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la storia

Immortale Nureyev. Il "Tartaro volante" che entrò nella leggenda della danza

Marinella Guatterini

La sua energia e il suo divismo hanno cambiato il balletto classico - "mestiere da fannulloni" - per sempre. Grande anche come direttore artistico. A trent’anni dalla morte ancora non si trova un erede

Trent’anni dalla prematura scomparsa e ancora non si sa bene se sia entrato nella leggenda della danza da vivo o da morto. Ovvero quando, il 16 giugno 1961, chiese asilo politico alla Francia, scappando dalle grinfie di sei mastini del Kgb per buttarsi nelle braccia dei doganieri del nostro oltralpe; oppure quando il 6 gennaio 1993, Michel Canesi, il medico che l’aveva curato, ne annunciò il decesso con una clamorosa bugia: “complicazione cardiaca al seguito di una grave malattia”.

 

Siamo all’inizio degli anni Novanta e la parola Aids avrebbe potuto scuotere la sensibilità dei suoi fan. In realtà, già il giorno dopo la sua scomparsa, tutti i cronisti, muniti di virtuale altoparlante, urlarono ai quattro venti la vera causa della sua dipartita da questo mondo, nel giorno dell’Epifania, e a soli 54 anni. Per fortuna l’ignoranza ancora dilagante su quel tipo di virus, che per i più poteva anche essere una peste qualunque, non scalfì di un grammo la fama di Rudol’f Chametovic Nureyev, nome che in occidente nessuno avrebbe mai scritto con quella grafia, privilegiando sintesi amicali come Rudy, o esaltazioni dal profumo d’oriente come “Tartaro volante”.

 

Ben prima della straziante comparsa di lui in sedie a rotelle per il suo ultimo sforzo, l’allestimento di La bayadère al Théâtre dell’Opéra di Parigi, e quel suo essere sostenuto a braccia dai ballerini per ricevere osanna e tributi infiniti, premi ed encomi, Nureyev divenne un mito in progress. Lo divenne tra due poli opposti: una rinascita “da uomo libero”, via dall’Unione sovietica, e una malattia costrittiva e ancora senza antidoti. La sua grandeur si gonfiò a dismisura nei 32 anni trascorsi in occidente senza internet né social. Potere di più eventi intrecciati: la fuga inattesa e perciò sotto i riflettori da un paese “nemico” anche se retto dal conciliante Nikita Kruscev, il primo presidente del Pcus a recarsi negli Stati Uniti; l’indiscussa malia della bellezza esotica e del palese carisma del fuggiasco; la bramosia di danzare sempre e comunque, prove su prove, 100 ore al giorno (se 100 potessero mai essere…), in teatro, in sala e tra le quinte: tempi sovietici, non occidentali.

 

Ariamo un terreno più volte battuto, ma attenzione non da tutti: Rudolf, come è noto soprattutto a chi si appresta all’età canuta, vantò una nascita ribelle e premonitrice del suo futuro nomadismo. I giovani, però, hanno un vago sentore di chi sia stato questo divo, per fortuna puntellato ancora oggi da chi gli è stato davvero molto accanto come Manuel Legris, l’attuale direttore del Balletto della Scala e la Fondazione Nureyev, da lui voluta per lanciare giovani talenti e curarne le eventuali malattie.

 

Il futuro campione del balletto vide la luce, il 17 marzo 1938, su di un treno in corsa lungo le rive del lago Baikal, verso Irkutsk, una città della Siberia sudoccidentale un tempo battuta dai tartari – o tatari – di origine turca e religione musulmana, come i suoi genitori. Cresciuto, dovette sempre lottare per affermare la sua specialissima vocazione. Il padre, Hamet (di qui il patronimico Chametovic che il ballerino secondo l’usanza tartara non adottò mai) era un severo contadino trasformatosi in militare; giudicava la danza “un mestiere da fannulloni”.

