Manifestazione dei lavoratori della Whirlpool davanti al ministero dello Sviluppo Economico a Roma (foto LaPresse)

Tamburi di latta per Di Maio

Stefano Cingolani

Un vicepremier sotto assedio: scioperi e proteste, quasi 140 tavoli di crisi aperti. Non bastano i pretoriani

Oops, mi chiude anche la Whirlpool e proprio a Napoli, praticamente sotto casa! Per uno scherzo della sorte, Luigi Di Maio scopre la notizia solo online. Curioso che nemmeno l’efficientissima piattaforma Rousseau l’abbia intercettata in tempo. Chissà, forse i pentastellati ancora sotto choc per il risultato elettorale erano troppo occupati a farsi le scarpe l’un l’altro, o forse il giocattolo di Casaleggio si era impallato nel contare la folla di 56 mila seguaci e bilanciare le percentuali: facciamo 90 per cento come in Turchia? Evitiamo 99 per cento perché troppo coreano. Va bene 80 per cento, Di Maio come Putin così mettiamo in difficoltà Salvini che ha preso solo il 34 per cento. E’ vero, quelle sono elezioni, ma è vecchia democrazia, quest’altra è democrazia diretta. Insomma, com’è come non è, il ministro dello Sviluppo è stato preso in contropiede e ha dovuto convocare l’ennesimo tavolo di crisi. Sono 140 o giù di lì, ma ormai se ne apre uno ogni due giorni. Il triangolo romano tra via Veneto, via Bissolati e via Molise è off limits. Ogni giorno una protesta, un picchetto, una manifestazione, striscioni, fischietti, tamburi di latta, e traffico bloccato. Non è una novità sia chiaro, Di Maio non è il primo ministro a essere assediato. Ma, essendo bi-ministro, deve schivare sia gli assembramenti davanti al ministero dello Sviluppo sia quelli al ministero del Lavoro. Così, si fa vedere solo quando Rocco Casalino chiama i microfoni amici e sfodera un sorriso da gatto del Cheshire. Con la Whirlpool, però, anche l’occhiuto minculpop gialloverde ha fatto fiasco.

 

Il 4 giugno Di Maio ha lanciato un vero ultimatum contro la multinazionale americana: “O entro sette giorni portano la soluzione per lasciare aperta quell’azienda e far lavorare 450 persone oppure noi gli togliamo i soldi che hanno preso dallo stato”. La cifra “solo per iniziare è di circa 15 milioni di euro”, ma può arrivare fino a 27 milioni. Un roboante proclama che ricorda il buon Toninelli contro i Benetton. I pentastellati sono fatti così: minacce a mezzo stampa, enfatici proclami e promesse di risolvere tutto in quattro e quattr’otto, soprattutto quando si tratta di questioni intricate nelle quali quali non riescono a districarsi.

 

“O portano una soluzione o gli togliamo i soldi presi dallo stato”. Il proclama contro Whirlpool ricorda Toninelli contro i Benetton

Vedremo come andrà a finire e vedremo se questa volta il Di Maio tricipite (oltre che due volte ministro è anche capo politico del M5s) sarà presente alle riunioni. Perché in genere non c’è; in tutt’altre faccende affaccendato, lascia l’intendenza ai funzionari. Dal febbraio scorso ha messo un uomo di sua completa fiducia: Giorgio Girgis Sorial, un politico di professione (anche se non proprio weberiano) ha preso il posto di Giampietro Castano che era lì dal 2007, assunto da Pier Luigi Bersani. Sorial, bresciano di famiglia egiziana, grillino dal 2009, ex parlamentare, si è distinto nella ruvida battaglia contro le auto blu e contro Giorgio Napolitano etichettato come “boia”, il che, tuttavia, non gli ha garantito la rielezione. Nessuno è profeta in patria. La sua competenza in merito di industria è fare le veci del ministro ed evitargli più rogne possibili. Non è facile e il povero Sorial è sottoposto a un vero tour de force. Prendiamo solo l’ultimo mese: 8 maggio gruppo Natuzzi, 9 maggio ex Alcoa, 10 maggio Sgt, 15 maggio Piombino, 23 maggio area fermano-maceratese, 24 maggio Pavimental e Ferrosud, 27 maggio Mercatone Uno, 28 maggio Auchan, 30 maggio Eutelia, 4 giugno Whirlpool, e poi c’è il dado Knorr che va in Portogallo, c’è la Sicilia con Termini Imerese (la ex Fiat) e via via le altre aree di crisi.

