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Disputa sull'educazione cattolica tra Andrea Monda e Giuliano Ferrara

Andrea Monda

Dialogo tra il fondatore del Foglio e il nuovo numero 1 dell’Osservatore Romano

Il 9 febbraio di quest’anno ho presentato a Roma il mio precedente volume, Buongiorno professore (pubblicato dalla Elledici) che raccontava la mia esperienza di professore di religione sia “nella realtà” che nel mondo della televisione, essendo il titolo del libro lo stesso del programma che da tre anni conduco su Tv2000 (una sorta di reality delle mie lezioni scolastiche). A presentare il libro, oltre a me, intervennero padre Antonio Spadaro e Paolo Ruffini, direttore di Tv2000, che fortemente mi aveva incoraggiato a dar vita a quel programma. Tra il pubblico c’era anche l’amico Giuliano Ferrara, ex direttore del Foglio che nel 2005 mi aveva ingaggiato tra i suoi collaboratori proprio per scrivere di chiesa e religione. Due giorni dopo, sull’edizione online del Foglio, in prima pagina, Ferrara pubblica un articolo in cui oltre a tanti complimenti, erano presenti alcune precise e pesanti critiche.

 

In particolare, veniva bollato il mondo rappresentato da me e dai miei “presentatori” come “ottimistico e liberale che è il loro di cristiani diciamo così avanzati e virtuosi secondo i criteri etici del secolo invalsi ormai da parecchio tempo”, un mondo in cui “la libertà soggettiva di chi viene a lezione va rispettata, citano la pedagogia di Bergoglio, quando era arcivescovo a Baires, fondata sull’idea che quelle creature anarchiche che sono i giovani non vanno addomesticate”. Ci sono anche i complimenti come già detto: “L’insegnamento del cristianesimo non è l’occupazione di uno spazio, è l’innesco, dicono, di un processo. E mi va anche bene, benissimo, che si usino tecniche di avanguardia o comunque trasversali e letterarie, in una mescolanza di alto e basso sintomaticamente postmoderna, mettendo tutto tra virgolette”, ma che non tolgono alcun peso alle critiche: “Però quando dicono che bisogna guardarsi dal clericalismo, mi sento prete. Quando dicono che bisogna guardarsi dalla prigonia della tradizione, mi sento tradizionalista. […] Penso che alla fine si debbano guidare gli allievi in un’ora di religione […] che gli si debba spiegare, proprio spiegare, docere, addomesticandone lo spirito anarchico originario, che cosa sono i dogmi, se possano evolvere nel tempo e in che misura”.

 

Tutto questo è necessario, secondo Ferrara, perché “una educazione bella, liberatrice, bergogliana, una formazione informale che punti al sapore facile e consentaneo col mondo della cultura corrente fa riscontro a una resa, qualcosa che lascerà in bocca agli adolescenti un bel ricordo di un bravo professore di religione […] e l’idea di una chiesa svolazzante, versatile, moderna, compatibile, ma sostanzialmente inutile e incapace di contraddirli con esperienza e sapere in ciò che non sanno e non potranno mai veramente conoscere, che è molto”. Nella sua critica Giuliano Ferrara coglie molte verità, analizza con precisione molti degli aspetti del metodo educativo del “bravo professore di religione” ma li rifiuta, perché gli “puzzano” di resa, questo è il punto: la chiesa di Bergoglio, delle cui “divisioni” faccio parte anch’io, soldato semplice con il ruolo di professore di religione, è una chiesa che si arrende al mondo, che non ha il coraggio di contraddire il mondo, tantomeno il mondo giovanile.

 

 

Sono critiche importanti e interessanti, che non potevo omettere (non solo per rispondere a un amico) in conclusione della mia riflessione su come parlare di Dio alle nuove generazioni. Il punto che mi sembra cruciale è questa idea della “resa” che secondo Ferrara la chiesa sta realizzando da cinque anni a questa parte. Ci si arrende, immagino, a un assedio. La chiesa ultima roccaforte della civiltà (occidentale) che sta crollando sotto i colpi degli assedianti, non meglio identificati (forse divisi in due fronti opposti ma convergenti: il laicismo dell’Europa e il fondamentalismo fuori dall’Europa). Può essere molto diffusa questa idea che la chiesa si stia arrendendo senza più sapersi difendere, ma non mi trova d’accordo. La chiesa secondo me attacca, non difende.

