Aleksandr Puskin su graffito a Kharkov (Wikipedia) 

il festival della mente di Sarzana

Perché i romanzi russi provocano ancora estenuanti emorragie spirituali?

Alberto Fraccacreta

Paolo Nori sulle origini della letteratura russa: Puškin in età adulta continuava ad ascoltare la balia raccontargli le fiabe popolari, e lui prendeva nota della sua lingua viva. Fino al pazzo Fëdor voleva sempre di più conformarsi a Gesù

Guido Cavalcanti ci passò l’estate più dura della sua vita. Esiliato dall’amico Dante il 24 giugno 1300, scrisse a Sarzana la celebre ballata “Perch’i’ no spero di tornar giammai”, ripresa anche da T. S. Eliot nel suo “Mercoledì delle Ceneri”. Non c’erano belle tolosane, né Giovanne Primavera, né radicalismi averroistici a consolarlo. Fece ritorno a Firenze dall’area spezzina sull’orlo di agosto, e il 29 si compì il suo viaggio terrestre. La strada che conduce verso Sarzana vede le Alpi Apuane diradarsi e la Val di Magra arrivare alle sue estreme propaggini. Sprazzi di luce e vento, nuvole appollaiate. Canneti a cannuccia nei greti fluviali, salici e ontani nelle macchie boschive, forte odore di basilico. Il cuore del Festival della Mente, giunto alla diciottesima edizione e dedicato al tema dell’origine (3-5 settembre), è piazza Matteotti, che nella sua memoria storica annovera l’incontro tra Franceschino Malaspina e l’Alighieri (chissà se all’epoca lo chiamavano davvero Alagieri o Aldigherri, come suggerisce Guglielmo Gorni). L’apertura della rassegna è nel segno del poeta toscano: con la lezione di Luca Serianni sugli albori della nostra lingua e le venerabili invenzioni della Commedia. 

Aggirarsi per Sarzana nel fine settimana del Festival della Mente vuol dire assistere a un continuo e compulsivo flusso, persino sanguigno, di turisti, spettatori e curiosi. Non è un caso che nella Cattedrale di Santa Maria Assunta sia conservata una reliquia del Preziosissimo Sangue di Cristo, esposta il secondo venerdì del mese. Non è un caso che a iniziare l’ultimo valzer di incontri, la tarda domenica pomeriggio, sia Paolo Nori con le origini della letteratura russa, lì a ricalcare alcuni tratti salienti del suo Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor Michajlovic Dostoevskij (Mondadori), finalista al Campiello. Constatiamo che, non fosse per la barba corta, Nori parrebbe esibire qualcosa di dostoevskiano nei lineamenti del volto. I singulti stilistici così frequenti nella melodia cadenzata della sua prosa – aspetto, questo, esclusivamente noriano – si sposano alla perfezione con un eloquio fluido, controllato. I suoi testi sembrano messi a punto per essere recitati.

Come sono nati i romanzi russi? Con i versi narrativi dell’Evgenij Onegin di Puškin. Anzi con la njanja (la balia) di Puškin, Arina Rodionovna, che in età adulta continuava a raccontargli le fiabe popolari e lui la ascoltava ammirato, prendendo nota della sua lingua viva. La storia dell’Onegin è tutta racchiusa nel rapporto asimmetrico tra Tat’jana ed Evgenij: quando lei lo ama, non è riamata; quando lui la ama, lei è ormai sposata. “E Onegin resta lì – commenta Nori –, come un baccalà in un essiccatoio”.

Non si parla esplicitamente di Dostoevskij, ma la sua figura aleggia nel gazebo di Canale Lunense. Perché a duecento anni dalla morte i suoi romanzi ci provocano ancora estenuanti emorragie spirituali? “Ho avuto, me lo ricordo perfettamente, la sensazione – scrive in Sanguina ancora – che quella cosa che avevo in mano, quel libro (Delitto e castigo) pubblicato centododici anni prima a tremila chilometri di distanza, mi avesse aperto una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Perché?”. Forse perché attraverso il principe Myškin e Alëša Karamazov il pazzo Fëdor voleva sempre di più conformarsi a Gesù, voleva rappresentare un uomo totalmente buono (un po’ come Puškin). E per farlo devi versare sangue. 

Sarzana è una conca ovale in cui passeggiano ora sottobraccio Evgenij e Tat’jana con la sua “lettera sconsiderata” (“Non neghi, lei mi ha scritto”). Conoscere è con-nascere, nascere insieme, secondo Paul Claudel. Tornando lungo la superstrada tra Arezzo e Sansepolcro, nella luce pierfrancescana di settembre, Nori ci fa ripensare a quell’assolutezza perduta, al rinascere puri, ai fuochi giovanili mai spenti in Puškin e in Dostoevskij. Appena fumanti in noi.