#Bonisoli bloccace questo. I perché di un metodo intimidatorio

Maurizio Crippa

C’è una banda di manganellatori che vuole distruggere i Beni culturali, un vuoto di potere occupato da chi vuole smontare la riforma Franceschini. Il metodo Montanari. I “no” e la guerra ai direttori

Milano. C’è una banda di manganellatori che si aggira tra i beni culturali d’Italia con il proposito di sfasciare musei che funzionano, rimuovere direttori capaci, perpetuare così come sono siti che magari andrebbero ripensati. E soprattutto smantellare la riforma del ministero per i Beni e le Attività culturali varata (pur con qualche lacuna, ma che non merita il bazooka) da Dario Franceschini in epoca governo Renzi (ovviamente questa è la prima delle colpe). La banda non si aggira da ieri, ovviamente. Oggi ci sono però alcuni aspetti che la rendono particolarmente pericolosa. Il primo è un fattore di metodo.

 

Come nella tradizione del peggior lobbismo mediatico, si scatenano ad arte (pardon) allarmi laddove non ci sono per attivare un meccanismo semiautomatico di blocchi, divieti e sollecite modifiche da parte dell’alta burocrazia ministeriale (cui di solito il ministro mette un placet, ma di questo dopo) o delle Sovrintendenze (ma anche no: vedremo che le Sovrintendenze sono a volte le vittime di questo meccanismo eterodiretto). Spesso gli agit-prop della controcultura fanno da sé: il più audace di loro, Tomaso Montanari, ha a disposizione quotidianamente la flottiglia del Fatto, del resto da quando è filogovernativo è a corto di bersagli per facili campagne scandalistiche. A volte c’è qualche utile idiota, o momentaneo compagno di strada, come Vittorio Sgarbi che mesi fa sollevò per bizze sue il polverone su un buon intervento per nulla invasivo a Palazzo dei Diamanti di Ferrara, ottenendo dal solerte dirigente del ministero Gino Famiglietti il blocco di un intervento già approvato dalla Sovrintendenza (appunto). O Maurizio Gasparri, lesto come un fante a un’interrogazione parlamentare sull’ipotetico ingresso dei sauditi nella Fondazione della Scala (“non si consegni il teatro a Riad”, ha detto, dimostrando di ignorare i termini della materia).

  

Napoli, Ferrara, Milano. Denunce strumentali attivano i niet della burocrazia. Il ministro pensa a una riforma di cui si sa nulla

Il caso del momento, il niet ottenuto dopo mobilitazione stampa dal ministero (il solito Famiglietti) al trasferimento delle Sette opere di Misericordia di Caravaggio da una chiesa di Napoli al Museo di Capodimonte è talmente pretestuoso e opinabile che ha fatto indignare persino il Maestro Riccardo Muti. Ma sotto, come è chiaro a tutti, c’è la partita (giocata con tecnica da calcio fiorentino) per far fuori i direttori sgraditi dai grandi musei. Un articolo del 6 marzo di Montanari sul Fatto è intitolato: “Fermare ‘certi’ direttori. La grande occasione di Bonisoli”. Mancano solo le teste di cavallo. Ma il bersaglio più grande di tutti, quello vero, è smantellare la riforma e riprendersi il ministero, assoggettandolo a una logica statalista che nemmeno Zdanov. E che, soprattutto, nemmeno l’abusato articolo 9 della Costituzione prevede: dacché parla di tutela dei beni artistici e del paesaggio da parte della “Repubblica”, non dello “stato”.

