Il pubblico della Festa dell'Ottimismo a Firenze

L'ottimismo è una promessa

Simonetta Sciandivasci

Non temiamo la crisi del terzo anno e parliamo con enfasi. C’è anche De Gregori, che non si sente un maestro ma ancora una giovane promessa

È la festa dell’ottimismo, la terza, e cuori in alto e cin cin per tanto coraggio, altruismo, fantasia, ed equilibrio sopra la follia.

  

Alle dieci e un quarto del mattino il Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio è già sold out, ci sono persino molti giovani davvero, e non c’è mica Gazzelle che suona, ma Gentiloni che parla. E dice che le sardine non sono acciughe e di buono hanno che si conservano a lungo (è una scommessa e un invito alla responsabilità – un nome non è un caso, richiede coerenza – , ma pure un po’ una provocazione – durerete, pesciolini?), agitando così due tavoli di giornalisti di agenzie – “m’haa so’ persa a cosa dee acciughe, com’è?”. Eccola com’è: Gentiloni ha i capelli grigi, non tifa la rivolta ma la durata, uno dei pochi beni rifugio che ci sono rimasti, ma pure l’azzardo più grande, la sfida più difficile. Tanto tifa da savio, curvato dalla saggezza come Geppetto, che nel momento forse di maggiore positività dell’intera giornata, sul limitare dell’utopismo, dice: “Tutti leggono i giornali e prendono sul serio le cose che si dicono”. Che eleganza e che amore, che irrealtà irresistibile. L’ospite perfetto è quello che non nomina la corda a casa dell’impiccato, mentre l’ospite ideale è quello che se ne mette una intorno al collo.

 

 

Il pubblico, stregato e magari un poco assonnato, non fa ooh, e i giornalisti presenti neppure (stanno ancora gugolando sardine, acciughe, pesca sul ghiaccio), d’altronde in platea è pieno di uomini e donne di buona volontà con le tasche piene di inserti del sabato, fogli, Foglio, e persino qualche taccuino.

 

Arriva Landini e non fa in tempo a prendere il microfono che già gli urlano “voceee”, e si teme una contestazione liberista, invece è soltanto curiosità, e fame, e magari un po’ di fretta. “Dov’eravamo, tutti, quando i Riva facevano quello che facevano”, dice parlando con enfasi il segretario della Cgil, procurandosi così il primo di una lunga serie di applausi, quanto lui soltanto Matteo Renzi, più di lui soltanto Carlo Calenda. Sapessi com’è strano vedere Landini applaudito a un festival fogliante, sussurra qualcuno nel pubblico, che in verità in maggioranza scuote il capo non proprio in polemica ma per diffidenza forse sì. Salvatore Merlo, che conduce l’intervista, si prende un “ficcantissimo” dal Twitter – per esteso: “Qui alla #festadelfoglio si cercano le ragioni dell’ottimismo e nessuno fa passerella. Ascoltare per credere la ficcantissima intervista di Merlo a Landini”.

 

Tre metri sopra al cielo, o almeno sopra a tutti, ché il cielo a Firenze si vede poco, le strade son strette, le facciate si tengono vicine, e Renzi ha dimostrato persino che dai portoni si esce senza aprirli, mentre ci si schiera o ci si accoglie, ci si allea o ci si ascolta, o semplicemente ci si rinsalda nel proprio scetticismo – Landini ha pur sempre detto che lui col Pd ha sempre avuto ottimi rapporti, anche quando c’era Renzi –, Lamorgese e Gentiloni chiacchierano tanto, in piedi l’uno di fronte all’altra, sono molto belli da vedere, molto seri, piuttosto incuriosenti. Non li nota nessuno, tranne i pettegoli in quarta e quinta fila, tra cui ci sono persino uomini in papillon (due, ben due, uno dei quali verde, verde brutto, come se non bastasse chiaro).

 

 

Il ministro Spadafora, che secondo il nostro Daniele Raineri, uno dei foreign fighters della redazione Esteri (così lo ha definito Michele Masneri, ritrattista da Oscar, e pure da Pulitzer), assomiglia un pochino ad Al Baghdadi, e secondo altri mormoratori delle file più indietro, molto dopo i pettegoli, è icona gay compiacente, è parecchio teso, all’inizio quasi incazzato. David Allegranti rompe il ghiaccio consigliandogli di leggere l’inserto Sportivo e lui, con quella faccia un po’ così, da padellista e quindi da mod, non dice niente, non è mica Gentiloni, ma sta al gioco.

 

“’Sti matti cosa vogliono farmi fare”, dice Fabio Panetta sedendosi al fianco di Giovanni Tria, in prima fila, serafico e in total blu, compreso un piumino smanicato che lo rallegra, mentre Spadafora dice che Dibba è stato, è e sempre sarà un pilastro del Movimento 5 stelle, e dopotutto che colpa abbiamo noi se al di là dei nostri leader non se ne vedono molti altri in giro. L’ottimismo è anche questo, amarsi un po’ troppo.

 

Dice Spadafora, mentre qualche pancino rantola sentendo l’approssimarsi del pranzo, che mai e poi mai scriverà post contro i suoi ex colleghi, in caso di caduta del governo. Anche questo è un ottimismo di lunga durata: una valida promessa.

