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“Dietro Ilva c'è la patologia di un governo nemico dello sviluppo”

Luciano Capone

“Nel resto del mondo acciaio, ambiente e salute non litigano. L’Italia è nemica della ricchezza”. Parla Bentivogli (Cisl)

Roma. “Lo scontro con Marescotti aveva mostrato tutta la fragilità di Di Maio fuori dai monologhi addomesticati dell’informazione main-stream. L’accordo per rilanciare l’Ilva, invece che un passaggio di maturazione sta diventando un incidente di percorso, ma smentire le smentite delle smentite è dura”. Marco Bentivogli, segretario generale della Fim, i metalmeccanici della Cisl, inquadra la crisi della principale industria siderurgica italiana all’interno della crisi d’identità del M5s, che prima voleva chiudere l’Ilva per farci un parco giochi, poi ha accettato suo malgrado un accordo con il nuovo investitore ArcelorMittal e infine ha fatto retromarcia: l’eliminazione dell’immunità penale.

 

Una scelta che ha prodotto la reazione di ArcelorMittal, che ha annunciato la chiusura degli impianti se non verrà ripristinata quell’immunità, abolita dal decreto crescita, che finora ha coperto gli amministratori dell’ex Ilva. Ma quali erano gli accordi? “L’azienda aveva fatto con noi un accordo il 6 settembre dello scorso anno davanti al ministro Di Maio e condiviso dal ministero dell’Ambiente Costa - dice al Foglio Bentivogli -. Un accordo che porta in dote 4,2 miliardi di investimenti per il rilancio del siderurgico: 1,25  industriali, 1,15  ambientali a cui si sommano 1,2 miliardi sequestrati ai Riva per le bonifiche e l’ambiente. Sono risorse ingenti che servono a rendere il sito sicuro, competitivo e sostenibile dal punto di vista ambientale, perché c’è da ricordare che l’Aia di Taranto è la più restrittiva d’Europa”. E come mai c’è stato questo cambio dei patti? “Ragioni a questo ennesimo cambio di rotta dell’esecutivo e del ministro Di Maio non ce ne sono, se non in una logica malata di una continua e logorante campagna elettorale all’interno del governo”. Di Maio ha detto che “il problema dell’immunità penale è risolto perché non c’è più”. Insomma, non è necessaria. “L’immunità penale riguarda i lavoratori e i quadri dirigenti che hanno assunto recentemente incarichi e non possono essere perseguiti nel momento in cui applicano l’Aia, che ha proprio l’obiettivo di bonificare, ambientalizzare e rendere più sicuro il sito. Cambiare costantemente le regole lancia un segnale pericoloso. Come ebbi a dire mesi fa proprio sul Foglio, aiuta solo a lasciare sopra il nostro paese un cartello enorme con su scritto: se avete buone intenzioni, state lontani dall’Italia”.

 

“E’ sempre più un esecutivo contro: contro il lavoro, contro le imprese, contro lo sviluppo e contro l’ambiente, che continua a mortificare l’Italia
che lavora e che produce e premia i furbi e gli evasori. Non penso che
con le cozze si possa dare lavoro a 20 mila persone
e generare l’1 per cento del pil”

 

Ma messa così sembra che per attirare gli investimenti si debbano concedere privilegi alle multinazionali. “Lo ha detto molto chiaramente Claudio De Vincenti, si può essere perseguiti perché si applica la legge? Chi parla di ‘scudo totale per le multinazionali’ parla a vanvera. Se acquisti una casa e in giardino il proprietario precedente ha seppellito delle bombe, è giusto pagare per lui?”. Alla fine il tema è quello della scelta tra salute e lavoro. L’accusa ai sindacati è di difendere il secondo dimenticando la prima. “Solo in Italia esiste questa dicotomia. Nel resto del mondo acciaio, ambiente e salute non litigano, andate a Linz in Austria. Se c’è una cosa chiara è che l’industrialismo che considera l’inquinamento uno scotto da pagare non deve avere mai più spazio in nessun luogo al mondo. Ma il fatto è che qui tutti sembrano preferire il modello Bagnoli: impianto chiuso nel 1998 e ancora da bonificare. Né salute né lavoro”. Cosa comporterebbe la chiusura dell’ex Ilva per il paese? “20 mila lavoratori in meno, più della metà nel sud ormai in una fase finale di desertificazione industriale. La siderurgia rappresenta la spina dorsale della nostra industria, il solo stabilimento di Taranto, che è il più grande siderurgico d’Europa, rappresenta da l’1 per cento del pil nazionale e metterlo a rischio significa rinunciare alla nostra sovranità industriale. L’Italia ha un surplus commerciale di 63 miliardi di dollari, siamo quinti al mondo, e questo posizionamento deriva per lo più da oltre 1400 prodotti prevalentemente industriali e in particolare metalmeccanici. Un governo che non conosce dove il paese attinge per la sua ricchezza è un governo pericoloso per i cittadini, può fare molti danni. Già durante il commissariamento dell’Ilva abbiamo perso ingenti quote di mercato e le nostre imprese sono state costrette ad acquistare acciaio dalla Germania. Un capolavoro per un governo che si dice sovranista”.