 

Adesso spunta di nuovo l’Ilva, perché Arcelor Mittal è in crisi grave, l’acciaio è duramente colpito dai dazi di Trump e l’azienda deve mettere in cassa integrazione 1.400 dipendenti. Il siderurgico di Taranto è stato il banco di prova per tutte le velleitarie uscite dei Cinque stelle e del loro capo politico. Mentre il 15 giugno incombe l’appuntamento con la madre di tutte le vertenze, l’Alitalia, dove il doppio ministro dovrà fare sfoggio di entrambe le sue incompetenze.

A Taranto la cassa integrazione ha riaperto la ferita. I No Ilva si sono sentiti traditi. Come capo politico, in campagna elettorale Di Maio li aveva illusi. Come ministro ha traccheggiato, poi ha accettato il fatto compiuto dando il via libera all’acquisizione. Adesso a sentirsi imbrogliati sono gli operai. Anche la Fiom, che durante tutta la lunga vertenza era rimasta alla finestra con la motivazione che molti dei suoi iscritti votavano Cinque stelle, fa il volto dell’arme. Si sta formando un fronte No Arcelor che mette insieme chi voleva la chiusura dell’acciaieria e chi un intervento dello stato per ridimensionarla e trasformarla con i forni elettrici. Le ricadute politiche sono evidenti. Di Maio ha pagato già i suoi zig zag sia nelle elezioni europee sia in quelle locali, ma l’impressione è che la valanga pugliese non abbia ancora manifestato in pieno tutti i suoi effetti.

 

Sull’Alitalia sarebbe ingiusto e inelegante buttare tutta la croce addosso al biministro, il quale si è trovato in mano una patata bollente che non è attrezzato a gestire. Gli errori commessi hanno a che fare con il suo modo di fare politica: promesse avventate, proclami superficiali, soluzioni improbabili, dossier pasticciati sui quali mostra una scarsa preparazione. E qui non si può affidare a Sorial, a Casalino o a qualcun altro tra i suoi fidi, qui è lui stesso a dover garantire con qualsiasi partner vero o eventuale. Lufthansa vuol sapere che cosa fa il governo per sostenere il piano industriale, ma le stesse Ferrovie, improvvidamente coinvolte (non dimentichiamo che le Fs sono assistite ogni anno con un tasferimento del Tesoro) e la Cdp tirata per i capelli, vogliono capire quanto ci sarà sul tavolo per la cassa integrazione, i prepensionamenti, gli esuberi che saranno comunque a carico dei contribuenti come è avvenuto in passato.

 

Per chiudere in bellezza c’è l’accordo Fca-Renault. E’ saltato perché Emmanuel Macron se l’è fatta sotto, nel timore di essere infilzato da Marine Le Pen? Forse. Ma il governo italiano non ha toccato palla. Abbiamo letto dichiarazioni improbabili e velleitarie: per esempio il Tesoro avrebbe dovuto comprare titoli Fca ed esercitare la golden share. Poi gli imbonitori nazionl-populisti hanno cominciato a strombazzare che gli Agnelli svendevano ai francesi. In concreto nessuno sapeva nulla né tanto meno aveva idea di che cosa fare. E’ vero, in queste condizioni ogni mossa sarebbe stata controproducente. Ma non è un’assoluzione.

