Roberto Bolle al 66mo Festival della Canzone Italiana (foto LaPresse)

L'Italia è meglio di come la dipinge la tivù. Qualche numero

Claudio Cerasa

Così la danza di Bolle su Rai 1 prende a calci la “narrazione dell’allarmismo”

Alla fine siamo sempre lì e oggi più che mai, per capire i prossimi mesi della tv italiana, bisogna partire da tre domande semplici e secche. Primo: si può fare una televisione per costruire e non solo per distruggere? Secondo: si possono informare i telespettatori uscendo fuori dalla gabbia dell’anti casta? Terzo: esiste un’alternativa concreta e magari persino di successo all’insostenibile palinsesto dello sfascio?

 

Come capita spesso ogni volta che le feste cancellano per qualche tempo il segnale dell’indignazione nazionale trasmesso ogni sera a reti unificate sui principali canali italiani attraverso il veicolo dei talk-show, all’improvviso una buona parte dell’opinione pubblica del nostro paese si è resa conto che l’Italia non percepita che vive fuori dal tubo catodico è terribilmente distante da quella rancorosa, depressa, indignata, incazzata che ogni giorno tende ad arrivare nelle nostre case attraverso il palinsesto che ci viene offerto dall’industria televisiva del malumore. E ogni volta che quel palinsesto si interrompe viene naturale farsi delle domande. Esistono delle alternative a quel palinsesto? E perché la scaletta del malumore scommette più sulla rappresentazione dell’Italia percepita che sulla rappresentazione di quella reale?

  

La risposta alla prima domanda è complicata da dare – in Italia esiste un complesso tipico dell’intellettuale, non da oggi ma più o meno dai tempi di Giacomo Leopardi, che se non denuncia i mali del mondo e non attacca lo status quo si sente mancare l’aria. Ma negli ultimi mesi tra mille problemi abbiamo scoperto che quando la tv sperimenta scommettendo più sulla bellezza di ciò che offre l’Italia che sul suo presunto sfascio riesce a ottenere risultati importanti. Due piccoli esempi apparentemente scollegati l’uno dall’altro. Il primo lo avete visto forse anche voi: la bellissima serata dedicata lunedì da Rai 1 alle performance di Roberto Bolle (4 milioni e 860 mila spettatori, con share del 21,53 per cento) e l’Andrea Chénier di Umberto Giordano che il 7 dicembre ha inaugurato la stagione del Teatro alla Scala e che Rai 1 ha trasmesso di pomeriggio mettendo insieme 2 milioni 77 mila spettatori e uno share dell’11,1 per cento. Entrambe le serate sono in realtà occasioni non ripetibili, eccezionali, ma il successo avuto dalla Prima della Scala e da Bolle sono due casi di esempi non scontati di una tv che decide di investire su un valore, scusate la parola, che l’industria televisiva del nostro paese spesso decide di mandare invece in soffitta con nonchalance: l’orgoglio italiano. In un certo senso, la performance di Bolle e la serata della Scala dimostrano che la formula dell’orgoglio italiano trasmesso in prima serata può essere replicabile anche in eventi non eccezionali.

 

   

E a questo punto del nostro ragionamento non possiamo che ritornare all’argomento iniziale del nostro articolo che ci permette di inquadrare qual è il vero modello di tv che si trova in perfetta antitesi rispetto a quello appena descritto: l’industria del talk-show. Un programma che manda in onda uno spettacolo culturale è naturalmente cosa diversa da un programma che si occupa di informare il paese ma con la stagione televisiva che ricomincia c’è una domanda che ci sembra lecito porre ai curatori e ai conduttori dei talk: davvero la formula del non orgoglio italiano è l’unica formula possibile da utilizzare per raccontare il nostro paese? Davvero l’Italia non è in grado di elaborare un’offerta di informazione televisiva in prima serata che sappia parlare non solo alla pancia ma anche al cuore e alla teste delle persone? Davvero un talk-show in prima serata ha senso solo se tende in modo più o meno consapevole ad apparecchiare la tavola ai professionisti dello sfascio? 