 

Pare stavolta i sindacati siano uniti. “Al momento sì, anche se alcuni ancora parlano ‘del governo precedente’, hanno paura dei lavoratori che loro stessi hanno allevato al populismo”. Quali sono le richieste? “Il 9 luglio siamo stati convocati al Mise per discutere della cassa integrazione ordinaria per i circa 1.400 lavoratori annunciata dall’azienda, 13 settimane a partire dal 1 luglio per crisi di mercato.Su questo chiederemo all’azienda il ritiro, anche perché ArcelorMittal deve chiarire la situazione del mercato dell’acciaio, lo stato di avanzamento del piano ambientale, del piano industriale e occupazionale. E’ chiaro che però chi cambia le regole del gioco fornisce un alibi all’azienda”. Ci sarebbe la Lega, che rappresenta la parte “sviluppista” del governo, che potrebbe togliere questi alibi e dare garanzie sul futuro dell’azienda. “Il decreto Crescita lo hanno scritto e votato insieme e l’ordine del giorno proposto dalla Lega è completamente generico. Certo è che è davvero paradossale che una norma del genere venga inserita in un decreto denominato ‘crescita’ . La Lega manda continui messaggi alle imprese ma il suo ‘sviluppismo’ si ferma fuori dal raccordo anulare, non arriva né al Senato né al Consiglio dei ministri. Salvini dimostra di maneggiare meglio il bullismo sui migranti che le questioni del lavoro”. Più in generale quale idea di politica industriale ha il governo e come sta gestendo le crisi industriali? “E’ sempre più un esecutivo contro: contro il lavoro, contro le imprese, contro lo sviluppo e contro l’ambiente, che continua a mortificare l’Italia che lavora e che produce, mentre premia i furbi e gli evasori. Il caso dell’ex-Ilva è sintomatico di questa patologia. Prima c’è stata la possibile fusione Renault-Fca,con il governo del tutto latitante a dimostrare il suo disinteresse. E anche quello è un settore che muove qualcosa come il 3 per cento del pil italiano. A questo esecutivo mancano i fondamentali su cosa significhino l’industria e il lavoro per un paese come il nostro, e infatti stanno riesplodendo decine di crisi industriali. Sono 168 i tavoli di crisi aperti, da Whirlpool a Jabil a Sider Alloys (ex Alcoa, ndr), e con esse la cassa integrazione. Se non si inverte la rotta rischiano il lavoro dalle 80 mila alle 280 mila persone”.

 

Il ministro per il Sud Barbara Lezzi dice che Taranto non è solo siderurgia, c’è anche la mitilicoltura. “Non so se con le cozze si possa dare lavoro a 20 mila persone e generare l’1 per cento del pil. La ministra dovrebbe spiegare meglio come intende realizzare questo ambizioso piano ittico, magari funziona. A Carbonia ricordo che un altro esponente del governo aveva proposto invece dell’alluminio di puntare sulle erbe officinali. La Lezzi peraltro fa il paio col governatore della Puglia del Pd, Emiliano, che intravedeva una nuova frontiera occupazionale nei viaggi sub-orbitali in partenza da Grottaglie. Altro che politica industriale, ormai siamo alla fantascienza”.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali