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1947 - 2024

Avventure e coincidenze nelle pagine di Paul Auster che soffiava New York nell'orecchio del lettore

Mariarosa Mancuso

"Il più francese degli scrittori americani" è morto lo scorso 30 aprile: attraverso le sue opere ha intrecciato la realtà con il mistero, rivelando una complessità che sfida le convenzioni letterarie del Novecento

Il più francese degli scrittori americani. Complimento velenoso, che celebra lo scrittore di Newark (come Philip Roth) per aver sciacquato i panni nella Senna. Nello stesso tempo, presuppone che il romanzo americano possa migliorare con un French touch: lo scrittore che sta a pari merito con i personaggi e si interroga. Invece di scomparire – “come Dio nella creazione”, diceva Flaubert: “responsabile di tutto senza mostrarsi” – sta sopra la spalla del lettore per soffiargli qualcosa nell’orecchio.
 

A Paul Auster piacevano gli avventurosi racconti di Stevenson e piacevano le coincidenze. Anche per vicende personali. Stevenson fu una delle sue prime letture. Da una cugina che era stata in Europa, e in aereo aveva chiacchierato con un vecchio signore incuriosito dal cognome Auster, venne a sapere che sua nonna – “una donnina un po’ spiritata dai capelli rossi” – aveva ucciso suo nonno. Il primo a essere seppellito nel cimitero ebraico di Kenosha, Wisconsin. Secondo le versioni ufficiali fu la caduta da una scala, un incidente di caccia, la Prima guerra mondiale. Per infittire il mistero, era stato tagliato via (malamente, in una restavano le dita e basta) dalle (allora rare) fotografie di famiglia.
 

Avventure e coincidenze non erano ammesse nel Novecento. Non senza qualche trucchetto aggiuntivo, come minimo meta-testuale, o comunque meta-qualcosa. Per un poliziesco come “Città di vetro” bisognava che il protagonista fosse un poeta squattrinato, certo Daniel Quinn. Scrive gialli per campare, si improvvisa investigatore dopo aver ricevuto una telefonata notturna che chiede “del detective Paul Auster”. Dopo qualche altra chiamata, Quinn/Auster accetta l’incarico di trovare Peter Stillman, che è uscito dal carcere e gira per Manhattan raccogliendo oggetti rotti e inutili. Con l’intenzione di trovare un linguaggio che sappia cogliere l’essenza delle cose. Vecchio sogno, già sbeffeggiato da Jonathan Swift: invece delle parole, meglio le cose, sono concrete e non si prestano a equivoci.
 

Gli altri due racconti della “Trilogia di New York”  – “Fantasmi” e “La stanza chiusa” – sono altrettanto complicati, più da riassumere che da leggere. Di tutti i vizi postmoderni – così chiamati per capirci, ci sono postmodernità meno ostiche di altre – a Paul Auster manca la finta raffinatezza della lingua ornata di parole difficili, pescate come ciliegine dal dizionario. Ma sempre i libri si mettono di mezzo. In “Città di vetro”, Quinn/Auster si imbatterà nel “Don Chisciotte”.
 

Se un orfano eredita qualcosa, come capitava ai più fortunati nei romanzi ottocenteschi, si tratta di 1492 libri: glieli lascia uno zio clarinettista girovago. Se c’è un terrorista – come in “Leviatano”, dedicato a Don DeLillo: altro grande narratore americano che da una pallina di baseball smarrita tra il pubblico racconta gli Stati Uniti complottisti e timorosi della guerra nucleare – prenderà di mira la Statua della Libertà. “Nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, avrebbe detto Walter Benjamin, noi potremo dire della “riproducibilità kitsch”: le copie della signora con la torcia disseminate nei vari stati americani.
 

“Sbarcare il lunario - Cronaca di un iniziale fallimento” racconta gli squattrinati anni parigini. Centralinista alla sede locale del New York Times e inventore di un gioco di carte che simula il baseball (mai andato in produzione). Assieme a “L’invenzione della solitudine”, e ai primi romanzi, sono i suoi libri più belli. “Follie di Brooklyn” anticipa l’insistita malinconia dell’ultimo romanzo “Baumgartner”, raccontando le storie del quartiere: “Stavo cercando un posto tranquillo per morire. Qualcuno mi raccomandò Brooklyn”.

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