 

Così opera il ministro dello Sviluppo. E il ministro del Lavoro? “Mi sono insediato e come primo atto ho voluto incontrare i rider”, ha esordito Di Maio il 4 giugno 2018 su Facebook. Poi è arrivato il momento di passare ai fatti. Con il decreto dignità ha cercato di inserire una “clausola rider” per far rientrare i fattorini tra i lavoratori subordinati con contratto a chiamata. Clausola ritirata, anche per far fronte alle minacce delle aziende di andarsene dall’Italia (tra queste la tedesca Foodora poi acquistata alla spagnola Glovo). “Faremo un contratto innovativo, il primo di questo tipo in Europa”, dichiarava come suo solito Di Maio il 3 luglio dello scorso anno dopo il primo incontro tra rider e operatori seguito da altri due appuntamenti, uno a settembre e un altro a novembre. Il ministro voleva trasformare la vertenza nel primo colpo d’accetta per demolire il Jobs Act, promettendo che sarebbe stato riconosciuto il rapporto di lavoro subordinato. Ma la bozza di accordo collettivo elaborata dal governo andava nella direzione opposta. Perché nella proposta ministeriale non c’era nessun obbligo di assumere i fattorini. Anzi, veniva specificato che quel genere di contratti si applica a chi lavora con “rapporti di lavoro non subordinato”, al contrario di quanto richiesto dai rider. Una sentenza d’appello del tribunale di Torino ha stabilito che si tratta di lavoro etero-organizzato (beata fantasia leguleia), insomma una terza via tra autonomo e subordinato, eppure proprio grazie al Jobs Act vengono riconosciute nella gig economy tutte le tutele salariali e contrattuali tranne l’articolo 18. In ogni caso anche questa categoria piccola numericamente, ma importante simbolicamente, ha cominciato il suo percorso di scioperi e sindacalizzazione, prima illusa dal gatto del Pomiglianoshire poi delusa da una realtà che era stata loro nascosta sotto la coltre del chiacchiericcio a cinque stelle.

 

Il tour de force dell’uomo di fiducia, Giorgio Sorial: la sua competenza è fare le veci del ministro ed evitargli più rogne possibili

La lotta al precariato era la bandiera che i grillini innalzavano contro Matteo Renzi e il Pd, colpevoli di aver reso più flessibile il mercato del lavoro, ebbene l’ironia della storia vuole che Di Maio non abbia mai incontrato i suoi precari, quelli del ministero, i quali, da luglio dell’anno scorso, hanno ripetutamente scritto e chiesto un confronto. Intanto per loro comincia lo stillicidio del fine contratto. Sono 654, dal primo giugno hanno perduto il posto in 13 e prima ancora sei nel mese precedente. Si tratta dei precari dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal, già Italia lavoro). Ed è un paradosso nel paradosso visto che saranno loro a sostenere i percettori di quello che viene chiamato “reddito di cittadinanza”. Giovedì scorso hanno fatto di nuovo nuovo sciopero con manifestazione nel triangolo nero di via Veneto.

 

Oltre 650 i precari dell’Anpal, l’agenzia al centro della rete che fa capo a Mimmo Parisi. Nemici, amici e l’infornata dei Vesuvio boys

L’Anpal, i navigator, i tutor e tutto l’ambaradan messo in piedi per il reddito di cittadinanza, fiore all’occhiello dei pentastellati, è la vera creatura del ministro e Mimmo Parisi è il suo profeta. Sbarcato dal Mississippi, dove era arrivato da Ostuni (Brindisi), è il cervello vagabondo, in fuga e poi di ritorno, che ha inventato la matrice per il reddito di cittadinanza e che ora dovrebbe applicarla. Domenico Parisi detto Mimmo ha fatto una onorevole quanto tranquilla carriera nell’università statale da sociologo agricolo, e si trova tra le mani, proprio come in un racconto di Mark Twain (che di Mississippi se ne intendeva), un improvviso dono sceso dalle stelle, anzi dalle Cinque stelle. Finora aveva gestito una struttura americana piccola e agile, con un moderato giro di affari, adesso deve guidare una organizzazione pubblica italiana che distribuisce sulla carta 6,1 miliardi di euro per almeno cinque milioni di individui, il doppio di tutti gli abitanti del Mississippi. Come è entrato in contatto con Di Maio? L’anello di congiunzione è sempre Rocco Casalino e la Puglia connection. Alla Lum, la Libera Università Mediterranea fondata da Giuseppe Degennaro, politico democristiano già sindaco di Bari, poi senatore di Forza Italia, il 27 settembre scorso il Dr. Mimmo ha tenuto una lezione su “Smart City: la digitalizzazione del settore pubblico nell’era della Data Revolution” che per Di Maio è stata come la luce sulla via di Damasco. Questo personaggio spuntato dalle paludi del sud è stato collocato in una delle più sensibili strutture pubbliche, quella per la ricerca del lavoro, la Anpal creata nel 2015 dal governo Renzi, al centro di una rete che comprende le strutture regionali per le politiche attive, Inps, Inail, le agenzie per il lavoro e gli altri intermediari autorizzati, i fondi interprofessionali per la formazione continua e i fondi bilaterali, Anpal Servizi, Inapp, le camere di commercio, le università e le scuole secondarie di secondo grado. Raccoglie, quindi, una messe di dati sensibili su individui, famiglie e imprese, una manna se ci mette mano chi vuol far quattrini senza pensare a utilizzi scorretti di natura politica o criminale (ricatti, estorsioni e quant’altro). Un grande potere messo nelle mani di un tecnico che proviene dagli Stati Uniti e non dalla più avanzata delle istituzioni americane: con tutto il rispetto, la Msu (Mississippi State University) non è il Mit (Massachusetts Institute of Technology).

