Rudolf Nureyev con Ghislaine Thesmar durante una scena dello spettacolo "Pomeriggio di un fauno" (Foto LaPresse)

La rivoluzione di Nureyev, che nacque su un treno e morì sognando Moby Dick

Micol Flammini

Il ballerino russo nella biografia di Julie Kavanagh

Il ritmo era in ogni cosa: in quella vita disarmonica, nell’eccesso del movimento, nella curiosità inquieta. Nelle sue esperienze incastrate tra un oriente e un occidente che lui non riusciva a capire del tutto, ma nei quali viveva fuggendo e anche ballando, come se ballare fosse l’unica ricerca che veramente lo interessasse. La vita di Rudolf Nureyev è ciclica, è perfetta, è estetica pura e sofferta. È trasformazione. Non ci sono ripensamenti, c’è una spinta continua ad andare avanti, un’ansia di vivere che lui riusciva a placare soltanto danzando. Nella ciclicità e nella perfezione di una vita da artista, Rudolf Nureyev non poteva che nascere su un treno, sua madre era voluta partire nonostante tutto e mentre i vagoni viaggiavano lungo la ferrovia sovietica che lambiva il tramonto del lago Bajkal, nasceva lui. Unico figlio maschio. Inizia così la biografia scritta da Julia Kavanagh uscita in Italia per La nave di Teseo e dal titolo “Nureyev. La vita”. Lo chiamavano il “ragazzo nato in treno” e in viaggio ha trascorso tutta la sua vita. Ogni cambiamento per lui è avvenuto in luoghi di attesa, in aeroporto a Parigi gli dissero che non poteva più far parte della compagnia, il Kirov avrebbe proseguito per Londra e lui no, a causa della nottata dissoluta trascorsa la sera prima nella capitale francese. Gli ordinarono di tornare a Mosca, lui preferì Parigi, rimase dall’altra parte dell’Unione sovietica, così divenne un traditore.

 

Eppure i suoi genitori la Rivoluzione l’avevano amata, avevano amato quel senso di occasione e di novità che sembrava essere arrivato all’improvviso. Nella trasformazione i suoi genitori avevano visto la libertà, “un miracolo”, la possibilità di fare di una nazione sconfinata un’utopia. Ma nel 1961, quando Rudolf Nureyev decise di non prendere quell’aereo per Mosca, l’utopia assumeva già i tratti del fallimento. Restare non aveva senso, se non fosse che anche in Europa, nei circoli artistici, tra gli intellettuali di sinistra, quel ballerino insolente che aveva lasciato la sua patria per gli agi della Francia, era da tenere alla larga. Lui, baschiro di origine, sovietico di cittadinanza, ballerino di professione, di tutto questo non se ne curò mai. Era curioso e inquieto, non sarebbe potuto rimanere nel paese che aveva trasformato la danza e la sua simmetria in geometria e propaganda. Nureyev ruppe tutto, ruppe i triangoli e i quadrati, ruppe i movimenti, le forme, le presenze, le scene. Ruppe i palcoscenici della Guerra fredda e quella sua rivoluzione non sarebbe stata possibile se non nel regno di mezzo dell’est e dell’ovest. Il ballerino non aveva bisogno di appartenere a una nazione, voleva soltanto i suoi palchi, sui quali portare cavalli, stivali, turbanti, ritmi. Rivoluzioni. Kavanagh racconta che appena usciva di scena e smetteva di danzare, di Nureyev rimaneva lo scheletro, come fosse una vecchia nave abbandonata in un porto.

 

Rimaneva la struttura, l’uomo senza il ballerino e quell’uomo era spesso rozzo, sembrava incompleto e incline alla provocazione. Amava i bar fumosi, la musica fino a notte fonda, amava il sacro e il profano. Non aveva ricevuto una grande educazione, non sapeva parlare in modo forbito e nemmeno gli interessava, era selvaggio e spesso brutale, ma amava l’arte e la letteratura. Amava la perfezione. Quando seppe di essere malato, molto malato, decise di spendere tutta la vita che gli rimaneva in corpo con energia. Attendeva la fine distraendosi, nel momento in cui sarebbe arrivata voleva soltanto dirle che era pronto, si sarebbe concesso a lei, dopo essersi concesso alla vita. Nell’attesa riuscì anche a tornare a esibirsi in Russia, a Leningrado, era il 1989, tutto si stava trasformando, di nuovo, e lui non aveva rimpianti. La sua rivoluzione poteva essere creata soltanto da un russo, ma lontano dall’Unione sovietica. Morì e sembrava non dovesse morire mai, “manca poco”, dicevano i medici. E lui continuava ancora a vivere per mesi. Poi per settimane. Infine per giorni quando in un sospiro pronunciò la sua ultima parola: “Moby Dick”.

Di più su questi argomenti: