Marco Buti, prossimo capo di gabinetto di Paolo Gentiloni alla commissione Affari economici e monetari dell'Ue

Chi dirige il commissario

Salvatore Merlo

Gentiloni all’Economia europea perde, giocoforza, l’ottimo direttore generale Buti. Arriva un rigorista?

Roma. Questa mattina, salvo sorprese al momento imprevedibili, Paolo Gentiloni sarà ufficialmente il nuovo commissario europeo per gli Affari economici e monetari. Il Parlamento europeo voterà infatti, a chiamata nominale e a maggioranza semplice dei presenti, la ratifica della commissione presieduta dalla tedesca Ursula von der Leyen, eletta in luglio. Gentiloni è il primo ex presidente del Consiglio di un paese fondatore ad assumere il ruolo di commissario. E in virtù della sua esperienza politica, anche come ministro degli Esteri, grazie alle relazioni coltivate negli anni, nutre l’ambizione di poter giocare da qui ai prossimi anni un ruolo “sistemico” all’interno del collegio dei commissari. Un ruolo molto importante per l’Italia, anche se ci sono delle insidie su questo percorso. E la prima sarà la nomina del direttore generale del suo dipartimento.

 

La nomina di Gentiloni alla guida del mistero europeo dell’Economia rende incompatibile la permanenza, all’interno della struttura, dell’attuale direttore generale, Marco Buti, uno dei funzionari considerati tra i più esperti e capaci a Bruxelles. Buti andrà a fare il capo di gabinetto di Gentiloni, lasciando dunque libera una casella fondamentale per la gestione delle politiche economiche e di bilancio, un incarico tecnico, ma centrale, che per prassi non può essere assegnato a un funzionario che condivide la stessa nazionalità del commissario. Ed ecco il punto: chi sostituirà Buti? E a quale orientamento politico-culturale risponderà il nuovo direttore generale?

 

La direzione generale è quella struttura di carriera ed estremamente competente che istruisce le pratiche, prepara le riunioni, informa la Commissione. Nel collegio dei commissari, nel corso delle riunioni esecutive, i documenti e le relazioni tecniche della direzione generale hanno sempre un peso molto forte. Persino decisivo. Difficile infatti deviare dalle analisi e dalle conclusioni della direzione generale, che anzi fanno sempre da àncora per il dibattito all’interno della commissione. Il negoziato sull’Italia dell’estate scorsa, per esempio, ovvero la decisione della Commissione di optare per una trattativa che cercasse di migliorare almeno i saldi (e non le politiche) fu una scelta orientata dalla direzione generale, in un contesto in cui una parte della politica premeva per soluzioni diverse.

 

Questo spiega la delicatezza dell’incarico e il rilievo che assume per il neo commissario Gentiloni. All’interno della maggioranza che sostiene la commissione von der Leyen, specialmente tra i rappresentanti dei paesi rigoristi del nord Europa, c’è chi ha sin da subito considerato accettabile la designazione dell’italiano Gentiloni al ruolo di commissario economico, a patto che si traessero poi delle conseguenze – di riequilibrio – nella nomina del nuovo direttore generale. L’Italia è d’altra parte a buon ragione considerata un paese non soltanto spaventosamente indebitato, ma anche abbastanza restia ad affrontare con serietà la sua politica di bilancio. Non è infatti un mistero per nessuno che l’ex presidente del Consiglio italiano, ancora prima di essere stato ufficialmente nominato, sia diventato sin da subito una specie di sorvegliato speciale. E la tentazione, a Bruxelles, potrebbe essere adesso quella di affiancargli, più che un tecnico che lo aiuti, uno che invece lo controlli. O, secondo la versione più maliziosa e forse esagerata: che lo neutralizzi.

 

Il direttore generale viene nominato dal commissario competente, dunque formalmente da Gentiloni, ma per prassi e per inevitabile meccanica politica in realtà la nomina sarà il frutto di una triangolazione con la presidente della Commissione, dunque la signora von der Leyen (che appartiene alla destra rigorista tedesca della Cdu) e con il vicepresidente esecutivo con delega all’Ecomomia e Finanze, cioè Valdis Dombrovskis, l’ex premier lettone con fama e curriculum da falco dell’austerity. Certo, è vero che il periodo di forte pressione dei mercati finanziari che aveva aperto negli ultimi anni alla crisi “esistenziale” della zona euro sembra finito. E questa pacificazione dovrebbe di conseguenza far venir meno anche la pressione, soprattutto nordeuropea, per politiche improntate a criteri di forte austerità. La logica e il contesto spingono d’altra parte a ritenere necessarie adesso politiche, come ha detto lo stesso Gentiloni, “ambiziose” in materia di unione monetaria, politiche insomma che – pur nel rispetto di criteri di prudenza nella tenuta dei conti – possano accompagnare la ripresa economica in Europa e contenere i rischi di un suo rallentamento. Tuttavia, quanto tutto ciò sarà possibile dipenderà dal rapporto e dagli equilibri che scaturiranno dalla al momento imprevedibile relazione tra Gentiloni, von der Leyen e Dombrovskis. Per questo la partita del direttore generale assume già in queste ore una sua speciale importanza. I candidati non sono tantissimi. Quello del dg Ecfin è un ruolo che richiede uno standing particolare e un solido retroterra sia di studio sia professionale sul campo. All’interno della struttura sono pochissime le persone che hanno caratteristiche di professionalità e credibilità che corrispondano a questi requisiti. Forse tre o quattro funzionari attualmente in servizio alla direzione generale. Tutti piuttosto vicini alle posizioni rigoriste. In passato, per esempio, il predecessore di Buti venne scelto con un bando pubblico. Insomma preso da fuori. Forse è la soluzione alla quale pensa (e spera) anche Gentiloni.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.