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Va' dove ti porta la moda senza odio né omologazione. La svolta no label di Ovs

Fabiana Giacomotti

La lunga marcia del buyer emancipato (non solo per ricchi)

Milano. Capite bene che da quando Jennifer Lopez, a cinquant’anni, è “get on the floor” di Versace con una versione persino più scollata dell’abito che indossava vent’anni fa, la relazione fra età e sensualità femminile si è fatta inesistente. Insieme con molte altre. Peso ponderale, colore della pelle, gusti sessuali, stili di vita. Mentre la vita reale ci ribadisce ogni giorno che il razzismo, il bullismo, la persecuzione esistono, anzi si sono fatti più cattivi e aggressivi, la moda d’alta gamma, ma anche quella di massa, continuano da anni con serena ostinazione a raccontarci che la vita può (anzi, dovrebbe) essere diversa. Inclusiva, per usare un termine, appunto, di moda, ma anche differenziante. Un “antidoto all’omologazione”, per usare le parole con cui Alessandro Michele ha accompagnato la collezione Gucci presentata domenica, un ritorno all’essenzialità delle forme e al senso vero e profondo della moda che era molto atteso da parte dei clienti del marchio ma soprattutto da lui. I primi a cavalcare la fratellanza universale nel segno di gonne e maglioni furono gli United Colors di Benetton, che tengono tuttora fede a posizione e slogan nonostante qualche incidente di percorso con terzisti di paesi disagiati e naturalmente il crollo del ponte di Genova seguito dalla lunga diatriba politica attorno ad Autostrade di cui sono i principali azionisti attraverso Atlantia. Poi arrivarono gli inglesi, capitanati da Katharine Hamnett e Vivienne Westwood, ormai quasi più attivista politica che stilista. Via via si sono aggiunti quasi tutti, seguendo la propria inclinazione (ecologia, agender, sostenibilità che adesso è il tema più sentito). Ovs vi arriva in questi giorni spingendo l’asticella un po’ oltre e sposando un argomento che, oltre a farle gioco, com’è giusto e logico, mira ad abbattere il feticcio ultimativo della moda: l’etichetta. Il totem del brand. “Love people, not labels”, per l’appunto “amate le persone, non le etichette”, sintetizza nella prima mezza riga la tendenza socio-empatica degli ultimi anni, e punta ad abbattere la ragion d’essere della moda come status symbol nell’altra metà. Se per le donne elegantissime di tutto il mondo togliere l’etichetta dai propri capi è infatti sempre stato il gesto definitivo dell’affermazione personale, una dichiarazione al tempo stesso intima e pubblica di personalità (lo stilista Martin Margiela ha costruito la propria carriera sull’etichetta bianca e priva di segni, dando vita come inevitabile a un contro-culto), nel mondo che ha avuto accesso al consumo e agli stessi comportamenti di quello occidentale da pochi decenni, a partire dalla Cina, oltre naturalmente ai giovani e alle fasce socio-culturali meno affermate e sicure di sé, l’etichetta ha invece sempre rivestito il ruolo della rassicurazione. 

 

Ovs ha un capitale di marchio che può spendere innanzitutto sul rapporto fra la qualità e il prezzo, sulla piacevolezza dei suoi punti vendita, sullo stile dei capi che vende. Per raggiungere anche quello di marchio (perché no, i meccanismi psicologici che regolano l’attrazione e la ricerca del feticcio sono inscritti nel comportamento atavico dell’umanità e afferiscono al senso del sacro, dunque non possono essere abbattuti) ha scelto la strada a contrariis: quella della negazione. In traslato: “voi clienti Ovs siete così forti, splendenti, che non avete bisogno di farvi sedurre da un’etichetta”. Con 150 milioni di visitatori all’anno, il campione su cui è stata sviluppata la campagna è sicuramente poderoso. Fra un’immagine e l’altra di uomini e donne colti in momenti quotidiani, giovani e meno, sottili e rotondi (non li definiamo come tutti “curvy” perché l’inglese usato in funzione semantica rasserenante ci suona patetico), legati da rapporti affettivi a composizione variabile ma non per questo meno forti, esce il mondo che incontriamo davvero oggi, ogni minuto, almeno nelle grandi città. L’amministratore delegato di Ovs, Stefano Beraldo, dice che “aver scelto un approccio di comunicazione che tenesse conto della pluralità dei modi di essere, dopo un periodo incentrato sulla bellezza delle top model”, rappresenta “un ulteriore passo” in una strategia aziendale focalizzata sull’individualità e la valorizzazione del singolo, le persone oltre le cose, per usare un altro slogan molto in tendenza in questi anni. Per chi conosce il mondo della moda backstage, l’aspetto davvero sorprendente della campagna Ovs è però la sua firma: Massimo Piombo, lo stilista di moda maschile forse più elitario e sofisticato mai apparso sul mercato italiano negli ultimi trent’anni. Un anno fa, ha inaugurato con il gruppo Ovs una serie di negozi eponimi di stile maschile sartoriale a prezzi accessibili che sta avendo un grande successo. Ora supera a destra Toscani. Vedi a che cosa porta la tendenza “new normal”.

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