Foto LaPresse

Come evitare una campagna combattuta sulla fake news dell'Italia allo sfascio

Claudio Cerasa

I partiti in campagna elettorale si ritroveranno a confrontarsi e a scannarsi su molti temi. Tra questi ce n’è uno che costituisce il vero spartiacque tra le due Italie invisibili: da una parte la rabbia, dall’altra, l’orgoglio

Se ci si pensa bene alla fine la sfida è tutta qui: o la rabbia o l’orgoglio. Nei prossimi mesi, i partiti che si candidano a governare il paese si ritroveranno a confrontarsi e a scannarsi su molti temi più o meno appassionanti (chiudete la commissione bancaria, please) ma tra i tanti argomenti che finiranno al centro della campagna elettorale ce n’è uno che costituisce il vero spartiacque tra le due Italie invisibili che si andranno a confrontare da qui al 4 marzo. Da una parte, l’Italia della rabbia. Dall’altra, l’Italia dell’orgoglio.

 

L’Italia della rabbia abbraccia un pezzo di paese trasversale che mette insieme l’odio grillino, la brutalità leghista e il risentimento dalemiano e seppure queste realtà abbiano tra loro sfumature diverse (quantomeno Grasso sa che Pinochet si scrive attaccato e non staccato come crede Di Maio) al centro dell’Italia della rabbia c’è un metodo unitario che costituisce il vero motore di questo particolare approccio politico: l’idea che l’Italia sia in mano a una banda di ladroni, di incompetenti, di truffatori, di corruttori e forse persino di potenziali molestatori e che l’unico modo per riportare il nostro paese a un’età dell’oro sia, semplicemente, sostituire questa classe dirigente con un’altra classe dirigente. L’Italia della rabbia è un’Italia orrenda, disgustosa e senza idee che ha però un suo chiaro messaggio elettorale che coincide con il pubblico degli incazzati (e che stando ai sondaggi vale circa il 50 per cento del paese).

 

L’Italia dell’orgoglio – l’Italia cioè che non vuole demolire tutto per costruire sulle macerie ma che vuole rendere più forte un palazzo che ha già solide fondamenta – è un’Italia che non si vede e che ancora fatica a trovare i nomi giusti e i volti giusti (dicasi classe dirigente) che le permettano di incarnare un sentimento che oggi è più che maggioritario: la fake news che descrive l’Italia come un paese povero, disperato, distrutto, da buttare via. Fake news perché – nonostante un pezzo importante della stampa italiana non passi giorno senza sostenere che la crescita del populismo sia legata a una situazione disastrosa della nostra economia, senza rendersi conto che un paese in cui lavorare nei giorni festivi è considerato all’unanimità un tabù non è un paese che si trova sull’orlo di una carestia – nel 2017 l’Italia registrerà il suo migliore anno di crescita dal 2006, un miglioramento della produzione industriale, dei consumi privati, degli investimenti in costruzioni, degli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto e ovviamente delle esportazioni che nel 2017 (8 per cento) sono cresciute rispetto al 2016 di un valore superiore a quelle della Germania (6 per cento).

 

Le basi per mettere in campo un’Italia dell’orgoglio che sfida un’Italia della rabbia ci sono ma per poter rappresentare in modo efficace quel pezzo di paese positivo e ottimista e non sfascista che considera i professionisti della rabbia più pericolosi del procuratore di Donnarumma esiste solo un modo che vale sia per Renzi sia per Berlusconi: smetterla di personalizzare la campagna elettorale mettendo al centro di tutto la propria figura e cominciare a fare una campagna elettorale mettendo al centro di tutto quello che i radicalismi identitari non possono permettersi. Ovverosia, una classe dirigente che possa incarnare il messaggio di un paese che non cerca lo sfascio ma cerca il benessere. Il vero tema dei prossimi mesi (a meno che non si voglia passare i prossimi ottanta giorni a parlare di Etruria, di Visco, di Boschi e dell’inutile commissione parlamentare sulle banche, che infiniti addusse lutti agli Achei) sarà questo e dalla prossima settimana il Foglio proverà a raccontarvi su quale classe dirigente centrodestra e centrosinistra potrebbero scommettere, per poter vincere con la forza dell’orgoglio il cialtronismo dei professionisti della rabbia.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.