Si fa presto a dire affanculo
Vent’anni di indie, molti dischi, un Sanremo, ora un libro. Vita, opere e rabbia degli Zen Circus
La prima volta che gli Zen Circus ci hanno detto di andarcene tutti affanculo era il 2009. Due anni e tre giorni dopo il primo Vaffa Day e per chi non sapeva chi fossero, poteva quasi sembrare uno slogan contiguo a quello di quel primo semino grillino. Invece non c’entrava niente. Era il titolo di un disco (“Andate tutti affanculo”, La Tempesta Dischi, tra i 100 migliori album italiani di sempre secondo il Rolling Stone), quello di metà carriera, di una svolta che era crescita e non smentita, allargamento e non spostamento, e voleva dire alcune cose precise, e prima fra tutte questa: chi ci ama, ci segua. Adesso, dieci anni dopo, e a venti di distanza da quando hanno cominciato a suonare, mentre i grillini raddoppiano petti e cravatte e richiamano alla mitezza e al garbo, gli Zen – così li chiamano gli amici e gli innamorati – ci ridicono di andare tutti affanculo, e anche stavolta si tratta di un titolo, quindi di una sintesi che come ogni sintesi è una trappola e una seduzione e una finzione, però non di un disco, ma di un libro, “Il primo romanzo anti-biografico degli Zen Circus” e la seconda cosa che hanno scritto con qualcun altro, Marco Amerighi, autore e traduttore. La prima è “Ilenia”, canzone recapitata per lettera da una fan ad Andrea Appino, il frontman, del quale siamo innamorate più o meno tutte, sebbene – o forse è per questo – non scriva canzoni d’amore, né con gli Zen né da solo (nella sua “Nabuco Donosor” canta che “le canzoni d’amore fanno male perché riconosci in ognuna una parte di te o di chi ti sta accanto o di chi ormai non c’è più e di chi non ne vuol sapere di chi sia tu”; nelle interviste dice che l’amore è 1+1=2, una di quelle frasi che ci rifilano poco prima di lasciarci quando è troppo presto, o troppo sbagliato).
Quando cominciarono a suonare sapevano soltanto che il grunge era appena nato e già quasi morto, e che facevano schifo
“L’obiettivo non era raccontare la storia degli Zen, ma renderla collettiva”, ha detto sempre lui del romanzo, trecento pagine e passa molto romantiche e rock’n’roll, dove tutto quello che succede è successo davvero, ed è la storia di una rosetta di provinciali, adolescenti emarginati che negli anni Novanta – mentre nasce il grunge e il punk diventa punk rock e Kurt Cobain s’ammazza e si capisce che la storia non finirà – fondano una band. A Pisa, la città del Macchia Nera, un centro sociale che durò per undici anni e venne sgomberato nel 1999, dopo un incendio. Gli Zen prima di diventare gli Zen, cioè i protagonisti del libro, non hanno idea di niente, tranne una: non sono bravi, li schifano tutti, e chi se ne frega di fare schifo quando si ha molto da dire. L’indie, all’epoca, non era il brand che è adesso, non era garanzia di successo, non era un genere un po’ finto e posticcio, ma un’attitudine alla ricerca e alla purezza. Per molti di quelli che lo suonavano, compresi gli Zen, era la sola cosa da fare, l’unica cosa nuova che si potesse immaginare e quindi era una salvezza, La Salvezza – “Se non avessimo fatto musica saremmo morti”.
Erano anni difficili, la discografia cominciava ad andare in crisi, i concerti si svuotavano, e tutta una generazione, quella che gli Afterhours hanno tentato di raccogliere in dischi collettivi, si rimboccava le maniche negli scantinati, e non aveva idea della linfa che avrebbe dato al futuro del rock e della musica undergroud di questo paese, né che sarebbe diventata la voce di uno scontento e di una crisi che non è mai passata. Diversamente dai loro dischi, il libro degli Zen non ha niente di politico, ed è vero che è una storia collettiva: raccontarne uno per raccontarli tutti, quelli di quei tempi là. Il 2019 è stato, per gli Zen Circus, un anno importante, forse persino cruciale: sono andati a Sanremo, e forse sono stati i soli, del loro piccolo mondo antico, a non prendersi, per questo, accuse di tradimento, svendita di sé, voltafaccia alla propria carriera. Perché “L’amore è una dittatura”, il pezzo che hanno portato all’Ariston, non ha niente di sanremese, ed è bellissimo, toccante, e fa così: “Esistere è solo un momento, chi vive nel tempo muore contento e sì, ci hanno visti contare le pietre di questo deserto, pazienza, perdere tempo con il cielo, farlo di lavoro, pagati per immaginare qualcosa che non puoi fotografare”. L’attitudine indie, spiegata bene. E l’amore per la propria vocazione, e la propria integrità, spiegati altrettanto bene.
