Ursula von der Leyen (foto LaPresse)

Storie dal limbo europeo

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Niente Halloween con Brexit ma c’è già un altro fantasma: il commissario inglese

Oggi avremmo dovuto festeggiare l’Halloween della Brexit, con i mostri e i fantasmi e le labbra nere, invece siamo qui a risolvere un altro dilemma: l’Unione europea può obbligare il Regno Unito a inviare un commissario europeo visto che ufficialmente è ancora dentro all’Unione europea? Questo commissario senza nome e senza volto, richiesto dalla lettera della proroga della Brexit e anche dalla presidente della Commissione entrante (in ritardo) Ursula von der Leyen, è la sintesi perfetta di questo senso di sospensione in cui è calata l’Europa: non soltanto Londra che si è concessa il lusso inaspettato di mettere “on hold” la Brexit e regolare i propri conti politici interni (con le elezioni, il 12 dicembre: una richiesta sommessa, prima di cominciare, tutto ma non un Parlamento senza maggioranza), ma anche i commissari che già sono stati confermati dal Parlamento europeo e si aggirano per Bruxelles pronti a lavorare ma ancora abbastanza cauti da non affittare casa. La settimana prossima ci sono nuove audizioni per i candidati romeno (ancora da definire), ungherese e francese che hanno preso il posto dei bocciati. Tutti dicono che questa volta dovrebbe essere tutto più facile, c’era licenza di uccidere al primo giro non anche al secondo, ma la scelta francese – Thierry Breton – sembra a tutti un dito in un occhio da parte dell’offesissimo Emmanuel Macron. Ma le audizioni del presunto commissario inglese, ci pensate? Al momento, il governo inglese non vuole nemmeno nominarlo: durante l’estate, il premier Boris Johnson, aveva detto che il suo obiettivo era già da allora quello di snellire l’apparato inglese a Bruxelles “costretto a meeting inutili” per dedicarlo semmai al dossier del negoziato sui rapporti commerciali futuri con l’Ue: di un commissario europeo non se ne parla proprio. Ma aveva anche detto che si sarebbe buttato in un fosso piuttosto che chiedere un’altra proroga, quindi le sue parole vanno di pari passo con il limbo generalizzato. In realtà, anche se la richiesta dell’Ue è chiara, c’è la possibilità che Londra non le dia seguito: per ogni capriccio c’è un articolo del Trattato di Lisbona (il 17(5) per l’occasione) cui appigliarsi, mentre si aspetta che qualcuno faccia un nome, o che ci si abitui a stare così, sospesi.

 

 

Manuale di tuskismo. Non poteva uscire come fanno tutti, con un grazie, un arrivederci, o magari con le lacrime agli occhi e la voce strozzata in gola, come Jean-Claude Juncker, che di questa Europa è stato il volto bizzarro e pragmatico. Non poteva uscire nemmeno in silenzio, come chi detesta i saluti. Donald Tusk, l’altro volto della stagione europea che sta per chiudersi, sta uscendo senza andarsene. Determinato a vestire, fino all’ultimo secondo dell’ultimo giorno, i panni del presidente del Consiglio europeo. Tusk, che non riesce a lasciare l’Unione, e a dirla tutta nemmeno l’Unione riesce a lasciar andare via lui, per salutare ha scritto un libro che uscirà in Polonia il 12 dicembre con il titolo “Szczerze”, che vuol dire onestamente. Dentro ci sono questi cinque anni, gli attentati a Bruxelles e a Parigi, la crisi dei rifugiati. Dentro c’è la sua Danzica, ferita al cuore con l’assassinio del sindaco Pawel Adamowicz. Dentro c’è la Brexit, tutta, i negoziati, i rinvii e le promesse. Ci sono i retroscena e i suoi piccoli ritratti personali dei leader con cui ha lavorato: Angela Merkel, Barack Obama prima e poi Donald Trump, c’è anche Boris Johnson. Dentro c’è la sua Europa, dipinta però con il tratto che ha contraddistinto Tusk, quel tuskismo di forma e di contenuti che ha dato vita a uno degli europeismi più appassionati che avessimo mai conosciuto. “Szczerze” è un po’ un libro di retrobottega, di cucina, di backstage, scritto per lasciare un credo, ma dentro c’è tutto, anche la delusione. Il presidente del Consiglio europeo uscente ed ex primo ministro polacco non andrà in Polonia. Il prossimo anno ci saranno le elezioni presidenziali e non si candiderà, anche se ha una gran voglia di tornare. Gli è stato offerto di diventare il presidente del Partito popolare europeo che di un po’ di tuskismo ne avrebbe un gran bisogno. La più grande delle famiglie europee è appesa alle liti interne, rimasta lì a fissare i voti persi e a storcere il naso di fronte ai nuovi alleati, deve recuperare energia e vitalità, spirito battagliero e anche un po’ di orgoglio. Lo sa, per questo ha pensato a lui. 