  

Il secondo fattore è la situazione politica generale del paese – al governo ci sono i famosi buoni a nulla e perciò capaci di bloccare tutto, per parafrasare Pannella – unita al vuoto che regna da circa un anno al Collegio Romano. Il Mibact, come diceva il primo titolare Spadolini, avrebbe dovuto essere un ministero anomalo, più tecnico-scientifico che politico. E’ diventato negli anni un burosauro di poteri contrastanti, anche per demerito di molti dei 27 ministri che si sono succeduti dal 1975. Accade ora però che il Consiglio nazionale dei beni culturali, che dovrebbe essere il più prestigioso organo consultivo del ministro, è scaduto a giugno 2018 e ancora non è stato rinnovato (si sa del resto che pensino i Cinque stelle della competenza: vedi il caso Consiglio superiore di Sanità). Il ministro Alberto Bonisoli ha comunque deciso (bene) di riattivare i sette comitati tecnico-scientifici (composto ognuno da quattro esperti, due designati dal ministro, uno dal Consiglio universitario nazionale e uno eletto tra il personale del ministero).

 

Ma le nomine ancora non sono complete, né alcuno di questi consorzi attivati. Il Consiglio nazionale si rinnoverà entro aprile, forse. In pratica, c’è una sede vacante anche per alcune materie per le quali il parere del Consiglio è vincolante. E al centro del vuoto burocratico, c’è il vuoto di governo, ossia il ministro Bonisoli. Non un politico, nemmeno un tecnico dei Beni culturali, non un accademico. Un catapultato della “ricerca curriculum” del Cinque stelle, che fino a ora si è mosso soltanto avallando i diktat dei personaggi di riferimento del partito che lo ha scelto o con uscite estemporanee: come quando disse che i prossimi direttori dei grandi musei li avrebbe voluti madrelingua italiani; o quando decise di abolire le domeniche gratis nei musei, salvo fare poi una marcia indietro pasticciata. E’ circondato da una squadra che, quantomeno, non lo aiuta nella specificità del ministero.

 

Il segretario generale Giovanni Panebianco, suggerimento di Di Maio, ha formazione economica e nella Guardia di finanza, in seguito una carriera nella Pubblica amministrazione: ma nel settore controlli. Il capo di Gabinetto Tiziana Coccoluto ha maggiore esperienza, era nel ruolo già con Franceschini, così come il direttore generale dei musei, Antonio Lampis, entrato nel ruolo nel 2017. Su tutti, però, la figura chiave, quella che comanda, è il direttore generale per le Belle arti, l’Archeologia e il Paesaggio, il vero ministro ombra, Gino Famiglietti, di cui ieri ha tracciato un ritratto Francesco Erbani su Repubblica, persino garbato. La firma su tutti i no indicati dalla banda dei manganelli è sua. E’ un giurista, una vita al Collegio Romano, sodale e collaboratore di Salvatore Settis, l’altro mostro sacro della guerra alla riforma Franceschini. Con Settis collaborò al tempo della stesura del Codice dei beni culturali, politicamente vicino ai Cinque stelle, ultrasensibile alle ubbie di Montanari. Un dogmatico, un conservatore della conservazione. Anni fa lo confinarono in Molise: si batté per bloccare le pale eoliche. Lo confinarono, in epoca Franceschini, a direttore degli Archivi, per non far danni: lui mise mano con rudezza alla statalizzazione degli archivi del Vasari, un pasticciaccio che va ancora avanti. In tutto questo caos, senza aver dato attuazione a un’idea che sia una, Bonisoli si è messo in testa (chi glielo avrà messo in testa?) di smantellare la riforma e riformare il ministero.

  

Il terzo fattore, che in un paese come l’Italia in cui il peso delle lobby opache è sempre stato decisivo, è questo: ma chi li ha eletti? (Sì, è la più stupida delle domande, però è quella che fanno sempre loro, quelli della democrazia formale). Settis, che passerà alla storia anche molto per la magra figura sul Papiro di Artemidoro, oltreché per le difese della Costituzione dal cemento, o forse viceversa, non lo hai mai votato nessuno. Per quanto da presidente del Consiglio dei Beni culturali esercitasse un potere di condizionamento notevole, e su come trattasse i nemici nel caso Artemidoro chiedete a Luciano Canfora. Tomaso Montanari anche peggio. Il suo tentativo di ingresso in politica partendo dal Brancaccio, in compagnia della desaparecida Anna Falcone, inciampò prima ancora di attraversare via Merulana e resterà alla storia come uno dei più presuntuosi e grotteschi tentativi politici. Non lo ha mai eletto nessuno, non lo ha mai votato nessuno. Ma si è infilato nel nuovo Comitato tecnico-scientifico per le Belle arti. Dunque è un consulente, gratuito e volontario, del ministero: e allora in nome di cosa, e di quale correttezza e trasparenza (la coppia da lui sempre invocata) si permette di distribuire patenti di competenza o incompetenza, anzi di onestà e opacità, a destra e a manca e addirittura di “suggerire” al ministro che cosa fare?