 

Con il solo appoggio dell’allora prediletta sorella Rosa (ne ebbe tre di sorelle: Lylia e Razida oltre a Rosa, e all’apertura del testamento rimasero tutte a bocca asciutta…), il fanciullo Nureyev dagli occhi tristi e spaesati si sottrasse ai divieti e alle angherie e punizioni domestiche del padre. Fece la comparsa nel Teatro dell’Opera di Ufa, dove la famiglia si era trasferita, ed entrò a far parte di varie compagnie di danza folcloristica. Ma giunse tardi a una selezione nella camera d’accesso della scuola di balletto del Kirov di Leningrado, il celebre istituto “Agrippina Vaganova”. E il suo crudo lasciapassare avrebbe scoraggiato chiunque. “Caro ragazzo”, gli disse l’insegnante che lo esaminò, “tu diventerai un grande ballerino o un totale fallimento, e più probabilmente un fallimento”.

 

Ben sappiamo come sono andati i fatti, ma quelle parole scritte nella memoria di una vita di lì a poco diventata favola avrebbero caratterizzato tutta la carriera di Nureyev. Passato senza problemi nei ranghi del Balletto Kirov, oggi del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, insegnanti, ballerini e colleghi invidiosi mal tolleravano l’approccio del nuovo arrivato.

 

Certo il successo in Laurencia di Vakhtang Chabukiani, coreografo georgiano, e il trionfo in tutti i ruoli del repertorio tardo-romantico o classico avevano rivelato la nascita di un vero danseur noble. Nureyev però aveva preso troppo alla lettera l’insegnamento di Aleksandr Puškin, il suo insegnante: non eseguiva semplicemente dei passi, mostrava con enfasi al pubblico quello che stava facendo e fu scambiato per arrogante, con il pallino di “dialogare” sul significato di questo e quel movimento e la sfrontatezza di inventarne di nuovi.

 

Anche al Royal Ballet, la sua prima casa europea dopo un breve ingaggio nella compagnia del Marquis de Cuevas, pochi avrebbero scommesso sulla sua capacità di integrarsi tra le sussiegose file del balletto inglese. Tanto irruento da schiantarsi nella buca d’orchestra, o tra le quinte dopo balzi prodigiosi, dimostrò invece ben altro. Non era solo la cinquantenne Margot Fonteyn – altro mito fragile, passibile di scomparire se non tenuto in vita grazie alla memoria di storici e appassionati – con la quale formò, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, una coppia ricercata da tutti i teatri, ad avere bisogno della sua fibrillante energia per rifiorire sulla scena in una sorta di seconda giovinezza, bensì l’intero corpo di ballo, abituato ad un’eleganza impeccabile, ma assai poco virile. Eppure la sua tecnica era perfetta dal busto in su: i muscoli delle gambe, ancor prima che contraesse l’Aids, si intossicavano facilmente e dovevano essere sempre massaggiati. La sua presenza scenica invece era travolgente, irresistibile.

 

Critici “innamorati”, come la nostra illustre Vittoria Ottolenghi, non facevano che imporre in ogni teatro e con la bella voce suadente e impostata, Nureyev, Nureyev, Nureyev, contro tutti. Da Michail Baryshnikov – la perfezione tecnica, questa sì, ancora imbattuta e uscita dall’Accademia Vaganova e dallo stesso maestro Puškin al Balletto del Kirov – ad Anthony Dowell, stella del Royal Ballet e a tanti altri. In ogni caso Nureyev, pur elegantemente protetto, rivoluzionò, è vero, il modo di danzare maschile in occidente e in seguito anche all’est. Sapeva coniugare la regalità del portamento – il suo modo pressoché unico di indossare il mantello del traditore Albrecht in Giselle – e la sensualità. Una grazia avvolgente e una forza che produceva raffiche di virtuosismo felino.

 

Come Maria Callas, sfuggì alle abituali classificazioni, ma riuscì a rendere popolare un’arte all’epoca confinata nell’élite. Per di più dimostrò abilità e fantasia nell’allestire i capolavori dell’800 appresi nell’odiata (ma in fondo amata Russia) come Il Regno delle Ombre, terzo atto minimalista ante litteram della Bayadère, che per primo nel 1961 fece uscire dalla Russia; Il lago dei cigni, La Bella addormentata, Raymonda, tutti personalizzati anche nei non infrequenti affondi psicoanalitici, come il suo Schiaccianoci, un balletto d’iniziazione all’amore per la protagonista Clara, in scena al Teatro alla Scala sino all’11 gennaio 2023.