 

Di Maio ha alcuni nemici acerrimi e dichiarati, ma anche alcuni che non riesce proprio a sopportare. Nel mirino ci sono soprattutto giornalisti e sindacalisti. Fin dall’inizio si è beccato con Marco Bentivogli, il quale l’anno scorso era stato bandito dalla Rai perché reo di voler controbattere, peccato mortale nella Casalino & associati. Peggio ancora di Vincenzo De Luca, presidente della Campania, che per anni lo aveva sbeffeggiato e con il quale invece ha raggiunto una tregua del sorriso in occasione delle universiadi napoletane. Tra gli amici c’è Marco Travaglio, ça va sans dire, ma va segnalato Enrico Esposito da Acerra, nominato vicecapo dell’ufficio legislativo al ministero dello Sviluppo economico. Le sue performance legali non sono note ai più, quelle sui social media invece si possono definire notevoli. Nel 2013 ha commentato la nomina di Michaela Biancofiore come sottosegretaria alle Pari opportunità scrivendo: “Non c’è modo migliore di onorare le donne mettendo una mignotta in quota rosa”. Aveva poi aggiunto: “Comunque sono contento delle quote rosa al governo, almeno le leviamo da mezzo alla strada”. E’ scoppiato un putiferio in Parlamento, ma l’Esposito non ce l’ha solo con il “gentil sesso”, sia chiaro. Ecco qui un’altra perla: “Quando ti chiamano ricchione o rispondi a puttan’e mammt o vai a piangere dalla maestra. Se fai la seconda cosa, sei ricchione davvero”. A sua difesa l’avvocato evoca la satira, il black humor, il suo alter ego e la immancabile “machina del fango”. Lo stile è l’uomo, diceva Buffon (Georges-Louis il filosofo non Gigi il portiere).

 

Il siderurgico di Taranto è stato il banco di prova per tutte le velleitarie uscite dei Cinque stelle e del loro capo politico

L’infornata di un anno fa è stata davvero rimarchevole. Da Pomigliano è arrivato il consigliere comunale Dario De Falco, amico di liceo nominato segretario generale a Palazzo Chigi. Salvatore Barca, da Volla, anche lui amico di Di Maio, guida il suo staff al Mise ed è anche capo di gabinetto al Lavoro dove la sua compagna Assia Montanino, già candidata del M5s a Pomigliano d’Arco, è stata assunta come segretaria del ministro. Ai Vesuvio boys (and girls) si aggiungono il consulente Francesco “Chicco” Vanin che si definisce “pop star mancata” oltre che appassionato videomaker e Massimo Bugani, capogruppo del M5s al comune di Bologna e candidato sindaco nel 2016, vicecapo della segreteria del vicepremier, nonché socio della ormai demistificata piattaforma Rousseau. Insomma, una centuria di pretoriani per proteggere i fianchi e le spalle, ma il vero problema è il vuoto che s’è formato davanti.