Una generazione senza mezzi è diventata una fascia di ipocriti classisti, attori di un benessere finto, di un’esaltazione indotta
“La band è una dittatura in democrazia, e io credo che una democrazia sia una dittatura”, ha detto Appino a Carolina Crescentini, che per Rolling Stone lo ha intervistato su Sanremo, poco dopo Sanremo. “Andate tutti affanculo”, in fondo, è la storia di come si nasce e si resta leali, a volte pure fedeli, a uno scopo, operazione che quando c’erano i giovani di belle speranze e un mondo pronto a soddisfarle (o almeno capace di farlo) era banale, ma che per tutta una generazione, quella che stona col nome con cui passerà alla storia – millennial, naturalmente – è stata piuttosto complessa, a volte persino impossibile. Sono passati vent’anni da quando gli Zen erano dei liceali pisani con niente da perdere, vent’anni sembran pochi e loro si sono voltati a guardarli e li hanno trovati tutti lì, intatti, autentici anche nelle finzioni che all’autenticità conducono (diceva Nicola Chiaromonte che l’autenticità è un punto d’arrivo e che la finzione è il mezzo migliore, probabilmente anche il solo, con cui raggiungerlo). Hanno di che esser fieri, gli ex ragazzi “Nati per subire”, che è il nome di un loro disco e pure il modo in cui i bulli del liceo chiamavano Appino, che da ragazzino subiva le botte, l’insicurezza, gli insulti, la provincia.
Ed è proprio alla provincia che lui e gli altri (Ufo, Karim Qqru, Francesco Pellegrini) sono rimasti attaccati, riconoscenti, forse anche simili. “Vai al pub del paesino e ti danno del finocchio. E’ tutta roba che ti serve”. A cosa? Alla scorza, alla tempra, all’indipendenza, alla rabbia. Ne hanno scritto sempre tutti: gli Zen non hanno mai smesso di incazzarsi, applausi, grazie a loro il rock resta vivo. Vero, per carità, ma il punto profondo degli Zen non è tanto questo, quanto la resistenza, la fermezza, la scelta di allargarsi senza spostarsi, talvolta invece di restringersi, per arrivare più vicino ma tenersi lontano (come quando dall’inglese sono passati all’italiano). A proposito del loro ultimo disco, “Il fuoco in una stanza” (2018), Elisa Casseri ha scritto su Nuovi Argomenti: “Il Circo Zen mi fa pensare a una struttura che negli anni ha mantenuto la sua ragion d’essere, esistendo e resistendo come se fosse stata galvanizzata dallo zinco per non corrodersi. Lasciarsi ossidare dal presente per creare una barriera contro la disgregazione, ricordandosi sempre che la differenza sta tutta fra il mondo che subiamo e quello che immaginiamo”.
“Esistere è solo un momento, chi vive nel tempo muore contento e sì, ci hanno visti contare le pietre di questo deserto, pazienza”
Una differenza che porta un dolore e che è il dolore a cui i millennial, specie quelli tardivi, non erano preparati, contro cui inventiamo continue manipolazioni dell’io (e dell’ego), e che invece gli Zen Circus hanno raccontato, accolto, restituito con una rabbia sempre molto poetica, a volte tanto poetica da sembrare quasi delicata, e una grande fame di verità, ispirati sempre dall’idealità, anche davanti alla disillusione. C’è un’ambizione costante, nei testi di Appino, contrapposta a quelle inappagabili e in fondo non appaganti alle quali ci attacchiamo, tutti, attempati millennial o meno che siamo, ed è quella che canta ne “Il fuoco in una stanza”: “Vorrei essere un letto infinito, farti star bene senza muovere un dito, più lo faccio più mi sprofondi dentro e pesi meno di quest’alito di vento che soffia sopra il nostro ordine formale, sopra questo impegnarsi a guadagnare abbastanza per comprarti quelle scarpe che ti fan sentire più alta e più importante. Cerchiamo qualcun altro da invidiare, un ristorante in cui poterci lamentare, per tre anni abbiamo chiuso il mondo fuori e stiamo diventando i nostri genitori”.
