La cantante Maria Callas allo specchio con un costume di scena de "La Traviata"(foto LaPresse)

E' Dio che salva tutti noi dal romanticismo di Alfredo nella Traviata

Antonio Gurrado

Per Valéry il senso religioso sorge dalla consapevolezza di una nera ombra del piacere, a cui s'affida come a un farmaco che sopisca il male per un fugace e rapido momento. La salva la consapevolezza finale che l'amore umano è solo specchio e strumento dell'amore di Dio.

 

 

Ho avuto una visione mistica ascoltando “La traviata” e ho visto Santa Violetta martire dell’amore romantico, nel momento in cui si leva dal letto di morte e dice: “E’ strano, cessarono gli spasmi del dolore, in me rinasce e m’anima insolito vigore. Ah! Io ritorno a vivere!”. E’ Dio che la chiama a sé a conclusione di un lungo discorso che i due intessono lungo i tre atti, in cui ai silenzi di Dio corrisponde la serena fermezza di lei nell’interpretare i decreti divini. Per intentare un processo all’anima di Violetta Valéry bisogna anzitutto tenere presente che in lei il senso di Dio sorge dalla consapevolezza di una nera ombra del piacere; lì dove per tutti “la vita s’addoppia al gioir”, Violetta s’affida al piacere come a un farmaco che sopisca il male per un fugace e rapido momento. A un primo livello di lettura è la mano pallida della tisi che la sfiora e le impedisce di godere come gli altri; ma, scandagliandola, si nota che Violetta è uno dei due personaggi tridimensionali dell’opera, in netto contrasto con un demi-monde che si affida ai vaticini delle zingarelle con la stessa divertita compunzione con cui oggi leggiamo l’oroscopo, e soprattutto in insanabile attrito con l’uomo che le promette la salvezza che non può darle.

 

Alfredo Germont crede nell’amore romantico come orizzonte ultimo della vita (Violetta vede oltre; quando lui le chiede se abbia o no un cuore, lei risponde “Sì, forse”, sentendolo affogare nella “turbata anima mia”); lo trasforma in panteismo, in “palpito dell’universo intero”. E’ colpa d’Alfredo se Violetta s’illude che sia lui l’incarnazione del “dolcissimo signor dell’avvenire”, proiezione dei desideri, “delirio vano” che la porta a sostituirlo a Dio come garante di felicità. Alfredo, in effetti, è immodesto come tutti gli amanti banali. Dopo tre mesi che l’ha persuasa a convivere, giurando a Violetta che avrebbe potuto trovare tutto in lui, grazie all’amore romantico Alfredo s’indìa (“Dell’universo immemore mi credo quasi in ciel”) mentre lei ha sempre presente che l’unico farmaco che possa ottundere l’aridità del suo vivere, incapace di arrivare al Dio che avverte di là dalla retorica del cuore, è il piacere; strumento abissale che le consente di annientarsi, “di voluttà nei vortici finire”. Per fortuna c’è il signor padre. Germont senior è tridimensionale non perché sul finale si ravveda convincendosi, “malcauto vegliardo”, di avere fatto del male lì dove credeva di far del bene; macché: è l’unico altro che sente la presenza di Dio in una Parigi neopagana, dove per il carnevale si venera il Bue Grasso. Agisce diretto da Dio, che lo esaudisce nell’ottenere che Violetta lasci Alfredo (“Non avran balsamo i più soavi affetti, poiché dal ciel non furono tai nodi benedetti”) e lo conduce a perdonare il figliol prodigo.

 

“Religione è sollievo ai sofferenti”, dice Violetta nel terzo atto e il pubblico è portato a credere che si riferisca alla tisi, quando invece questo sollievo è la chiave della spoliazione che compie di fronte a Germont, emissario divino. Se non si considera Dio, “a tutti è mistero quest’atto”; invece Violetta lascia Alfredo e i propri averi per ricusare il passato, compie “un giuramento sacro” come all’ingresso in monastero. In Alfredo non trova il “tutto” che le ha promesso; inevitabile, con un damerino che dice “Sfortuna nell’amore vale fortuna al gioco”, incapace di elevarsi sopra il luogo comune. Per questo lei lo rimprovera: “Di questo core non puoi comprendere tutto l’amore”: non parla dell’amore per lui, ma del fatto che l’amore lo travalica per giungere a Dio e fa dell’amato specchio e strumento. Il Dio di Alfredo è rosa, non contempla abisso né male; quello di Violetta sa vedere nel cuore dell’uomo oltre il piacere: “Oh nel comun tripudio, sallo Iddio quanti infelici gemon!”. Allora, all’ultima scena, Violetta appena riavutasi stramazza sul canapé: è Dio che la chiama a sé per sottrarla alla promessa di Alfredo, lasciare Parigi persuasa di essere colpevole ma solo per amore; Dio le risparmia il romanticismo per garantirle non so se il Paradiso ma di certo un Purgatorio breve.

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