nel valutare quali posti di lavoro vadano mantenuti o distrutti, né può sostituirsi alle banche o al mercato dei capitali nel decidere se un’impresa può sopravvivere o fallire. Tuttavia, lo stato può agevolare la transizione, creando incentivi economici temporanei al mantenimento dell’occupazione, facilitando la mobilità sul mercato del lavoro, e agevolando la ristrutturazione dei debiti per le imprese altamente indebitate ma con buone prospettive economiche. A partire da questa premessa, ci sono alcune cosa da fare e altre da non fare. Con riferimento al mercato del lavoro, sarebbe un errore prolungare il blocco dei licenziamenti. Il blocco aveva un senso nell’apice della crisi, ma ora le imprese deve essere libere di riorganizzarsi. Anche l’uso prolungato della cassa integrazione andrebbe disincentivato. Se un’impresa ha poche prospettive di tornare ai livelli occupazionali del passato, è bene incoraggiare i suoi dipendenti a cercare impieghi alternativi man mano che l’economia si riprende. Concretamente, questo può essere fatto riducendo gradualmente il compenso pagato al lavoratore che rimane più a lungo in cassa integrazione (e consentendogli di svolgere altri lavori temporanei), aumentandone gradualmente il costo a carico dell’impresa, e ampliando invece l’accesso ai sussidi di disoccupazione. Inoltre, occorre facilitare il rinnovo dei contratti a termine, e aiutare i lavoratori a riqualificarsi e nella ricerca di un nuovo impiego. Tutto questo non basta, però: nei settori più colpiti dallo shock il distanziamento sociale comporta costi aggiuntivi per le imprese e minor produttività del lavoro. Per ridurre i licenziamenti, i settori in maggiore difficoltà possono essere aiutati con una fiscalizzazione parziale degli oneri sociali fino a che durano gli effetti negativi della pandemia.

 

Gli interventi sul mercato dei capitali sono altrettanto importanti. Anche in questo caso, come sul mercato del lavoro, le garanzie statali sui prestiti andrebbero gradualmente tolte, man mano che l’uscita dal lockdown si consolida. Tuttavia, vi sarà uno strascico di imprese fortemente indebitate, e lo stato potrebbe presto trovarsi creditore di molte imprese, a seguito delle garanzie concesse o sui debiti d’imposta. Uno studio recente di tre economisti francesi (Blanchard, Philippon e Pisany-Ferry) suggerisce vari modi per facilitare spontaneamente la ristrutturazione dei debiti anche di piccole e medie imprese, ed evitare il fallimento di imprese altrimenti sane. Ad esempio, per favorire una ristrutturazione, lo stato potrebbe stabilire che, in caso di ristrutturazione, i suoi crediti verrebbero ridotti in misura proporzionatamente maggiore rispetto a quella delle banche e di altri creditori privati.

  

Oggi il dibattito politico è soprattutto concentrato su come spendere le risorse promesse dal Recovery Fund e dagli altri finanziamenti che verranno dall’Europa. Sicuramente anche questo è importante, ma la sfida principale è un’altra: come accelerare la riallocazione di lavoro e capitale verso gli impieghi che risulteranno più produttivi, dopo gli sconvolgimenti causati dalla pandemia? E’ su questo che si misurerà la capacità dell’economia italiana di riprendere a crescere e di ripagare il debito pubblico che stiamo accumulando. Speriamo che anche questo interrogativo riceva l’attenzione che merita.

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