La danza immortale di Colum McCann (che torna in libreria)

Valentina Berengo

Il Nuruyev raccontato dallo scrittore irlandese è un caleidoscopio di voci e di finzione (anche quando presenta la verità)

A volte la letteratura ha bisogno di un pretesto. La vita di un grande, un pensiero sbagliato, la materializzazione di un disagio, un incubo, un desiderio. Ha bisogno cioè di una tensione che si realizzi nell’atto stesso del raccontare e trovi in quella forma compiuta il suo proprio senso, indipendentemente dall’oggetto (o dal soggetto) del racconto. L’irlandese Colum McCann ne La sua danza, che Feltrinelli ripubblica dopo vent’anni e che solo nella teoria è la biografia di Rudolf Nureyev, fa così. Inventa un caleidoscopio di voci, di finzione anche quando sono vere e vere anche quando sono di finzione, le cala in quei giorni della vita di Nureyev e in quei luoghi (la Russia del comunismo, Parigi e l’Opera, Londra, una New York impazzita di frenesia, Caracas) e le segue fedelmente. Il risultato è un’opera di letteratura magnifica. Diceva (il compianto) Javier Marías: “Riferire l’accaduto è inconcepibile e vano, o piuttosto possibile solo come invenzione” e questo è tanto più vero in questo romanzo di McCann per il quale, su sua stessa ammissione, lui non si è documentato se non sui contesti.

Il suo Nureyev vive attraverso la voce di un narratore terzo che tutto sa e con imparzialità racconta, ma soprattutto attraverso quella della sorella Tamara che ne vede il fuggiasco per cui loro sono accusati con lui di tradimento, della figlia e del marito della sua prima maestra di danza, Anna, di cui è l’allievo bambino, di Xenia moglie di Puškin che fu suo insegnante, della sua cameriera personale per cui lui è Monsieur,e di altri ancora, e attraverso i loro desideri e le loro ossessioni prende forma, insieme ai desideri e alle ossessioni di tutti coloro che toccano, abbracciano o solo lambiscono il suo streben: Margot Fonteyn, la sua compagna sul palco, Andy Wharol, Mick Jagger, Tom il suo calzolaio londinese, Victor l’amante (sublime invenzione di McCann che ne fa un alter ego – sarà lui a morire –). A chi legge nulla importa della vita realmente vissuta, tantomeno del pettegolezzo. “Quasi tutti passiamo la vita a respirare un respiro già respirato”, scrive McCann che sovrappone al ballerino il divo, l’esule, il figlio, il traditore della madrepatria, l’innamorato, l’arrogante tartaro, e non distingue tra ascesa e declino, palcoscenico e camera da letto, tra scelta e destino: si chiama vita. “Picchiandolo e negandogli la possibilità di ballare, suo padre regalava a Rudik la condizione di necessità”.

 

E quando al calzolaio arrivano i “bozzetti dei piedi del russo” gli bastano “quei pochi tratti per intuire la vita che sta dietro a quel piede, cresciuto scalzo e in povertà – a giudicare dall’ampiezza inconsueta della struttura ossea – scalzo sul cemento più che sull’erba, poi stretto in scarpe troppo piccole, arrivato alla danza in età più tarda del solito, visto com’è piccolo e largo, taglia 7EEE, e poi violentato dalle troppe esercitazioni, un piede tutto angoli ma con una forza notevole” e a lui gli apprendisti nel vedere i bozzetti “hanno urlato ‘Traditore? Diciamo pure figlio di puttana! È un lurido comunista, no? No, non è vero, è uno di noi. Uno di noi? […]’”. Sì. McCann scrive un romanzo in cui arte e vita collassano in un singolo punto e subito si parcellizzano attraverso il prisma delle voci per tornare uno, e ciascuno, persino nel desiderio di maternità della sorella che dopo il divorzio adotta un orfanello. “Si esce di scena e si entra”, scrive McCann. E ancora: “La nostra funzione è quella di far durare certi momenti”. Sì: immortale Nureyev con la sua arte, immortale l’opera in cui McCann l’ha trasposto.

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