Il patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill (LaPresse)

Lo scisma ortodosso è realtà, per Kirill è un colpo durissimo

Matteo Matzuzzi

Il presidente ucraino Petro Poroshenko benedice la chiesa indipendente ucraina, che ha eletto il suo Primate. Una mossa più politica che religiosa con un grande sconfitto: il Patriarcato di Mosca

Roma. La sconfitta per il Patriarcato di Mosca è totale. Nonostante gli inviti paterni a lasciar perdere, divenuti poi moniti e infine minacce, è nata a Kiev la chiesa ortodossa nazionale, dopo secoli sganciata totalmente da Mosca. Il Concilio di unificazione riunito nella Basilica di Santa Sofia ha eletto Epifanio primate della nuova chiesa autocefala. Trentanove anni, Epifanio è il delfino di Filaret, leader del cosiddetto Patriarcato di Kiev nato nel 1995 come risposta al diniego russo di concedere l’autocefalia alla chiesa ucraina e per questo considerato scismatico. Un voto che non pare essere un ramoscello d’ulivo teso a Kirill. Chi può esultare è il presidente ucraino Petro Poroshenko, che aveva promesso la nascita di una chiesa “domestica” e che il prossimo 6 gennaio, il Natale ortodosso, si recherà al Fanar di Istanbul, sede del Patriarcato ecumenico, per ricevere insieme a Epifanio il Tomos – una sorta di dichiarazione di indipendenza – dalle mani di Bartolomeo I.

 

Ottenuta l’indipendenza, peraltro in tempi brevissimi, ora spera di raccogliere i frutti del lavoro alle prossime elezioni presidenziali previste nel 2019. E’ stato lui a dare l’annuncio alla nazione, con toni solenni: “Questo giorno resterà nella storia come il sacro giorno della creazione della chiesa ortodossa locale autocefala di Ucraina, il giorno in cui finalmente riceviamo la nostra indipendenza dalla Russia”. Quindi, con enfasi ben calcolata, ha aggiunto che “l’Ucraina non berrà più veleno di Mosca dalla coppa di Mosca”, citando il poeta ottocentesco Taras Shevchenko. Parole che rendono come meglio non si potrebbe la posta in gioco. Dopo mesi di battaglie, prima teologiche e poi soprattutto diplomatiche, Kirill resta con niente in mano. Al Concilio erano presenti anche due metropoliti russi, subito definiti “traditori” da Hilarion, capo delle Relazioni esterne del Patriarcato moscovita: “Se tra i dodici apostoli c’è stato un Giuda, ci si poteva attendere che da novanta ne venissero fuori almeno sei o sette”. Mosca perde territorio e numero di fedeli, autorevolezza sul piano internazionale e peso politico. Prova ne è la serie di lettere spedite nei giorni scorsi da Kirill a diversi leader internazionali – dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ad Angela Merkel, da Emmanuel Macron a Theresa May – e religiosi, compreso Papa Francesco denunciando “persecuzioni sistematiche” da parte dei “dirigenti dello stato laico ucraino” a danno “dell’episcopato e del clero della nostra chiesa in Ucraina”. 

 

Dal Vaticano, come è ovvio, non è arrivata alcuna risposta. A Roma non c’è alcuna intenzione di intromettersi nelle beghe ortodosse, tanto più dopo l’accordo siglato a Cuba con Kirill nel 2016 che ha segnato anche formalmente il disgelo con la chiesa russa – leggi l'ultima intervista a padre Romano Scalfi (1923-2016), "E' la rivincita del profeta Solovev". Non è però un mistero che i greco-cattolici ucraini abbiano guardato in modo positivo alla frattura tra Mosca e Kiev, essendo da sempre in prima linea nel denunciare “l’aggressione russa” e criticando apertamente anche Francesco per essersi incontrato con il patriarca Kirill.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.