Moderna e gradevole è l'opera di Vittorio Montalti sul divo Rossini
Sonorità ultra contemporanee al Maggio musicale fiorentino
Firenze. Rossini scende le scale in una specie di studio di registrazione tutto perspex e alluminio. In alto, dietro tre vetrate illuminate di verde, Vittorio Montalti recita nel ruolo di compositore, mixando l’elettronica con la musica strumentale affidata all’Ensemble dell’Orchestra del Maggio musicale diretto da Marco Angius. Dopo un’ouverture che sembra riprodurre una radio non sintonizzata, una voce fuori campo cita due righe da A Tale of Two Cities di Dickens: “A Parigi dominata dal sangue, solo, di notte, con il cuore oppresso pensando a quei sessanta messi a morto proprio quel giorno, a quelli che aspettavano che si compisse il loro destino domani, e domani e domani…”.
Siamo a Parigi all’indomani della Rivoluzione. Seduto su una poltrona, nella sua villa di Passy, e poi a una tavola imbandita, Gioachino Rossini inizia a parlare, e il suo soliloquio diventa una sorta di seduta di psicanalisi dove il compositore ormai vecchio, malfermo e afflitto dal passato splendore, passa in rassegna la sua vita. Da lontano arrivano suoni evocativi. Poi d’improvviso scende il silenzio e Rossini dà sfogo al flusso di coscienza. Irrompe un critico vestito come un tipo di oggi, Rossini teme che sia dottore e quando se ne va tira un sospiro di sollievo. Poi entra in scena la memoria. L’infanzia beata s’annuncia con una ninna nanna e i genitori che parlano di quell’unico figlio adorato da cui si s’aspettano grandi cose. Segue intermezzo guerresco con l’arrivo dei francesi e una marcetta che mima l’entusiasmo per le truppe di Augereau. La musica è quella di un pianoforte preparato con oggetti che ne modificano il timbro, mentre l’orchestra ne riprende il suono… Entra in scena un candido e enorme letto a rotelle, dove Rossini si sdraia, si stende, si allunga… e sotto la voce carezzevole di Ljuba Bergamelli che recita Olympe Pélissier e poi Isabella Colbran, e quella ironica dell’impresario Barbaja il sogno si dilata facendo spazio anche al jazz, con un flâneur che sussurra uno scat, e cresce via via che si sviluppa la partitura di quest’opera prima che ha aperto a Firenze la 83ma stagione del Festival di Maggio, insieme con “Le Villi” di Puccini, con cui il compositore lucchese esordì nel 1884 al Dal Verme di Milano.
Così, fedele alla tradizione, anche quest’anno il Maggio fiorentino diretto da Cristiano Chiarot e Fabio Luisi ha puntato sulla sperimentazione. “Ehi Giò-Vivere e sentire del Grande Rossini” è infatti la seconda opera di Vittorio Montalti, composta nel 2016 per il Teatro sperimentale di Spoleto e rivista apposta per il Maggio. Anche stavolta Moltalti si è avvalso del librettista Giuliano Compagna. Ma il suo successo molto deve alla bravura dei cantanti, Ljuba Bergamelli soprano, Gregory Bonfatti tenore, Salvatore Grigoli baritono, alla purezza delle scene del regista Francesco Saponaro, ai costumi di Chiara Aversano, alle luci di Pasquale Mari. “Opera come plurale di opus” dice infatti Montalti, affascinato dalla definizione di Luciano Berio. “Se opus è lavoro, opera è tanti lavori messi insieme, le luci, il testo, la musica, i costumi, le scene, la regia, gli strumenti…”. E’ l’aspetto che più interessa questo allievo di Alessandro Solbiati e Ivan Fedele al Conservatorio di Santa Cecilia, specializzato all’Ircam di Parigi, Leone d’argento per la creatività alla Biennale di Venezia 2010, Premio del Teatro La Fenice 2016, che sempre insieme allo stesso librettista Compagno ha esordito con un’opera tratta da Georges Perec, ora è atteso al Teatri Costanzi di Roma nel novembre 2019 con “Un romano su Marte”, e in primavera di nuovo al Maggio con “Le leggi fondamentali della stupidità umana, Opera quasi intelligente dal libro di Carlo Maria Cipolla”.
E se oggi scrivere un’opera è una sfida è anche vero, come dice Montalti, che la si vince solo a certe condizioni: “Spostare la narrazione su un piano astratto, dato che non puoi far dialogare i cantanti come facevano Verdi o Puccini, perché oggi per questo c’è il cinema. E giocare con l’evocazione dei personaggi, pensando la musica a partire dalla drammaturgia, dalla situazione teatrale, e lavorando di concerto col librettista”, anche se scrivi musica elettronica, che però nelle 220 pagine di partitura, si sposa con la musica strumentale”. Il risultato è un’opera ultra contemporanea che riesce a essere gradevole per le sue sonorità lontane dalla musica sinfonica, ma che ti avvolgono, scivolando come velluto sulle rime mentre fingono di non raccoglierle, e ti emozionano, regalandoti in pieno quell’illusione teatrale che credevamo sepolta.