Foto LaPresse

Il grande imbroglio di Di Maio sulle trivelle

Renzo Rosati

Dagli idrocarburi all’Ilva. Perché il M5s non può intestarsi nulla di sviluppista ma solo scaricar barile

Roma. Il 17 aprile 2016 il referendum per l’abrogazione delle leggi sulle concessioni all’estrazione di idrocarburi in mare, sostenuto da nove consigli regionali di diverso colore politico (Puglia, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Sardegna e Veneto), da governatori di partiti opposti (dal pugliese Michele Emiliano al veneto Luca Zaia), dal comitato No Triv e da ben quattordici partiti (dal Movimento 5 stelle alla lista Tsipras passando per Lega e Fratelli d’Italia) andò incontro a una sonora sconfitta, mancando di gran lunga il quorum: solo il 31,19 per cento degli elettori andò a votare e di questi l’85 per cento si espressero per il Sì. Dunque una netta minoranza del corpo elettorale, il 26 per cento, bocciò le trivellazioni in acque territoriali.

  

In virtù del risultato in due anni e mezzo sono state mantenute o prorogate 26 concessioni che provvedono al 35 per cento della produzione nazionale di gas e al 9,1 di quella di petrolio. Alcune pratiche sono state avallate nel 2018 dalla struttura di Luigi Di Maio, ministro dello Sviluppo economico: però Di Maio le definisce “una porcata del governo precedente contro la quale non si poteva fare altrimenti per non commettere un reato”. Gli dà man forte Sergio Costa, ministro dell’Ambiente: “Mai autorizzerò trivellazioni, e del resto queste sono solo ricerche di idrocarburi controfirmate dal mio predecessore sulla base di un impatto ambientale favorevole”. Bell’esempio di ambiguità. Ovviamente è il capo politico e vicepremier del M5s a difendersi dalle accuse del fronte del No a ogni grande opera, al quale deve la gran parte del successo elettorale del 4 marzo (altro che cambiamento); ma dov’è la porcata? Aver rispettato non solo le regole ma la volontà di tre italiani su quattro? Aver contribuito all’indipendenza energetica del paese, visto che altri 15 paesi che si affacciano sul Mediterraneo estraggono gas e petrolio, rappresentando una concorrenza diretta, mentre le trivellazioni in acque italiane garantiscono circa un miliardo di royalties alle regioni interessate e 29 mila posti di lavoro? E poiché l’Eni ha la maggioranza di 76 impianti su 92, aver garantito maggiori introiti al Tesoro, quindi ai contribuenti, che controlla il gruppo energetico?

  

Di Maio, titolare di un doppio ministero che dovrebbe provvedere allo sviluppo e al lavoro, imbocca la retromarcia dell’ipocrisia. Come già a settembre 2018 per far riaprire l’Ilva di Taranto, quando prima minacciò di “portare le carte in tribunale”, poi definì un “delitto perfetto” l’assegnazione ad Arcelor Mittal, infine agitò un misterioso parere dell’Avvocatura dello stato “che gli legava le mani”. Come ad ottobre, quando autorizzo l’approdo in Puglia del gasdotto Tap (Trans Adriatic Pipeline) sostenendo che diversamente “bisogna pagare 20 miliardi di penali”, cifra totalmente campata in aria. Come nella campagna affidata al ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli sulla revisione costi-benefici di tutte le grandi opere pubbliche. Anche qui la propaganda grillina tira costantemente in ballo le malefiche eredità del Pd o del centrodestra, come del resto fa sempre per la spazzatura a Roma e per l’Atac. Eppure in ballo – per davvero – ci sono 150 miliardi di investimenti già stanziati per i prossimi 15 anni (questi sì dai governi precedenti), dei quali ne sono stati spesi solo sei, mentre 21 miliardi sono bloccati per opere in corso tra le quali spiccano gli 8,6 della Tav Torino-Lione (ma anche i 7,7 della Brescia-Padova). Cifre delle quali ogni fan di Di Maio e Beppe Grillo può trovare conferma, sul Corriere della Sera, in una pagina firmata da Milena Gabanelli, la giornalista che i M5s volevano candidare a tutto, dal Quirinale alla Rai. E al di là dei numeri, al di là del fatto che il bene comune è dato dal benessere e dalla crescita, e questa è a sua volta costituita da un costante progresso del quale il declinismo è il più vorace sciacallo (leggere sul Foglio l’inchiesta di Antonio Pascale), per le infrastrutture è inoltre in ballo il destino delle grandi imprese di costruzioni, da Astaldi a Condotte in giù, quasi tutte in difficoltà e possibili prede di stranieri. Mentre nelle medie e piccole ne sono fallite 120 mila in dieci anni e sono andati persi 418 posti di lavoro tra chiusure e mancato sviluppo.

    

Tra le leggendarie gaffe di Toninelli e l’acclarata incapacità di Di Maio, che il vicepremier cerca di mascherare con sempre minore credibilità dietro l’alibi delle “porcate precedenti”, è poi tutto un agitarsi di ipocrisie che non hanno solo a che fare con i coltelli volanti nel M5s. Queste ipocrisie riguardano le fazioni locali della sinistra e anche della Lega. La prima è testimoniata dal governatore pugliese Michele Emiliano, che per non essere secondo a nessuno, ritorce l’accusa di “bieca ipocrisia” contro il governo. La seconda dai mugugnanti colonnelli di Matteo Salvini, che a nord difendono le grandi opere ma si trovano in imbarazzo sulle trivelle, visto che il referendum l’hanno voluto anche loro. E a dare una mano ecco poi Forza Italia, il cui coordinatore barese Francesco Paolo Sisto definisce ora le trivellazioni in mare “un obbrobrio al quale non possiamo sottostare”. Le parole in libertà, il camminare disinvolti sopra impegni e trattati internazionali non dei governi ma dello stato, perfino calpestando referendum popolari, vanno regolarmente a schiantarsi contro la realtà. In Puglia (sempre lì) i piccoli azionisti della Popolare di Bari contestano la mancata trasformazione della banca in società per azioni, che paralizza l’istituto. La trasformazione in Spa era un obbligo della riforma bancaria del governo Pd: anche quella “una porcata”? Carige, cioè Genova, insegna; Bari segue. Il populismo scaricabarile che fugge da se stesso sarebbe uno spettacolo divertente, se non fosse sempre più un mostro da baraccone.