Luigi Di Maio a Cernobbio (foto LaPresse)

L'orrore della borghesia che trasforma i clown in statisti

Claudio Cerasa

Maschere da peronismo digitale. Di Maio e l’idea pazza che il grillismo possa essere altro rispetto a ciò che è

Negli ultimi due giorni, la partecipazione di Luigi Di Maio al Workshop Ambrosetti ha catturato l’attenzione di una buona parte della classe dirigente italiana. E in molti, ascoltando le parole intense offerte domenica scorsa a Cernobbio dal vicepresidente della Camera, hanno tentato di rispondere a una domanda che avrà una sua centralità anche nel corso della prossima campagna elettorale: quanto è credibile, come candidato premier, il front runner del Movimento 5 stelle? In teoria, la domanda rappresenta di per sé una contraddizione in termini, un ossimoro in natura, e solo una classe dirigente malata, o forse profondamente compromessa, può ancora chiedersi se sia credibile o no il portavoce di un movimento sfascista specializzato in manganellate digitali, nato sull’onda di un vaffanculo grande come una casa, guidato da un clown che si considera l’erede di san Francesco, che attraverso un blog che fattura grazie ai ricavi della pubblicità generata dai clic prodotti dai post dei suoi parlamentari ha trasformato i suoi eletti in marionette, tutte al servizio quotidiano di un’azienda privata non eletta da nessuno.

 

La domanda, dunque, di per sé sarebbe una non domanda, sarebbe come chiedersi se è piacevole o no essere sommersi da una montagna di fango o se è consigliabile o no mangiare cibi scaduti. Ma dato che in molti, anche nella nostra classe dirigente, sembrano impegnati notte e giorno a trovare una ragione per spiegare perché il Movimento 5 stelle non è affatto come sembra, e che anzi bisogna capirlo, bisogna coccolarlo, bisogna dialogarci, bisogna accettarlo, forse vale la pena provare a ragionare un istante su quello che è successo negli ultimi giorni tra l’élite italiana e il M5s. Partendo da alcune parole offerte al pubblico, tra domenica e lunedì, da Luigi Di Maio e da alcune considerazioni fatte da alcuni pezzi importanti dell’establishment italiano, in primis dall’ex presidente del Consiglio Mario Monti, che dopo aver ascoltato il discorso di Di Maio al Forum Ambrosetti ha scelto di dare una splendida definizione del candidato in pectore grillino: “Un raffinato borghese, con una compiuta articolazione intellettuale, mosso dal desiderio di essere e apparire moderato”.

 

La frase di Monti merita di essere citata perché ci permette di inquadrare una tentazione esplicita (non di Monti, che probabilmente avrà detto quella frase con un sorriso sulle labbra, vogliamo sperare) che da mesi ha cominciato a farsi strada in un pezzo non irrilevante della borghesia italiana: l’idea che il Movimento 5 stelle possa essere qualcosa di diverso rispetto a quello che è. Chi parte da questo presupposto sceglie volutamente di coprirsi gli occhi e prova in tutti i modi a concentrarsi sulla forma senza curarsi della sostanza. Sceglie di non rendersi conto che il Di Maio che dice di non volere “un’Italia populista, anti-europeista o estremista” è lo stesso Di Maio che rappresenta un blog che ancora oggi ospita una guida facile per uscire senza problemi dall’euro-che-uccide-le-imprese, sottoscritta da circa 200 mila persone. Sceglie di ignorare che il Di Maio che dice di avere “un concetto alto della politica” è lo stesso che non ha mosso un dito quando il suo movimento ha linciato la virologa Ilaria Capua indagata per un reato mai commesso. Sceglie di credere alla favola della svolta anti populista (“populisti è un’etichetta che ci avete appiccicato voi, i media mainstream”, ha detto ieri al Corriere) quando è il capocomico che teleguida Di Maio ad aver rivendicato di essere un fiero populista. E così via. Disquisire sulla credibilità di Di Maio, come è evidente, è un’opera senza senso. Ma la ragione per cui in molti hanno scelto di bersi la fiaba della “svolta” del M5s merita un piccolo approfondimento, anche a futura memoria. E’ certamente vero che le parole di Luigi Di Maio rappresentano la spia di un tentativo di riconversione del populismo, ma credere che il populismo possa essere riconvertito presuppone una preoccupante volontà preliminare: essere disposti a mettere da parte la sostanza ed essere pronti a concentrarsi solo sulla forma.

 

Nel caso del Movimento 5 stelle concentrarsi sulla forma, e mettere da parte la sostanza, rappresenta un’operazione spericolata, e persino pericolosa. Significa non voler osservare quello che rappresenta per la democrazia un partito che propone esplicitamente di superare la democrazia rappresentativa. Significa non voler osservare quello che rappresenta per il paese un partito che ha costruito buona parte del suo consenso sulla base di un principio totalitario: la legittimazione del linciaggio del nemico attraverso l’alimentazione dei meccanismi della gogna. Significa, in definitiva, voler assecondare una spaventosa truffa culturale, che attraverso i meccanismi della democrazia diretta punta ad alimentare un sistema in cui lo schema dell’uno vale uno è funzionale alla demolizione e alla delegittimazione dei corpi intermedi e alla contestuale legittimazione e glorificazione di una democrazia farlocca, eterodiretta dall’alto, antitetica a qualsiasi stato di diritto e devota inevitabilmente al complottismo (dai vaccini, ai microchip sottopelle).

 

In un bellissimo libro che uscirà il 14 settembre pubblicato da una piccola casa editrice italiana, la Raffaello Cortina Editore, il sociologo Alessandro Dal Lago ha scelto di mettere insieme un po’ di spunti utili per fotografare ciò che rappresenta oggi il “Populismo digitale”. Dal Lago, ex firma del Manifesto, paragona il Movimento 5 stelle a un partito “para fascista” e, ricordando giustamente che sarebbe da stupidi paragonare Beppe Grillo a Benito Mussolini, prova a spiegare così la sua definizione. “Con il prefisso para intendo dire che nel Movimento 5 stelle c’è qualcosa di torbido, autoritario e ambiguo che ricorda irresistibilmente lo stile politico fascista: l’arroganza bislacca del capo, la sua passione per i plebisciti, il culto supino professato da gran parte degli scritti e di simpatizzanti, la mancanza di trasparenza nelle decisioni, l’opportunismo, per non parlare delle faide tra i proconsoli, e l’incapacità amministrativa travestita con la retorica del cambiamento. Non saprei usare altra definizione per politici che attizzano l’odio per gli stranieri, disprezzano visibilmente la democrazia parlamentare, praticano o invocano la censura per chi non è d’accordo con loro, coltivano il senso comune più forcaiolo, soffiano sul fuoco neo-nazionalista che cova in mezzo mondo. In questo senso l’espressione populismo digitale sintetizza bene un concetto semplice: la dipendenza dalla rete di un movimento politico neo peronista gestito in modo autoritario”. Conclusione: “La spinta democratica dal basso, sintetizzata nella democrazia diretta può essere un’illusione, soprattutto quando è manipolata da politici spregiudicati e visionari”. C’è chi di fronte al front runner di un partito nato sull’onda di un vaffanculo grande come una casa parla di compiuta articolazione intellettuale. C’è chi, di fronte a tutto questo, usa toni invece più sintetici e forse meno romantici: voi, questo metodo, chiamatelo pure democrazia diretta, io, dice Dal Lago, lo chiamo fascismo digitale. Se si guarda la sostanza, scegliere da che parte stare non dovrebbe essere troppo difficile.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.