(foto LaPresse)

Dateci un anello

Simonetta Sciandivasci

E’ tornato il mito del beau mariage. Manuali, reality show, galatei per farsi sposare da chiunque, con o senza amore

Che grande fortuna abbiamo noi ragazze del secolo in corso. Ci sposiamo quando, dove, come ci va. Con chi ci va. Solamente se ci va. Altrimenti niente, facciamo a meno, facciamo senza, sopravviviamo e anzi viviamo lo stesso, probabilmente pure meglio; “soli si muore senza un amore” non è la verità, è il verso di una canzone molto vecchia, e in fondo molto brutta. Noi ci bastiamo, ci lodiamo, ci benediciamo, ci adoriamo, ci glorifichiamo, ci rendiamo grazie per la nostra gloria immensa. Sicure? Sicure. Eppure. Quando s’è sposata Meghan Markle abbiamo pianto guardando la diretta tv della cerimonia, insieme ad altri tre miliardi (TRE MILIARDI) di persone, praticamente metà popolazione mondiale, un’audience che neanche il calcio, e abbiamo twittato prima durante e dopo, per ore, per giorni, presso l’hashtag #royalwedding, tanto che qualcuna di noi ha instaurato conversazioni con sconosciuti che hanno poi persino portato a cene supplementari, non si butta via niente, metti che questo qua che sa tutto di royal family e monarchie parlamentari è l’uomo della mia vita, che bel profilo ha, come scrive bene, guarda che ortografia impeccabile, magari stende le mutande come mette i puntini di sospensione, e se così fosse cosa dovrei volere di più dalla vita. I nostri genitori non combinano matrimoni per noi, e la storia di quelle povere quattro ragazze pachistane che padre e fratello hanno picchiato per mesi minacciando di ammazzarle se non si fossero sposate con chi dicevano loro ci sembra lontana anni luce da noi, proprio non ci riguarda, sebbene ci sia successa accanto, a Brescia, nelle stesse sere in cui siamo rimaste a casa a guardare “Matrimoni a prima vista” su Real Time, dove sconosciuti selezionati da autori televisivi vanno a nozze con altri sconosciuti selezionati dagli stessi autori televisivi e si vedono la prima volta sull’altare sul quale pronunciano il loro sì o il loro no, e in caso dicano sì è un sì valido a tutti gli effetti, e si sposano a tutti gli effetti, in un matrimonio combinato a tutti gli effetti. Non ci perdiamo una puntata. E’ meglio di “Fuori dal Coro”, di “Uomini e Donne”, di tutta la tv che diciamo di guardare perché il paese reale è la nostra distopia preferita e pure per non fare scena muta dalla parrucchiera, ma che in verità ci attrae e ci turba, e infatti ne parliamo a cena, a pranzo, a lavoro, al telefono, un po’ angustiate e un po’ esterrefatte, e per fortuna non abbiamo né il tempo né l’onestà di lasciare che la nostra coscienza si confessi e ci dica che abbiamo accarezzato l’idea che sposarsi per mano altrui non sia poi così male, che farsi scegliere non è poi così sbagliato, che forse ci si può innamorare di un marito dopo averlo sposato e per la semplice ragione che lo si è sposato, magari è il solo modo per non incorrere nel processo di deterioramento a cui non c’è matrimonio per amore che non sia incorso.

Siamo libere e felici. Ma quando s’è sposata Meghan Markle abbiamo pianto guardando la diretta tv della cerimonia

 

Per carità, che discorsi retrivi, bassi, loschi. Per fortuna ci pensa qualche amica a farli e a dirli, e nemmeno a denti troppo stretti, e nemmeno dopo molti bicchieri di vino, giusto un paio alla fine di un venerdì sera divertente e sconsolato: eccola lì che alza il terzo calice di rosato, il vino aromatizzato al settembre, al gusto un po’ amaro di cose perdute, eccola che ci guarda con una specie di cattiveria, un’aria di naufragio, e ci dice che lei sì, ci andrebbe a “Matrimoni a prima vista” e sì, sposerebbe uno che non ha mai visto prima, perché no, che male c’è, che c’è di male. Pensate ai vantaggi: niente ricerca, niente corteggiamento, niente messaggi, attese, strategie, ti whatsappo o no io non cedo per prima, e i suoi cosa fanno, e che gente frequenta, e di che patrimonio immobiliare dispone, e che taglia e quante lauree aveva la sua ex, e per chi vota, e dove abita, e gli piacciono o no i Cigarettes After Sex, sia il gruppo che l’abitudine, e va al cinema o no, e vuole dei bambini o dei cani, e legge i quotidiani o Google news. Niente di tutto questo. Cotto e sposato. Frish e mang, friggi e mangia – scusate, l’amica parla il meridionalese.