  

Qualche piccolo esempio di quello che è successo lo scorso anno può essere utile per capire di cosa stiamo parlando. Nel corso del 2017, lo abbiamo visto tutti, la stragrande maggioranza dei programmi di informazione televisiva, in prima e seconda serata, ha raccontato un’Italia martoriata da tre gravi e irrisolvibili problemi: l’emergenza sicurezza, l’emergenza immigrazione, l’emergenza lavoro. Sulle prime due (presunte) emergenze qualche settimana fa l’Osservatorio di Pavia, un istituto di ricerca indipendente specializzato nell’analisi dei media, ha diffuso un dossier interessante che ha descritto proprio la propensione all’allarmismo dei principali canali di informazione italiani (dai tiggì fino ai talk passando ovviamente per i giornali). “Il 2017 – notano i curatori dello studio – sia nella stampa sia nella tv segna un nuovo passo: una parte significativa della comunicazione evoca dubbio, minaccia, sospetto. La presenza di una narrazione allarmistica è stata rilevata nei casi in cui i titoli-articoli stabiliscono una connessione con il terrorismo, la criminalità, ‘l’invasione’, il degrado, la diffusione delle malattie e la minaccia all’ordine pubblico. La novità del 2017 è che si registrano toni allarmistici nella dimensione dei flussi migratori: le morti in mare, l’emergenza degli arrivi, la gestione dell’accoglienza, le difficoltà nella implementazione dei corridoi umanitari sono raccontati appunto con pathos ed enfasi. Nel 2017 aumenta lo spazio di attenzione assegnato ai flussi migratori: quasi una notizia su due è dedicata alla gestione degli arrivi nel Mediterraneo centrale.

 

E cresce la dimensione della criminalità e della sicurezza: quasi dieci punti in più rispetto al 2015. Fa da contraltare una riduzione significativa, un terzo rispetto al 2016, del racconto dell’accoglienza. La trattazione della criminalità, seconda voce dell’agenda, è continua su tutto l’anno. Un fatto di cronaca nera alla fine di agosto – lo stupro di Rimini – occupa la scena mediatica: 137 in poco più di un mese, con picchi di 28 notizie in un giorno”. E sulla stampa, ovviamente, lo schema è identico: “Nel 2017 si registra un significativo incremento dei toni allarmistici: quasi 20 punti in più rispetto all’anno precedente, dal 27 per cento del 2016 al 43 per cento di quest’anno. 4 titoli-notizie su 10 hanno un potenziale ansiogeno. Il restante 57 per cento si divide tra la componente rassicurante, con il 5 per cento, e quella neutrale, con il 52 per cento. Altrettanto interessante da rilevare è la diminuzione dei titoli rassicuranti che si riducono della metà, dal 10 per cento del 2016 al 5 per cento del 2017”. L’Osservatorio di Pavia nota infine un fatto elementare che però visto l’andazzo italiano tanto elementare non è: “In tv, il 2017 conferma l’esistenza di una correlazione tra la cornice in cui il fenomeno è raccontato e la percezione dei cittadini di quel fenomeno, in particolare la sicurezza. Tra gennaio e novembre 2017 si registra un incremento della paura nei confronti dei migranti e profughi in associazione alla maggiore presenza di notizie legate alla criminalità e all’afflusso dall’Africa sulle nostre coste: il 43 per cento, dieci punti in più rispetto al 2015”. Dato conclusivo: “Sui telegiornali la visibilità del fenomeno migratorio si attesta su 3.713 notizie dedicate al tema dell’immigrazione, quasi mille notizie in più rispetto al 2016, con un incremento del 26 per cento”. E le stesse proporzioni si trovano nell’infotainment. “La paura fa ascolti – è la conclusione dello studio – ma essa è spesso provocata da bufale non prontamente smentite, da toni allarmisti, da spettacolarizzazioni strumentali”.