 

Eppure si diffidò di lui anche nel ruolo di direttore artistico. Quando Massimo Bogianckino lo chiamò, nel 1983, a dirigere il Ballet de l’Opéra de Paris, era già un danzatore logorato: aveva pagato un alto prezzo alla sua frenesia di ballare sempre e ovunque, e alla malattia che lo aveva già aggredito senza che lui se ne accorgesse. Si temeva che l’egocentrismo per il quale non aveva esitato a martoriare il suo corpo in estenuanti maratone gli avrebbe impedito di dare spazio ad altri ballerini, a eventuali rivali. Invece, dimostrò subito di essere il più aperto e intelligente dei direttori artistici. Amante dell’arte, della cultura in generale, delle belle case stracolme di preziosità che non finiva di acquistare – inclusa l’isola dei Li Galli davanti alla costa amalfitana con la sua storia tutta da raccontare – incontrò i coreografi più vicini al nostro tempo, da Merce Cunningham a William Forsythe.

 

Riqualificò le file della compagnia con un getto continuo di nuove giovanissime stelle come Sylvie Guillem divenuta étoile a 19 anni, Manuel Legris a 22 anni, Laurent Hilaire e Elizabeth Guerin a 24 e Elisabeth Maurin a 25. Trasmise a questa rosa di fuoriclasse ma anche a tutta la sua prima e unica compagnia quella stessa sensibilità aperta al nuovo che, appena giunto in occidente, lo aveva spinto a incontrare i maestri della modernità: come George Balanchine, Jerome Robbins, Frederick Ashton, Paul Taylor, Maurice Béjart e Martha Graham per la quale danzò in Lucifer nel 1975. E pazienza se Mr. B (alias Balanchine) gli preferiva Baryshnikov e solo a lui concesse i diritti per danzare Apollo nell’ultima versione di Apollon musagète del 1929,  purgata da ogni fronzolo scenografico: Nureyev non badava un gran che ai rifiuti; il suo sguardo era sempre puntato a mete future. Una volta realizzata la sua impossibilità di calcare le scene, si tramutò, ad esempio, con molto studio e indefessa concentrazione, in direttore d’orchestra e in Austria, paese a cui aveva chiesto la cittadinanza, ottenne anche un discreto successo.

 

Ciò che il Tartaro fu per la danza, e non solo come interprete, si riverbera senza eclissi, in tutte le zone d’ombra della sua personalità inquieta e solitaria, nonostante le frequentazioni del bel mondo: gli amici, i questuanti, i corteggiatori. Lui passava il Natale a casa di Luigi Pignotti, il suo inseparabile manager e primo massaggiatore: alla fine era un “randagio” senza famiglia e, nella periferia milanese, ritrovava un po’ di calore autentico. Quando svestiva i panni dell’uomo normale, dolorante per le tante ferite subite, e indossava le vesti del divo si ostinava a rendere complesse, cioè piene di passi arzigogolati e inutili, anche sequenze di movimento assai limpide e lineari, forse per una sua ansiogena sfida a se stesso e in seconda battuta al resto del mondo.

 

Per molti era un tipo “impossibile”. Qualche esempio? Rudy fece a pugni con il celebre danzatore Patrick Dupont, insultò il citato coreografo Béjart con il quale aveva lavorato. Maltrattò le partner predilette, non meno importanti di lui come Carla Fracci, che comunque gli tenne sempre testa. Era aduso, in specie se in coppia con danzatrici che non gli erano congeniali, a spostare la mano d’appoggio mentre compivano le loro evoluzioni, così le poverine in cerca di un sostegno dal partner si ritrovavano nel vuoto, spesso capitombolando a terra. Si possono immaginare le urla e gli improperi dietro le quinte. Lui se la rideva; non rise però quando fu cacciato e riammesso sul fil di lana alle prove di Morte a Venezia, la sua ultima apparizione italiana, a Verona, nel maggio 1991. Aveva sferrato calci a destra e a sinistra contro una compagnia che a suo avviso non funzionava: testimone Roberto Bolle, giovanissimo ospite d’onore.

