Maria Callas (Foto LaPresse)

A quarant'anni dalla morte, il mito non usurpato di Maria Callas

Jacopo Pellegrini

Il 16 settembre 1977 moriva a Parigi "la Divina". Oggi, al di là del gossip, resta il soprano, e un insegnamento a quelli venuti dopo di lei: che qualunque recita è questione di vita o di morte

Nel dicembre 1959 Maria Callas contava dodici anni di carriera internazionale preceduti da tre anni, tra il 1942 e il 1945, di attività seria e continuativa in Grecia. Aveva appena compiuto 36 anni, ma da tempo era la più famosa cantante d’opera al mondo. Non però la più pagata: con fatica era arrivata al milione a sera, mentre i tenori più celebri ne guadagnavano ben tre. Vantava tuttavia una discografia abbondantissima (opere integrali e pezzi staccati), incentivata dalla rapida diffusione del da poco nato long playing. Chissà se in quel dicembre 1959 si rendeva conto di essere a una svolta della sua attività professionale, di avere imboccato la parabola discendente. Certo non poteva ignorare le condizioni non ottimali in cui versava la sua voce, lo sforzo sovrumano che le costava raggiungere e sostenere le note acute, mantenere l’emissione sotto controllo. Di sicuro era consapevole della nuova piega presa dalla sua vita privata: era stata lei, infatti, a decidere di separarsi dal legittimo consorte, Giovanni Battista Meneghini, abilissimo e avidissimo promotore della sua ascesa, per gettarsi tra le braccia di Aristotele Onassis. La più insigne donna greca vivente col più insigne, e potente, uomo greco vivente: un bel colpo, non c’è che dire. Come sia andata a finire è fin troppo noto.

 

Ebbene, in quel dicembre 1959 Maria non più Meneghini Callas concede un’intervista al critico musicale ed esperto di canto Eugenio Gara, colui che per primo a Milano aveva attirato l’attenzione sulle sue eccezionali facoltà d’interprete, additando in lei la rivoluzionaria restauratrice del metodo di canto e dello stile praticati nell’Ottocento italiano, da Rossini a Verdi. In un colloquio fitto fitto la Callas dichiara superata, anzi sotterrata la rivalità con Renata Tebaldi, italianissima nel timbro opulento (mentre il suo era più secco e penetrante, alle volte tagliente) e nell’approccio esecutivo paciosamente rassicurante, tutto il contrario del metodo spiazzante e innovativo adottato dalla cosmopolita e poliglotta statunitense di nascita e greca di origine; poi annuncia una serie di progetti ambiziosi: il ritorno alla Scala (vi mancava da quasi due anni, vi aveva regnato per sette) e a Wagner; la scelta di dedicarsi ad altri titoli poco noti di Bellini e Donizetti. “Poliuto” di quest’ultimo a parte (Milano, 1960), non uno andò in porto. Continuò invece a insistere su due suoi cavalli di battaglia, “Medea” di Cherubini e “Norma”, e sulla poco amata (da lei) “Tosca”, ma sempre più di rado: poche recite inframezzate da rari concerti o registrazioni discografiche e da lunghe pause di riposo. Nel 1965, l’addio alle scene, mai ufficiale però, costellato anzi di ritorni annunciati e sempre smentiti. Un film con Pasolini (ancora “Medea”), una manciata di malinconici concerti con Giuseppe Di Stefano, poi il silenzio definitivo, oggi fanno quarant’anni esatti.

 

A proposito di Scala: è inesatto dire che le abbia dato lustro e gloria, semmai è stato il contrario. Quando vi s’insediò (Stagione 1951-52) era già qualcuno, faticò moltissimo a imporsi, si trovò sempre contro settori del pubblico e della critica. Come quel Beniamino Dal Fabbro che in morte parlò di “suggestione di personaggio mitizzato”. Mito lo è davvero la Callas: un caso unico nella storia del canto artistico, con decine di romanzi, poesie, commedie, balletti, fiction, opere in musica, collezioni di moda a lei dedicate. Ma mito non usurpato: di là dal gossip, resta il soprano. Fenomeno unico, per qualche verso insuperato (nei pregi e nei difetti), ha insegnato a quelli venuti dopo di lei che il cantante recita sì con la voce, ma anche col corpo; che in un’opera, sia rara o di repertorio, tutti i momenti devono avere lo stesso rilievo, si tratti di un’aria funambolica o del recitativo più marginale; che il canto è sempre espressivo, anche scale e trilli; che a ogni categoria di personaggio (la virago, la fanciulla ingenua, la civetta, ecc.) corrisponde una voce diversa, peculiare e infungibile; che lo studio deve essere matto e disperatissimo e che qualunque recita è questione di vita o di morte.