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"Non hai le mutande!". Il mio rapporto con papà

Simonetta Sciandivasci

Non ho mai pensato a mio padre come a un maschio italiano. Ora voglio ridere e voglio piangere

La sola volta che, per andare a scuola, non mi vestì mia madre ma mio padre, finì male. Io per poco non venni affidata ai servizi sociali e lui per poco non si ritrovò in carcere, accusato di maltrattamenti ai danni della figlia minorenne. Povero papà. S’era scordato di mettermi le mutande. Mi aveva lavata, impomatata, pettinata, vestita di tutto punto, ma le mutande proprio no, niente. La maestra se n’era accorta, perché ci controllava sempre, noi bambine, quando facevamo la pipì, visto che in fatto di igiene intima eravamo tutte ancora inesperte, e pasticcione, e lei si divertiva a dirci come dovevamo pulirci e dove e soprattutto perché.

 

“Sciandivasci, non hai le mutande!”, mi disse, inorridendo, e non m’aveva mai chiamata Sciandivasci, ma sempre Simonetta, e già così mi venne da piangere, però me la tenni e abbassai lo sguardo e sì: non portavo le mutande. “E’ stato papà!”, dissi, inconsapevole dello scenario di degrado famigliare che avrei proiettato nella testa della maestra, che infatti si precipitò da mia madre, non appena venne a prendermi, e le disse: “Suo marito non ha messo le mutande a sua figlia!” e io piansi, e poi non capii molto di quello che si dissero, mia madre e la maestra, perché parlarono un serio e articolato adultese, e a casa furono guai per papà.

 

Che figuraccia mi hai fatto fare, le hai fatto fare, come ti è venuto in mente, possibile che ti scordi sempre qualcosa, quando non sono le chiavi di casa sono quelle della macchina e quando non sono le chiavi della macchina sono le mutande di tua figlia, e metti che le hai procurato un trauma, o le viene un’infezione?! E lui muto. Povero papà.

 

Quanto piansi, quella volta. E quanto rido, adesso, tutte le volte che ci penso. Te lo ricordi, papà? Non ne abbiamo mai parlato, non t’ho detto che una cosa che mi capita, ogni tanto, da quando sono grande, e mi vesto da sola (e Dio sa quanto odio farlo, tutte le volte vorrei essere Sailor Moon, che si cambiava con due colpetti di bacchetta magica e una giravolta) è di fare come hai fatto tu e dimenticare di mettermi le mutande. Non lo faccio apposta, me ne accorgo sempre a molti chilometri da casa e quindi pazienza, passo la giornata senza mutande. E rido, e penso a te, e mi domando se, quel giorno, a fregarti sia stata la fretta o, invece, la timidezza.

 

Io e mio padre parliamo poco. Ci amiamo perdutamente. Ci siamo fatti la guerra, una volta, per quasi tre anni. Sono stati in assoluto gli anni in cui ho dimenticato più spesso di mettermi le mutande, e qualche volta l’ho fatto di proposito, perché volevo ridere e avevo bisogno di perdonarlo.

 

La settimana scorsa gli hanno diagnosticato un carcinoma alla prostata. Mi ha telefonato e me l’ha detto ed ha aggiunto la sua frase più tipica: “Non c’è problema”. Io ho risposto con la mia (frase più tipica): “Va bene, non ti preoccupare”. Non ho pianto. Per qualche giorno niente, nemmeno una lacrima. Ho chiesto alle amiche dottoresse, e m’hanno rassicurata; ho googlato “carcinoma alla prostata” e ho scoperto che capita a moltissimi maschi italiani, otto su dieci o giù di lì, e io non avevo mai pensato a mio padre come a un maschio italiano, figuriamoci, proprio no, dopo che l’ho visto, per vent’anni, preparare la colazione a mia madre e passare l’aspirapolvere alle sette del mattino e mettermi sul Bari-Parma, la notte prima del Capodanno dei miei tredici anni, per andare a una festa con il mio fidanzatino (che amavo follemente e che anche mio padre amava follemente), mentre mia madre protestava e diceva che ero troppo piccola e mi affidava alle signore in carrozza che le sembravano rispettabili – “Mia figlia scende a Parma, me la controlla?” – e lui che la zittiva e mi guardava e con la faccia e gli occhi mi diceva: “Sei pronta”, come ha fatto spesso, insegnandomi che essere pronti è tutto, prima che lo trovassi scritto nell’Amleto.

 

Ho visto le foto dei carcinomi alla prostata su Google Immagini, non ci ho capito molto, come quando le mie amiche incinte mi fanno vedere le ecografie dei bambini nelle loro pance e io fingo di individuare il cuore e il naso e la bocca e invece non è vero e m’innervosisco. “Che cosa posso fare?”, ho chiesto a mia madre. Niente, m’ha detto. Andrà tutto bene, ha aggiunto. Lì ho desiderato molto piangere e non ci sono riuscita. Allora ho ascoltato una canzone di De André che lui mi suonava sempre, quella del povero Michè che s’impicca in carcere e nessuno lo seppellisce. Niente.

 

Ho riguardato la scena di Divorzio all’italiana con l’avvocato che arringa e Mariannina Terranova confessa di aver ammazzato il marito che l’ha tradita, perché quando ero bambina la rifacevamo sempre, lui era l’avvocato e io Mariannina (e non sono cresciuta assassina: ho preso molte corna, però non ho mai sparato a nessuno). Niente. Sono andata in chiesa, con questo bisogno di piangere gigantesco, con il terrore in gola, con il raziocinio e le statistiche che mi sembravano provocazioni insostenibili, eppure niente, non una lacrima. Sono entrata, mi sono seduta davanti a una Madonna in scala (una statua bellissima, piena di azzurro) e giuro (giuro!) mi sono accorta che non avevo le mutande. E allora ho riso, ho pregato, ho pianto, ho riso. Per moltissimo tempo. E anche ora, e stamattina, e stasera. E domani su dopo, come si dice nei giornali. Non c’è problema, papà.

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