  

Lo stile Montanari merita un breve riassunto: accusare e denigrare, di solito il tono scade nell’insulto; i giornali che pubblicano pareri diversi sono “gazzette dei palazzinari”. Sul Caravaggio di Napoli farebbe fede, a suo avviso, solo il parere di uno storico che la pensa come lui, Giuseppe Porzio: il sottinteso è che gli altri esperti del comitato scientifico di Capodimonte, e lo stesso direttore Sylvain Bellenger, che hanno dato parere favorevole non sono esperti, non valgono una cicca, anzi sono evidentemente in sospetto di camarilla. Perché mai? Un altro metodo è l’attacco a leggi che pure sono state giudicate legittime, non c’è solo la Franceschini. Ai limiti del grottesco è l’attacco alla legge regionale dell’Emilia-Romagna che governa la ricostruzione post terremoto e che permette di abbattere e ricostruire ciò che non è salvabile. Con le idee di Montanari, Roma sarebbe rimasta alle Capanne Romulee, e in generale con l’idea di tutela del paesaggio cara a certi comitati che subitamente si attivano il Belice sarebbe rimasto com’era: ma ovviamente senza il Cretto di Burri a Gibellina.

   

A proposito di Burri, vale la pena ripercorrere alcuni scempi ideologici sulla gestione del patrimonio messa in atto solo negli ultimi tempi dalla premiata banda del manganello. A partire dal tentativo di bloccare la vendita all’estero da parte dei legittimi proprietari di un’opera di Burri. O i casi degli stop di Napoli, entrambi a firma Famiglietti (col permesso di Bonisoli): ai lavori della stazione della metropolitana a Piazza Plebiscito (con perdita di milioni di finanziamenti europei, già approvati dalla Sovrintendenza, e incazzatura da bufalo persino del sindaco De Magistris) e lo stop ai lavori di riqualificazione di Bagnoli. Ancora a doppia firma è il blocco ai lavori (già approvati, anche qui, dalla Sovrintendenza) per il Giardino dei Giusti di Milano, con grave rischio di scivolone antisemita, da cui Bonisoli si è salvato in corner. Dietro a tutti questi no c’è ciò che in termini tennistici si chiamerebbero alzate, in altri gerghi peggio, da parte dei solerti suggeritori per le schiacciate della buro-struttura del Collegio Romano.

  

E con questo, si può tornare al punto di partenza: da dove nasce tanta avversione? Non bisogna farsi ingannare. La questione dei direttori di museo (in scadenza quasi tutti dopo il primo quadriennio post riforma) è solo la punta dell’iceberg. Montanari, più intimidatorio del solito, lo scorso giovedì sul Fatto ha intimato al ministro di non rinnovarli (quelli in carica possono per legge essere rinnovati al secondo mandato). Quale è la colpa di Bellenger di Capodimente (oltre ad essere straniero e aver probabilmente soffiato il posto a un sovrintendente o a un burocrate con i bollini in regola)? Lo si ignora. Basta però guardare i risultati di tutti i direttori, tutti eccellenti. Che però non mettono al riparo personalità preparate come Peter Assmann, che ha già annunciato che lascerà Mantova, come Eike Schmidt gli Uffizi. O il per il momento silenzioso James Bradburne a Brera, uno dei bersagli preferiti di Montanari. Colpevole di avere riallestito (bene) le sale di un museo invecchiato, di averne riaperto l’ingresso monumentale, di aver portato a 370 mila i visitatori del 2017 (ulteriore più 8 per cento). Contro di lui, nella foga, Montanari è ricorso anche alla falsificazione, accusandolo di essere “assai incline a sfilate di moda” che non ci sono mai state. In tutto questo Montanari, il consulente, scrive: “Il nuovo ministro pentastellato ha qualcosa da dire su tutto questo, o facciamo come se ancora ci fosse il ministro Franceschini?”. Tutti i musei toccati dalla riforma hanno avuto un balzo in avanti di qualità, questa è la verità. Da dove attingono questi consigliori i loro pareri con cui condizionano la politica di un ministro, peraltro volenteroso di farsi condizionare?