 

 

Mentre Donald Tusk prepara i saluti, si affaccia alla presidenza Charles Michel, l’ex premier belga, liberale e scommessa macroniana. Michel è molto preoccupato, come si fa a occupare il posto che una personalità come Tusk non lascerà mai del tutto vuoto? E’ soprattutto la comunicazione a tormentarlo, quei tuit à la Tusk, i discorsi tonanti, insomma: il tuskismo. Meglio rivoluzionare tutto e arrivare il primo dicembre, giorno di inizio della nuova Europa, con uno stile diverso. Finora Michel era stato impegnato, il Belgio ha votato a maggio e ancora non ha un governo, i partiti non riescono a dialogare tra di loro, Michel era premier ad interim e sembrava quasi impossibile staccarsi dalla sua carica di primo ministro per prepararsi alla sfida europea. Ma lunedì finalmente è stato nominato il suo successore, del quale abbiamo fatto un po’ fatica a capire il nome, tutti erano troppo impegnati a dire che si trattava del primo premier donna del Belgio. La premier si chiama Sophie Wilmès, è una liberale comeMichel, francofona come Michel, ed è stata ministro del Bilancio durante il suo governo. A sì, oltre a tutto questo, Wilmès è anche la prima donna premier del Belgio.

 

L’Ungheria dei veti. Cosa sta facendo Viktor Orbán? Forse pensa, ci rispondono da Jobbik, il partito nato per essere più a destra di Fidesz, presto accortosi che più a destra di Fidesz si stava troppo stretti e dopo grandi giri sta ancora tentando di cercare il suo posto nella politica ungherese. Viktor Orbán qualche settimana fa ha ricevuto la prima grande sconfitta negli ultimi dieci anni. Il talentuoso ex ragazzo poliglotta, amante del calcio è arrabbiatissimo perché a causa del peso non può più dedicarsi al suo sport preferito, è alle prese con i cambiamenti della sua nazione e nel frattempo deve pensare anche al suo futuro europeo. Fidesz, il suo partito, è stato sospeso dal Partito popolare europeo in seguito all’approvazione di diverse le leggi illiberali e per la campagna diffamatoria contro Jean-Claude Juncker. Da marzo, Fidesz non ha più diritti dentro al Ppe, vive a metà, è presente ma assente, i suoi eurodeputati ci sono, ma non possono farsi sentire. Tutto questo fino a quando la commissione dei tre saggi, composta dall’ex presidente dell’Eurogruppo, Herman Van Rompuy, ex presidente del Parlamento europeo, Hans-Gert Pöttering, e l’ex cancelliere austriaco Wolfgang Schüssel, non avranno deliberato sulla sua condotta e stabilito se potrà essere riammesso o, definitivamente, espulso. Quando i tre saggi si riuniranno non si sa, intanto Orbán si muove, senza far rumore. Fa sorrisi all’Ue, perché il suo posto d’onore nella famiglia più grande dell’Europarlamento non vuole perderlo, ma rimane pur sempre Viktor Orbán, lo stesso della democrazia illiberale. Il termine non è suo, l’ispiratore va cercato un po’ più a est, a Mosca. Ieri il premier ungherese e il suo ispiratore, Vladimir Putin, si sono incontrati a Budapest, il quinto incontro dal 2016. I due si vedono spessissimo e ieri mentre la grossa macchina del presidente russo sfilava lungo lo stretto Ponte delle catene che unisce Buda a Pest, molti commentatori dicevano che il premier ungherese non scorderà mai il suo primo amore. L’Ungheria ha spesso dimostrato la sua fedeltà alla Russia, non soltanto si è schierata contro le sanzioni che sono state imposte a Mosca dall’Unione europea a partire dal 2014, ma, esercitando il suo potere di veto, ha anche bloccato i colloqui tra la Nato e l’Ucraina. Budapest afferma che Kiev sta discriminando la minoranza etnica ungherese, ma secondo alcuni analisti c’è di più: tenendo in ostaggio la Nato l’Ungheria vuole mostrare la sua fedeltà a Mosca. Intanto però l’Alleanza si muove anche senza Budapest, in questi giorni il segretario generale Jens Stoltenberg ha detto che Kiev è già membro de facto della Nato e la riunione dei ministri della Difesa è iniziata oggi proprio a Odessa, a un passo dalla Crimea.

 

Le promesse che non si mantengono. L’inviato russo presso l’Ue, Vladimir Chizov, ha invitato l’Albania e la Macedonia del nord a entrare dentro all’Unione economica euroasiatica, “sono certo” che questi due paesi “congelati” dall’Ue “possano trovare maggiore comprensione nella nostra unione”. La capacità di reazione della Russia è, come si sa, rapidissima, da avvoltoio potremmo dire, ma certo è che se Albania e Macedonia del nord sono lì insanguinate è perché a colpirli è stata l’Europa, o meglio: Macron. Ci interroghiamo spesso sui vuoti lasciati dalle paure e dalle inazioni occidentali, sulle crepe del soft power quando dismette la propria capacità di attrazione e poi, di fronte a questa sospensione collettiva, intravediamo una grande verità (anche dell’amore): nessuno è insostituibile.