 

Cinquant’anni fa le poste del cuore funzionavano, e tirarsela funzionava, e starsene zitte e remissive pure. Adesso no

Hai finito, cara amica terrona, di dire stronzate, o intendi concionare ancora fino a convincerci che anche l’infibulazione ha una sua ragionevolezza, le rispondiamo, azzittendola, e lei ride, e tutte ridiamo, stavamo tutte scherzando, poi torniamo a casa, abbracciamo il cuscino, cacciamo il gatto, e pensiamo perché no, amica terrona, forse un po’ di ragione ce l’hai, ma che male c’è, che c’è di male a sposare una X. E allora ci viene da piangere, e infatti piangiamo, perché non possiamo credere di esserci ridotte a pensarla come non la pensavano né nostra nonna né la nostra bisnonna ma la trisavola forse sì, come ci siamo ridotte, ma cosa abbiamo studiato, viaggiato, scopato senza cuore, talvolta persino divorziato a fare. Se la passavano meglio le ragazze all’antica? Ce lo stiamo chiedendo davvero? Ce lo stiamo chiedendo davvero.

 

Succede per un motivo preciso: l’età da marito esiste, persiste, divide et impera. Non è anagrafica, non è biologica, però è ideologica e ci condiziona, da un certo punto in poi, come e più di un esercito di ormoni impazziti, del patriarcato, della ginecologia, dell’antropologia, del paese reale, dei matrimoni delle compagne di scuola sulle quali quando andavamo a scuola avremmo scommesso quanto avevamo di più caro (il culo sodo) che sarebbero morte sole, vergini, disoccupate e molto grasse. E invece. Noi abbiamo il mondo in tasca, gli amanti, il poliamore, la carriera, gli amici all’estero, talvolta persino gli ottimi guadagni, e loro soltanto un anello, una festa, un marito sul quale i suoi compagni di scuola scommettevano che sarebbe morto solo, vergine, disoccupato e grasso. Ma non aspiravamo a essere Beyoncé? Certo. Proprio per questo.

 

L’età da marito esiste, persiste, divide et impera. Non è anagrafica, non è biologica, però è ideologica e ci condiziona

Cos’ha cantato Beyoncé, prima e con maggiore successo delle limonate e del siamo tutti femministi e ti scasso la macchina con una mazza da baseball se mi tradisci? If you like it, then you should put a ring on it, se questa mano ti piace dovresti metterci sopra un anello. “E le mie amiche sanno tutte quanto deve costare, per essere ricevibile, l’Anello”, scrive Irene Soave nel suo “Galateo per ragazze da marito – Come non concedersi quasi mai, quasi a nessuno, e riuscire a non sposarsi lo stesso”, appena uscito per Bompiani, che è un libro di molto somigliante alla nostra amica terrona possibilista sui matrimoni combinati: dice cose che non avevamo messo in conto di ritrovarci a dire oggi, alla nostra età, a qualsiasi età, in questo mondo qui, in questo tempo qui; dice che tutto quello che facciamo obbedisce al malcelato bisogno che abbiamo di sistemarci con qualcuno per sempre. Non siamo come Bridget Jones, che si voleva innamorare e aspettava uno capace di accettarla così com’era, e se non arrivava pazienza, c’era tutto un mondo intorno, mai accontentarsi di uno stronzo. Noi siamo come sua madre, che la voleva sposata a tutti i costi, e la voleva sposata bene e per bene, con un uomo ricco, solido, serio, affidabile, fermo, deciso, di classe. Irene Brin diceva che non conosceva donne che non volessero sposarsi – “lo vogliono tutte, le vedove, le divorziate, le divorziande” – e Matilde Serao che non credeva nel femminismo perché non conosceva donne disposte ad anteporre qualcosa all’amore per un uomo. Di Brin e Serao questo libro è pieno ci citazioni, perché entrambe tennero poste del cuore sui giornali, scrissero consigli, modi, strategie per farsi corteggiare, amare, sposare e li indirizzarono alle ragazze di una volta che credevamo estinte e che invece, tremate, sono tornate, o soltanto risbocciate, non le avevamo mai estirpate, innaffiate come sono (aizzate?) dalla fine del per sempre, la fine dei valori (scusate), la fine del tempo indeterminato, del maschio, della galanteria, delle canzoni d’amore a Sanremo, delle canzoni d’amore in generale, e terrorizzate dall’inizio di una nuova faticosissima èra nella quale le donne non solo erediteranno la terra, surriscaldata e zozza com’è, ma dovranno pure procurarsi sussistenza, marito ed eventuale procreazione pagando la cena, l’affitto, la psicoterapia, tutto, e guai a fiatare perché al primo fiato si sentiranno dire che l’hanno voluto loro, questa è la parità, bacioni. Tanto vale maritarsi.