  

Ma i musei sono un dettaglio. La riforma Franceschini ha trasformato in enti autonomi solo trenta grandi musei di interesse nazionale – ora dipendenti da un direttore, con un cda, un collegio di esperti, un’autonomia, per quanto relativa, di gestione e bilancio, sottraendoli alle Sovrintendenze – su 450 musei statali. E non li ha trasformati in supermercati o luoghi di mercimonio, e le Sovrintendenze territoriali non hanno avuto particolari problemi col nuovo assetto. Ma si colpisce lì, perché fa effetto: perché basta dire “bigliettificio” e anche il più stupido dei peones della maggioranza o elettore populista capirà “ladri”. Poi c’è stata la formazione dei Poli museali, che ha dato più fastidio alle vecchie sovrintendenze che si sono sentite scalfite nei loro poteri territoriali, e che potrebbero essere migliorati. E tante altre cose: ma in un tentativo di coordinamento de-statalizzato che è quello che alcuni vogliono smontare: per ideologia, e anche per tutelare antiche rendite di posizione.

  

La mitologia delle Sovrintendenze competenti e dei direttori cattivi: il disatro di Palazzo Citterio a Brera dice il contrario

A proposito della ipotetica e divinizzata competenza dei sovrintendenti, ancora il caso di Brera aiuta a capire che non tutte le competenze sono uguali. E soprattutto che l’autonomia decisionale di chi fa effettivamente un museo è un bene comune da tutelare. Da molti anni Brera attende di poter allargare le proprie esposizioni – quelle del Novecento, eccellenti – nella nuova sede del vicino Palazzo Citterio. Solo che, a parte i lavori andati per le lunghe, la fase esecutiva dei restauri è seguita dalla sovrintendente Antonella Ranaldi, che ha de facto escluso la direzione della Pinacoteca, cui però gli spazi erano destinati. I progettisti si sono ben guardati di parametrare gli interventi sulle esigenze della nuova sede espositiva. Il risultato è che Palazzo Citterio è ancora chiuso, non funziona. Secondo Philippe Daverio “una gaffe estetica senza limiti, senza logica, progettualità e destino preciso degli spazi”. Un restauro conservativo inadatto per un luogo espositivo. Con soldi pubblici buttati (ma qui nessuno si scandalizza) e il progetto della Grande Brera, nato molto prima di Bradburne e Franceschini, ancora al palo.

   

Le colpe della Lega sovranista

In tutto questo picconamento dei Beni culturali a marca M5s, l’altra metà non sta a guardare. La Lega esprime un sottosegretario come Lucia Borgonzoni che passerà alla storia per aver dichiarato di non leggere un libro da anni e aver rivendicato che “Leonardo è italiano”. Poco altro. Ora si è svegliata, dicendo qualcosa un po’ a caso contro la “logica dei no” del suo ministro. Ma a quella logica non si è opposta. E qualche giorno fa Stefano Bruno Galli, ideologo leghista dell’autonomia referendaria e attuale assessore alla Cultura in Lombardia se n’è uscito a spiegare che con l’autonomia un museo come Brera passerà sotto il controllo regionale. E questo potrebbe, forse, davvero accadere. Ma è una follia, e una contraddizione dell’autonomia sostanziale che va esattamente nella direzione di quello statalismo che piace ai Montanari e ai Settis. Solo che è un po’ ristretto, regionale. Ma ci vorrebbe la cultura per capirlo.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"