 

Lamorgese, mentre Roberto Maroni nel pubblico sfoglia l’inserto, ed è il solo, perché forse non teme che gli si obietti che quando parlano le donne lui si distrae, non parla con enfasi ma parla di enfasi, e sicurezza percepita, che in Italia è un guaio grosso, una droga amara dell’informazione – il suo predecessore aveva detto diverse volte che gli interessava più la sicurezza percepita di quella reale, mentre lei no, lei è equa, ha a cuore entrambe, sa che per sentirsi al sicuro si deve essere al sicuro, e che questa è la base imprescindibile per ogni fiducia, per ogni ottimismo. Vuole costruire, Lamorgese, per lei è tutto un cantiere, è tutto un progetto, un fare, un intraprendere, compreso l’accordo di Malta.

 

Signoria di tutto, che in pochi momenti il duo Peduzzi e Sassoli sovverte e scombina parlando di Europa nel solo modo in cui si dovrebbe farlo, e cioè con amore un po’ porno, come fosse un romanzo rosa (e in fondo lo è, e Peduzzi e Flammini lo dimostrano su questo giornale ogni giovedì, con la loro EuPorn, la pagina sul lato sexy dell’Europa). Dice Saverio Raimondo che i pervertiti sono gli ultimi romantici e anche gli ultimi cittadini civili di questo paese, forse di tutto il mondo, e allora vedete come tutto torna.

 

“Giuro che non le farò dire EuPorn, altrimenti diventa virale”, dice Peduzzi, e a Sassoli forse un po’ dispiace, e sul punto sublima ma ammicca, recupera dopo, recupera subito e ascoltarlo infervora la platea e persino le agenzie di stampa. E’ un uomo da Margherita, certo, ma un po’ si scatena e solo quando finisce e scende dal palco, un po’ per ritrazione, un po’ per compensazione, dice al microfono di Enrico Cicchetti: “Se incontrassi Salvini gli direi di stare calmo perché non abbiamo bisogno di eccitatori ma di persone che, con responsabilità, aggiustino la macchina di questo paese”. Le poltrone sono ancora molto bollenti d’europeismo ragionato, incorniciate dai calici da vino in cui si beve l’acqua (siamo attenti a non dare immagini sbagliate in fascia protetta), quando Ermini e Annalisa Chirico quasi duellano sulla magistratura e si lasciano con breve dialogo sul tempo che ci aspetta: un Natale non caldo ma mite, o almeno così si spera, così ci sarebbe bisogno, dopo un’estate a 50 gradi (CINQUANTA!?Ma dov’era Ermini in vacanza, in quale mare, in quale sauna?).

 

Il momento del pranzo in piedi riesce a non assomigliare a un buffet, la sintesi di Milano e Roma è tutta in questa bella civiltà. Si mangia di corsa, perché Carfagna non c’è ma Meloni sì, anche se registrata, in ologramma, poco truccata, e tutti sono disposti a concedersi poco bollito e più Giorgia, molti di noi hanno sognato un mash-up di #iosonogiorgia e Rimmel di De Gregori, ma il solo ad aver osato davvero torturare Rimmel è stato Matteo Renzi e quando lo ammette, il direttore Cerasa gli dice anche che se vuole può riprovarci (siamo ottimisti, diamo sempre altre chance). Risposta: “Sto cercando di smettere”.

 

“Bisogna diventare uomini per essere leader?” chiede Merlo a Meloni, che risponde: “Non mi sono fatta uomo” (bellissimo, applausi, frase del mese) e “ho fatto una doppia fatica, questo senza dubbio”.

 

La rockstar è Calenda, prende tutti gli applausi, riempie la sala di giovani e soprattutto di giovanili, il primo giacchetto di pelle entra con lui e certi ventenni accorsi dall’Emilia dicono che lo vorrebbero a capo di tutto e sono così ottimisti da raccontare che hanno molti amici leghisti, quasi tutti leghisti in verità, ma che Bonaccini vincerà le elezioni.

 

Intanto Calenda urla che solo in Italia ci siamo sottomessi ai populisti, che l’unico modo di trattare coi Cinque stelle è farli sparire, che Barbara Lezzi non è un’interlocutrice e racconta che ha decurtato dalla paghetta di suoi figlio i cinque euro con cui ha comprato un libro contro di lui durante un venerdì di Greta. E prima che questo Azione sia già un incendio, promette: “Salvini vincerà sempre, se la forza non la troviamo dentro di noi”. Meno male che dobbiamo trovare la forza e non la risposta, perché quella se la cerchi dentro di te è sempre sbagliata (e pure questo è propedeutico all’ottimismo, che è collettivista o non è: mai fare le cose da soli).

 

Matteo Renzi è poco più dimesso, ha accusato il colpo, fa metafore di mare, che in questi mesi vanno molto di moda, ammette anche che Salvini ha davvero provato a mitigare il trucismo, ma il pubblico ha amato di più Carlo, le scissioni sono state troppe, non s’è imparato ancora a redistribuire le passioni.

 

De Gregori non canta ma entra sicuro. E di ottimismo dice tutto lui, forse solo lui, o forse come lui nessuno: “Cambiare non mi spaventa, anzi. Mi piace molto anche Spotify. Nessun pittore si preoccupa se qualcuno inventa un nuovo colore”.

 

Annalena Benini gli chiede se e quanto sia consapevole d’essere un maestro, e lui le risponde che si sente ancora una giovane promessa.

 

Questo è l’ottimismo al terzo anno, non sopravvissuto ma cresciuto: non lo avremmo mai detto, tre anni fa, quando era soltanto possibile che tutto quello che poteva andare male sarebbe andato male e poi è successo che è andato più male del male, peggio del peggio. E se pure il peggio è passato non ha gabbato la festa, e questa è una splendida premessa.

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