I millennial sono una generazione in recessione di possibilità e forse proprio per questo sognano sogni borghesi e temono timori borghesi, e sta lì la morsa che li frega, li affievolisce. E’ anche questo che gli Zen mandano affanculo. Non la casta, l’élite, i privilegi, le difformità. Anzi. Degli auspici grillini, quando ancora erano ribellisti, gli Zen Circus hanno cantato, in “Viva”, di non sapere cosa farsene: “Il mio voto vale quanto quello di questo imbecille allora cosa me ne frega delle vostre cinque stelle e di tutte la parole che vi sento blaterare sopra il bene comune l’amore universale, non provo vergogna se mi date del pezzente di essere attraente e circondato da idioti non me ne frega niente”.
Nei suoi testi Appino sfida la paura di soffrire, la desidera, la cerca perché sa che è l’unica autenticità realmente accessibile
E’ ai sogni di gloria e ai sacrifici per l’apparenza che la generazione in perpetua recessione dedica ogni sforzo, fino all’ossessione, alla malattia, al burn out, con l’effetto essenzialmente secondario, e spaventoso, di fare di se stessa una fascia di ipocriti classisti, attori di un benessere finto, di un’esaltazione indotta – “tutti viva qualcosa, sempre viva qualcosa, viva la pace, evviva il lavoro, viva la patria, la costituzione, viva la guerra, tanto vivi si muore”. E’ una recita analgesica che trova consenso e spazio nella paura che il nostro tempo ha di soffrire, una paura che Appino, invece, sfida, desidera, cerca perché sa che è l’unica autenticità realmente accessibile: “Non voglio ballare, voglio farmi male”. La settimana scorsa, su Futura del Corriere della Sera, Irene Soave ha scritto un pezzo interessante su come psicoterapia e psicanalisi ci abbiano allontanati dall’idea che l’azione collettiva e quindi politica possa aiutarci a migliorare la nostra vita privata. Ha scritto che non siamo in grado di vedere come i modi in cui amiamo, ci sposiamo e persino soffriamo siano molto più storici e assai meno psicologici di quanto siamo portati e pensare e soprattutto che la nostra generazione (sempre lì stiamo: attempati millennial, adulti tardivi) ha rinunciato alla resistenza “in favore dell’accettazione dell’esistente, del lavorare su noi stessi sempre e comunque, della responsabilità individuale anche su cose di cui non siamo che remotissimamente responsabili”. E così ci sono le piazze vuote – “Ilenia, la piazza è vuota, Ilenia, la piazza è muta” – e le sale d’aspetto degli analisti pieni.
La medesima resa vedono e trovano intollerabile gli Zen, che di resa non si sono macchiati mai, neppure a Sanremo, ed è un’altra ragione per cui possono permettersi di mandarci affanculo, noialtri che guardiamo il mare “come lo sanno guardare solo certi figli del nord-est, ma Venezia non è un mare è solo un ideale che non puoi abbracciare mai e poi mai” – e questa è “L’anima non conta”, canzone su come di anima sottovalutata e spirito spento siamo morti tutti, d’altronde vivi si muore. Ci rimproverano o ci assolvono, gli Zen Circus? Nessuna delle due cose, non stanno diventando i nostri genitori, e sanno bene che se lo facessero perderebbero la prospettiva giusta, e il senso del rock che custodiscono, che è quell’anarchia come la intendeva Fabrizio De André: l’adesione stretta e inflessibile alle regole proprie, senza la pretesa che valgano anche per gli altri. Diversamente da Manuel Agnelli degli Afterhours, che anche prima d’infettarsi del senso di colpa per essere diventato mainstream con X- Factor faceva il paternalista e predicava e scatarrava “sui giovani d’oggi”, Andrea Appino su chi è arrivato dopo di lui, interrogato su come si sia dissolta la capacità di sacrificarsi e dedicarsi completamente alla musica, ha detto soltanto questo: “Le cose semplicemente cambiano. Del resto, chi è venuto prima di noi ci guardava dall’alto verso il basso e ci diceva che facevamo musica per centri commerciali. Quando ascoltavo i Nirvana, quelli più grandi di me mi dicevano che erano merda, che il vero rock era morto. Non voglio finire così, un quarantenne che giudica i ragazzini”. Meglio mandarli al diavolo, i ragazzini e tutti quanti gli altri, come fa la provincia che al bar ti insulta, e insultandoti ti regala “tutta roba che serve”, anche ad andare via “con mille sogni, e tornare senza”. Magari per riprenderseli.
Antifascismo per definizione