 
La dinamica è dunque chiara, l’industria del rancore non conosce sosta, il mostro dell’allarmismo non può smettere di essere alimentato ma allo stesso tempo dovrebbe essere evidente che l’industria del rancore non si limita solo a dare spazio eccessivo ad alcuni fenomeni che andrebbero forse ridimensionati ma omette sistematicamente di ricordare che l’allarmismo è semplicemente fondato sul nulla. Proprio così: sul nulla.

   
Segnatevi questi dati perché nessun talk-show ve li darà mai tutti così in sequenza. Pronti? Via. Nel 2017 in Italia ci sono stati il 9,2 per cento di delitti in meno rispetto al 2016. Gli omicidi sono calati dell’11,8 per cento, le rapine dell’11 per cento, i furti del 9,1 per cento, le persone espulse per motivi di sicurezza sono state il 62 per cento in più rispetto al 2016, gli sbarchi nel nostro paese sono calati del 34 per cento, il numero dei migranti rimpatriati è aumentato del 19,6 per cento (5.300 nel 2016 a 6.340 nel 2017), le vittime in mare, come ha ricordato Paolo Gentiloni nella conferenza stampa di fine anno, sono diminuite dalle 4.405 del 2016 alle 2.832 del 2017.

 

Avete capito dove vogliamo arrivare: nel 2017, a fronte di una situazione in continuo miglioramento, anche dal punto di vista economico, of course, con il pil in crescita, l’occupazione in crescita, la produzione industriale in crescita, l’export in crescita, la fiducia dei consumatori in crescita, l’informazione televisiva che cosa ha fatto? Facile: ha contribuito ad alimentare ogni giorno una clamorosa e scriteriata industria dello sfascio che al posto di raccontare l’Italia vera, semplicemente quella, ha raccontato con grande regolarità un’Italia che non esiste. Il tutto ovviamente in un contesto delirante in cui le stesse trasmissioni che hanno raccontato agli italiani allarmi farlocchi non perdevano occasione per interrogarsi con grande serietà e severità su come combattere i professionisti delle post verità e delle fake news.

 

Ecco. Noi avremmo un piccolo suggerimento per gli amici conduttori dei talk: le fake news sono già tante, e si diffondono con grande capillarità, evitiamo magari di crearle noi. Ed evitiamo di trasformare la prima serata italiana in un fake show a reti unificate nel quale i populismi beceri non possono che inzuppare con facilità il loro biscotto. La verità sull’anno che è finito e su quello che è cominciato è evidente: le cose potrebbero andare meglio ma nel frattempo non sono andate peggio e sono andate sempre meglio. Sulla sicurezza, sull’immigrazione e sull’economia. Punto. Sarebbe bello prenderne atto e vedere alla ripresa dei talk un qualche conduttore coraggioso pronto a dire una cosa semplice: scusate, cari telespettatori, ci siamo sbagliati, vi abbiamo raccontato degli allarmi che non esistono, abbiamo alimentato un malumore dannoso per il nostro paese, da oggi però cambiamo registro, da oggi vi raccontiamo l’Italia che c’è e che spesso è diversa da quella percepita e da quella che ogni giorno ingrossa l’industria del malumore.

  

Meno sfascio, più orgoglio. Meno fake show, più real show. Volendo si può fare. Lo spazio c’è (e la Rai potrebbe persino approfittare di questa situazione per staccarsi dal mucchio disfattista e farci quasi ri-affezionare all’idea di servizio pubblico). E allora. Caro Urbano Cairo, caro Pier Silvio Berlusconi, caro Mario Orfeo, allora perché non provarci davvero? Perché non provarci subito? Perché lasciare confinato l’orgoglio italiano in due prime serate all’anno? Pensiamoci bene prima di regalare il paese ai campioni della bufala e ai professionisti dell’Italia sfascista.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.