 

Irene Soave è un’esperta di galateo e riviste femminili, e ci sono molte ragioni per fidarsi di lei (per esempio questo inciso: “Le difficoltà, che oggi chiamiamo traumi”) quando ci dice che in fondo, a leggere e guardare bene la manualistica comportamentale di cui siamo ghiotte, l’autoaiuto a cui ricorriamo come fosse Nutella, il life coaching che ci fa credere che siamo uniche e insostituibili isole felici anche senza abitanti o visitatori o marinai, è piuttosto chiaro che di sposarci non abbiamo perso la voglia, e che su aspetto fisico, autodeterminazione, decodificazione di condotta di successo, premeditazione sentimentale e manipolazione del maschio, “i manuali di una volta, che finora abbiamo identificato come normativi, opprimenti, retrivi, sono molto meno fissati di quelli di oggi” – e dire che il primo manuale per signorine del Novecento, scritto da Jolanda (nom de plume di Maria Majocchi Plattis), cominciava così: “La vita femminile nel suo primo periodo si svolge tutta fra due veli candidi: il velo della prima comunione e il velo nuziale”. Com’è possibile? E dove sono, quando servono, il post #metoo, e il femminismo di quarta ondata, e il childfree, e la beata solitudine, e l’individualismo millennial? Sottesa a tutto quello che ciascuna di queste campagne, battaglie, posizioni, la signorina in età da marito è riuscita a modulare la sua voce e le sue istanze, ci credereste mai? Siamo o non siamo la generazione che si sposa di meno in assoluto e però quella che ha fatto aumentare le prenotazioni di alberghi a Londra durante il matrimonio di Kate Middleton del 1400 per cento? Siamo o non siamo quelle che cominciano a dirsi disponibili a rinunciare al gemellaggio di anime ma non all’unione, a sacrificare il romanticismo al pragmatismo, a iscriverci a Tinder, alle newsletter motivazionali (“Buongiorno, come mai nessuno ti ama?”), e a quelle delle cartomanti (“Buongiorno, stanotte ho scoperto chi impedisce che la tua vita sentimentale sia felice, chiamami immediatamente a questo numero, per te una tariffa agevolata di 4 euro al minuto, e ti dirò chi è e come impedire il suo influsso negativo, se non lo farai comprometterai il tuo futuro per sempre”), e a quelle che ci offrono metodi scientifici per tornare con il nostro ex e convincerlo che siamo le donne della sua vita (“Buongiorno, oggi parleremo dell’atteggiamento mentale. Esistono due tipi di mentalità: quella prospera e quella scarsa. Clicca su www.direzioneritorno.com per scoprire come adottare la prima e riavere il tuo ex in una settimana” – e una clicca e naturalmente scopre di dover pagare 87 euro per comprare il libro che svela come avere una mente prospera e non farsi denunciare per stalking dal proprio ex e convincersi, fermamente convincersi che il maschio torna sempre, a patto che la femmina sappia essere accondiscendente, tagliarsi i capelli, mostrarsi positiva e felice su Facebook, e se non ci credete, iscrivetevi anche voi alla mailing list di Alessandro Vigini, e non dimenticate di darci vostre notizie dal carcere). Siamo o non siamo quelle che hanno studiato e analizzato ogni dettaglio del matrimonio di Carolina Crescentini e Francesco Motta, lei quarantenne e lui poco più che trentenne, lei attrice e lui indie star già stanco del palco (vorrà lasciare la musica per fare dei figli con lei? Per girare il mondo con lei? Per farsi le canne con lei? Per godersi i soldi di lei? Non la invidiamo, vero? A noi Motta è antipatico, e poi è brutto, e però che carino, che dolce, hai visto che su Instagram ha scritto che il giorno delle sue nozze è stato il più bello della sua vita, e noi ancora lì a non quagliare niente ascoltando quel suo pezzo che fa “partiti da lontano per arrivare a essere contenti a dormire di giorno e mangiarsi la notte, a toccare, annusare, scegliere, morire, lamentarsi, a sparare sul niente, a sparare stronzate”). Siamo o non siamo quelle che, nel segreto del proprio letto a una piazza e mezzo valutano di candidarsi come prossime concorrenti di reality show di quart’ordine dove verrebbero mandate a nozze con un estraneo? Sì, lo siamo. “La ragazza di una volta ha un fascino che sospetto fortissimo sulle ragazze più giovani”, scrive Soave. Ed è vero, e la ragione sta nella caparbietà di cui la ragazza di una volta era capace, nella pervicace ostinazione con cui riusciva a pianificare la sua vita e a concretizzare il piano. Irene Soave scrive che “il mito della determinazione” che oggi coltiviamo tutte (tutti) è alla base del beau mariage, e questa è una delle ragioni per cui “i riti archiviati dalle nostre mamme” stanno tornando così di moda, così vitali, così essenziali.


