Luigi Di Maio, Giuseppe Conte e Matteo Salvini mostrano le promesse realizzate dal governo (Foto Imagoeconomica)

Ha ragione il Fmi: il malato d'Europa è l'Italia

Luciano Capone

I numeri sulla crescita non tornano e le stime internazionali dicono che il deficit rischia di sforare il 3 per cento

Roma. Il fisico Niels Bohr diceva che è molto difficile fare previsioni, specialmente riguardo al futuro. Ma qualcuno queste previsioni dovrà pur farle e, per quanto nessuno possa anticipare con assoluta certezza come andranno a comporsi i dati macroeconomici, le stime sulla crescita sono tutte negative. Tutte tranne quelle del governo, ovviamente. Solo pochi giorni fa il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha detto che “ci sono tutte le premesse per un bellissimo 2019, l’Italia ha un programma di ripresa incredibile”.

  

Le maggiori istituzioni nazionali e internazionali concordano solo su quest’ultimo punto, sul fatto cioè che il programma del governo sia “incredibile”. Nessuno infatti ritiene che le stime macroeconomiche dell’Italia siano credibili. Secondo le anticipazioni di ieri, oggi le previsioni d’inverno della Commissione europea indicheranno una crescita del pil per il 2019 di appena lo 0,2 per cento. Un dato cinque volte inferiore all’1 per cento indicato dal governo nella legge di Bilancio per far tornare i conti. La Commissione fornirà dati solo sulla crescita e sull’inflazione, non ci saranno quindi stime sul deficit e sul debito pubblico, che sono i due indicatori su cui c’è stato il lungo braccio di ferro tra Roma e Bruxelles prima dell’approvazione della legge di Bilancio e i più rilevanti per i mercati e le stesse regole europee.

 

Ma pur non avendo stime della Commissione, facendo dei semplici calcoli, emerge che un taglio della crescita così sostanziale farà salire il deficit al 2,4 per cento (senza zero), ovvero quattro punti decimali sopra al 2 per cento indicato dal governo. E allo stesso tempo aumenterà il debito pubblico in rapporto al pil che, per restare su una traiettoria discendente dovrebbe contare sui 18 miliardi di privatizzazioni inseriti in manovra, ma di cui non c’è alcuna traccia nei piani dell’esecutivo e della maggioranza. Questo vuol dire che quei 2 miliardi di voci di spesa dei ministeri che l’Europa aveva chiesto al governo di accantonare in caso di scostamento dagli obiettivi non potranno essere spesi nella seconda parte dell’anno, sono già impegnati. Anzi, non sono neppure sufficienti a coprire il buco.

 

Dovrebbero attivarsi quei famosi meccanismi di taglio automatico della spesa a cui il governo aveva promesso di ricorrere “qualora i rapporti debito/pil e deficit/pil non dovessero evolvere in linea con quanto programmato”. Oppure potrebbe essere la Commissione a chiedere una manovra correttiva in primavera, anche se è improbabile che accada perché ci sarebbe il rischio di far avvitare il paese in una recessione con provvedimenti prociclici. Ma non è detto che una stretta fiscale non sia necessaria: se dovesse precipitare la sfiducia dei mercati, il governo sarebbe probabilmente costretto a intervenire per mettere i conti pubblici sotto controllo. Ovviamente si tratta di uno scenario scuro di breve termine, che nessuno si augura.

 

Ma anche in assenza di uno choc, la salute delle finanze pubbliche resta fosca, con prospettive negative anche per il prossimo anno, su cui incombono 23 miliardi di aumento dell’Iva. Ciò vuol dire che, se come promesso dal governo, non verranno attivate le clausole di salvaguardia nel 2020 il deficit sarà superiore al 3 per cento, con una dinamica insostenibile dal punto di vista finanziario prima che in termini di rispetto delle regole europee.

 

Le stime della Commissione sono le più negative, ma le altre non si discostano molto. La crescita sarà del lo 0,4 per cento secondo l’Ufficio parlamentare di Bilancio, dello 0,6 per cento secondo la Banca d’Italia e anche secondo il Fondo monetario internazionale. Una previsione ritenuta credibile dal ministro dell’Economia, nonostante sia circa la metà dell’1 per cento da lui inserito nel bilancio: Giovanni Tria ha dichiarato di apprezzare “l’equilibrio delle valutazioni del Fmi sulla crescita economica del paese”. Il ministro non è invece d’accordo con le altre considerazioni del Fmi, che nel suo rapporto sull’Italia scrive che “la crescita è rallentata”, “ il rischio di una recessione è aumentato”, “l’aumento dei costi di finanziamento per le banche e il rischio sovrano indeboliscono la crescita”, “le politiche del governo potrebbero lasciare l’Italia vulnerabile a una perdita di fiducia dei mercati”.

 

L’istituzione di Washington si esprime anche sui due provvedimenti simbolo del governo gialloverde. Quota cento “aumenta il numero di pensionati, riduce la forza lavoro e il pil potenziale”; ci sarà quindi un “aumento della spesa pensionistica” che imporrà “un onere ancora maggiore sui giovani”; inoltre “le esperienze internazionali suggeriscono di non facilitare i pensionamenti anticipati per creare posti di lavoro per i giovani”. Mentre per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, il sussidio è ritenuto “molto elevato” perché fissato al 100 per cento della soglia di povertà relativa invece che al 40-70 per cento indicato nelle buone pratiche internazionali” ed è inoltre “più generoso al Sud, dove il costo della vita è più basso, implicando un maggiore disincentivo al lavoro.

 

Naturalmente è possibile che anche il Fmi – che ieri ha lanciato l’allarme sulla possibilità che le incertezze italiane possano diventare la miccia di una crisi globale – sbagli tutto. D’altronde pochi giorni fa il ministro Paolo Savona, prossimo presidente di Consob, aveva detto che le stime della Banca d’Italia non erano credibili perché “esistono strumenti nuovi che possono darci previsioni migliori rispetto agli attuali modelli econometrici”. Non si sa quali siano questi i modelli alternativi, ma non devono funzionare meglio di quelli tradizionali se pochi mesi fa Savona diceva che la crescita per il 2019 sarebbe stata superiore al 2 per cento. Perché l’anno è iniziato in recessione.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali