Mario Draghi (foto LaPresse)

Alla "fiera delle vanità" di Cernobbio la fine del Qe è il convitato di pietra

Renzo Rosati

Salvini & Di Maio in vetrina. L'Italia è preparata per quando si chiuderà il paracadute monetario di Draghi? Indagine sul cruccio dell'establishment

Roma. Se William Makepeace Thackeray potesse trasferire la sua “Fiera delle vanità” dalla Londra vittoriana all’Italia odierna dei molti talenti economici e degli arrembanti aspiranti leader politici, un’opportunità gli verrebbe dal Forum Ambrosetti di Cernobbio, che sabato vedrà la passerella di Matteo Salvini, e domenica di Luigi Di Maio. Perfetto per un workshop che si propone di affrontare tra l’altro il seguente argomento: “Il futuro dell’Europa, governance, istituzioni e populismo”. Salvini & Di Maio sono uniti nella lotta per addossare all’euro le responsabilità di tutto, a cominciare da quelle dei rispettivi partiti. Sono rimasti gli ultimi a farlo: il teorema Eurexit è stato bocciato in Francia, Olanda, Spagna, e perfino in Grecia. Thackeray scrisse come sottotitolo: “Un romanzo senza eroe”. Appunto. Ma al netto delle vanità e del red carpet, il convitato di pietra per l’Italia sarà la chiusura nel 2018 del paracadute monetario del Quantitative easing, il programma di acquisti di titoli pubblici della Banca centrale europea: probabilmente annunciato tra il 7 settembre e il 26 ottobre, anche se ieri il banchiere centrale austriaco Ewald Nowotny si è unito a quanti assicurano che “non ci sarà alcuna fine repentina”. Visione sposata dagli analisti di Nomura, che rispetto alle precedenti stime si attendono il termine del Qe nel quarto trimestre 2018 (anziché nel terzo), un successivo aumento dei tassi di 0,75 punti (anziché 0,90), e non prima del 2019. 

 

Detto questo la vulnerabilità esiste, a causa dell’alto debito – altro che ricette sovraniste – benché i mercati si stiano focalizzando su due altri aspetti: nella crisi il debito pubblico italiano è cresciuto in percentuale meno di quello francese (al 100 per cento del pil), e l’indebitamento aggregato di stato, aziende e famiglie supera in Francia il 400 per cento, in Italia il 350, in Germania il 270. Ma altri aspetti lasciano pensare che, finito il Qe, l’Italia potrà cavarsela senza la stampella di Mario Draghi. Innanzi tutto l’entità di Btp italiani acquistati dalla Bce è ormai poco più del 30 per cento delle emissioni. Si tratta comunque di oltre 80 miliardi l’anno che hanno fatto risparmiare al Tesoro circa 8 miliardi annui d’interessi. Si dovranno trovare altri acquirenti, sul mercato: quelli tradizionali – fondi assicurativi americani, banche e assicurazioni, famiglie italiane – si sono tenuti alla larga per i bassi rendimenti, l’attesa che salgano, e da qui in avanti per l’incertezza elettorale. Un Btp decennale frutta il 2,1 per cento, contro il 3,5-4 del 2011, prima della grande fuga. Quel livello era compatibile con la tenuta dei conti pubblici in quanto scontava un’inflazione media nel decennio precedente del 2,2 per cento. L’interesse reale era dunque dell’1,3-1,8. Dal 2015, avvio del Qe, l’inflazione ha oscillato tra meno 0,1 e 1,4: ecco l’importanza di riportare i prezzi poco sotto il 2 indicato da Draghi, non solo come segnale di ripartenza dei consumi, ma perché il debito pubblico torni appetibile e marci sulle proprie gambe. Non solo. Chi compra debito di un paese guarda al rendimento, ma anche alla sua credibilità: diversamente tutti investirebbero sul Venezuela o sull’Argentina.

 

Molte riforme dal 2011 a oggi vanno in questa direzione: quella della previdenza di Elsa Fornero, nonostante la buona lena della nouvelle gauche, Lega e grillini nello smontarla; il Jobs Act; la messa in sicurezza delle banche a partire dalla riforma delle popolari e degli istituti territoriali (ora invece tallone d’Achille della Germania); il metodo Marchionne per la manifattura, che oltre a salvare la Fiat ha indotto governo e Confindustria ad adottare la digitalizzazione di Industria 4.0. Naturalmente sull’altro piatto c’è la politica. Non certo una novità. Nel 2011 il centrodestra, che aveva retto alla prima crisi globale, affondò non per il complotto ordito a Berlino ma per il rifiuto della Lega ad accelerare le riforme, a cominciare da quella delle pensioni che essa stessa, con Roberto Maroni, aveva promosso (e per le liti tra il Cav. e Giulio Tremonti). In più c’è Beppe Grillo. Forse Salvini e Di Maio da Cernobbio (ma anche la Cgil e la sinistra compañera) dovrebbero dare un’occhiata alla Grecia, che da quando si è liberata dei vari Varoufakis sta lentamente tornando alla normalità, a ritmi di crescita del 2 per cento. E ha ripreso a emettere titoli pubblici per avere un assaggio dell’effetto che fa essere responsabili.