 “I manuali di una volta, che finora abbiamo identificato come normativi, opprimenti, retrivi, sono molto meno fissati di quelli di oggi”


Mentre guardavamo Meghan Markle andare all’altare per sposare un principe inglese, abbandonando carriera, Hollywood, Stati Uniti, e guadagnando una vita di pomposi cerimoniali, una famiglia che non la accetterà mai completamente e un marito che presto comincerà a stempiarsi e che prima di infilarsi nel letto deve dar conto a sua nonna, anziché pensare che fosse pazza, e certamente furba, abbiamo pensato ma guarda che grande femminista. E lo pensiamo ancora. E ammiriamo pazzamente anche Kate Middleton, che l’ascesa sociale l’ha fatta rispettando tutti i crismi, e che dopo ogni gravidanza anziché da una sala parto sembrava uscita da un soggiorno alle terme.

 

Non ci differenziamo poi molto dalle signorine di una volta alle quali veniva consigliato (intimato), per sposarsi, di non essere troppo brillanti, di tacere, di vestirsi non troppo alla moda, di essere rassicuranti, di non fare mai il primo passo, di non darla – Natalia Aspesi in “Lui! Visto da lei!”: “Noi non la davamo, eravamo le ragazze di buona famiglia, le ragazze per bene, cioè delle squallidine mal vestite, mal pettinate, con la pelle non curata: non avevamo una lira, né avvenire, né mete, né slanci, né ribellioni”, ed era il 1978. Stiamo tornando a pensarla come loro, che concordavano con San Paolo: “Meglio sposarsi che ardere di desiderio”. E, diversamente da loro, sappiamo cosa significhi ardere, ci siamo buttate nel fuoco molte volte, ci siamo persino innamorate dei pompieri che ci hanno salvate, come in quel libro favoloso di Rossana Campo, “In principio erano le mutande”, e però poi siamo rimaste senza niente, con “la magia della noia, del tempo che passa la felicità”.

 

E così cerchiamo la donna della vita o l’uomo della morte, li cerchiamo anche senza saperlo, ce li fanno cercare i giornali, i reality show, i vestiti, le feste, i locali, le amiche terrone ubriache, Facebook, tutto concorre a fare di noi inconsapevoli ma smaniose ragazze da marito. Con la sola differenza che mentre cinquant’anni fa le poste del cuore funzionavano, e tirarsela funzionava, e starsene zitte e remissive anche funzionava, adesso no, adesso la verità è che non gli piacciamo abbastanza, che lo spaventiamo se siamo in carriera e pure se siamo disoccupate, se siamo brutte e se siamo belle, e che in amore perdono sempre tutti, tanto chi fugge quanto chi rimane. Certo, chi rimane perde ancora di più, ma almeno è umano e piange ascoltando Tiziano Ferro.