 

Bad boy, Nureyev era caustico, ironico, persino velenoso. Tuttavia faceva e diceva sempre quello che pensava. Quando finalmente si decise, all’inizio degli anni Ottanta, a concederci una lunga intervista per un giornale del quale diffidava per pregiudizio politico, assistemmo a una scena screanzata. Durante la nostra amabile conversazione al defunto Biffi Scala, in cui non facevo che osservare quei suoi occhi verdi e lampeggianti se attraversati, nel sorriso, da un attimale guizzo elettrico, ecco sbucare una fan assatanata che gli si aggrappò a una spalla, al braccio, alla mano.

 

Era una disabile di bassissima statura. Il divo si difese con uno sprezzante, crudelissimo, strattone che gettò la poverina a terra, per fortuna senza conseguenze gravi. Eppure una volta intenta a raccogliere tutto ciò che mi aveva rivelato, con la sua vasta cultura non solo nella danza, dimenticai l’accaduto. Nureyev ammaliava i suoi interlocutori, era sempre sul palcoscenico anche se fuori della scena. Lo ringrazio ancora per avermi fatto scoprire che non sarei mai diventata una cronista, ma quell’episodio meritava di essere descritto.

 

Come un Linus con la coperta, non si separava mai dal suo celebre berretto in pelle a visiera, tipo Lenin. Una volta, in un ristorante di lusso, gli chiesero di toglierselo e lui mangiò per tutto il tempo con un tovagliolo sulla testa. Il suo modo di atteggiarsi restò sempre segnato dal ribellismo anni Sessanta, quando molte rockstar inglesi improvvisamente incominciarono a imitarlo. C’era però qualcosa di naturale nella sua “diversità”; tanto è vero che si faceva sempre la fila “per andare a vedere Nureyev” anche quando l’alone mitico che lo avvolgeva si affievolì. Nella decadenza artistica degli anni Ottanta, le sue ruote o manège intorno al palco non si alzavano in volo che di pochi centimetri e l’imbarazzo non lo rese immune da fischi e stroncature.

 

Solo nel 1987, dopo 26 anni dalla fuga, poté rientrare nel suo paese in forma privata, per riabbracciare la madre malata. Due anni dopo, grazie a Michail Gorbaciov, tornò a danzare col Balletto del Kirov e il pubblico lo accolse con un’ovazione incontenibile. Era resuscitato l’eroe che non aveva certo avuto bisogno del cinema – fu comunque eccellente protagonista nel film Valentino di Ken Russell – per restare impresso nell’immaginario e nella memoria del pubblico anni Settanta e Ottanta. Per questa platea internazionale bastava averlo visto danzare una sola volta ai tempi d’oro e ricordarlo in tre delle sue performance per afferrare al volo le ragioni del suo successo. Tenero come nel passionale balletto Marguerite and Armand; brutale come nel suo inimitabile Corsaro, canagliesco come al termine del primo atto di Giselle. E per chi lo vide in fin di carriera come noi, struggente nel Cappotto, da Gogol, più agito che danzato. Non fosse morto, sarebbe diventato un eccellente performer del teatro fisico.

 

Forse Nureyev incarnò sino allo stremo delle forze il mito dell’artista romantico e ribelle. Fu più unico e spiazzante di Vaslav Nijinskij o di Anna Pavlova in un’epoca come la nostra in cui la danza accademica si è da tempo avviata verso una diffusa, impeccabile, professionalità, talvolta priva di scintille. Nureyev non può avere eredi: era ricco di una generosa, crudele, umanità – nel senso del Teatro della crudeltà, l’imprescindibile testo teorico di Antonin Artaud – e dunque di esistenziale tormento e non insana follia.

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