 

Spesso viene citata l’espressione del Vangelo di Matteo: Non praevalebunt: le porte degli inferi non prevarranno, a indicare la strenua difesa della chiesa, nella storia del mondo, contro le forze del Male. Ma anche per ragioni “linguistiche” il senso dell’espressione deve essere spiegato con maggiore precisione e quindi ribaltato. Mi ci ha fatto riflettere don Fabio Rosini, sacerdote romano diventato famoso per le sue catechesi sui dieci comandamenti: le porte, in quanto porte, non possono “prevalere” su qualcos’altro, se non nel senso proprio del verbo latino “prevalere” che in questo caso deve essere tradotto con “resistere”, quindi: è la chiesa che attacca e le porte degli inferi non possono che crollare perché “non resisteranno”.

 

Come ho cercato di spiegare nei capitoli precedenti, in questa battaglia anch’io, soldato semplice, faccio il mio compito nella trincea quotidiana della scuola pubblica italiana e cerco di realizzare ogni giorno il mio “assalto a sorpresa” secondo la lezione di Chesterton, con l’intenzione di scuotere, turbare, mettere in crisi la resistenza dei miei ascoltatori, una resistenza fatta di pigrizie, passività, schemi mentali, luoghi comuni (sul mondo, sulla chiesa e su Dio) che devono essere demoliti, sperando che “non praevalebunt”.

 

Da questo punto di vista io, Ferrara e Papa Francesco la pensiamo nella stessa maniera: il mondo è in guerra. Non è un caso che la prima immagine che Bergoglio ha coniato per presentare la cheisa è stata quella dell’ospedale da campo. È un’immagine potente che ha la sua radice esplicita senza dubbio in sant’Ignazio di Loyola ma con un ulteriore “tocco” che proviene da Dostoevskij, scrittore fondamentale per la formazione di Bergoglio, che fa dire a Dimitrij ne I fratelli Karamazov che “È il diavolo a lottare con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini”. La guerra è quindi interna, interiore, e non è tra la chiesa e il mondo, ma tra Dio e il diavolo, quel diavolo che sin dai primissimi giorni, accompagna costantemente i discorsi pubblici di Papa Francesco.

 

Confesso che non parlo spesso del diavolo nelle mie lezioni, del diavolo io ho molta paura e non amo parlarne anche se spesso i ragazzi mi chiedono di affrontare temi come l’esorcismo, il satanismo… tutto questo a fronte di una diffusa incredulità rispetto all’esistenza stessa di Satana. Anche la curiosità deve essere sottoposta a un rigoroso discernimento, da qui la mia cautela ad accontentare le richieste dei miei studenti . Diavolo a parte (ma in realtà la sua “parte” è molto importante come abbiamo visto), l’idea fondamentale di tutto questo discorso che è l’educazione, che forse sfugge a Ferrara, è la libertà.

 

Da questo punto di vista, la lettura di Dostoevskij è obbligatoria, è lui il cantore del dramma della libertà (un testo fra i tanti: La leggenda del grande inquisitore, sempre all’interno dei Karamazov) e quindi io prendo come complimenti gli aggettivi “liberale, liberatrice” usati da Ferrara come randello contro lo stile educativo che cerco di avere quotidianamente nella mia “trincea”. Alla fine penso che la questione centrale è lo stile. Non esiste un insegnamento “cristiano” ma un modo cristiano di insegnare. Io cerco di assumerlo, questo modo, partendo essenzialmente da un primo, elementare, punto di partenza: io credo in Dio, o almeno mi sforzo di credere. So quindi che Dio mi ha creato e ha anche creato “quelle creature anarchiche” che mi trovo davanti tutti i giorni, che magari mi guardano con ostilità o peggio con indifferenza; e so anche che, come me, questi giovani hanno un destino eterno, con Dio che li chiama e li attende, o senza Dio (è questo il dramma della libertà).

 

La scena, già drammatica, si complica ulteriormente appunto perché c’è anche il diavolo in campo e il primo effetto della sua presenza è il peccato originale, uno di quei dogmi che, non so perché, Ferrara sospetta io non voglia insegnare ai miei studenti. Da quel dogma ne discende una conseguenza psicologica e cioè che io credo in Dio e non tanto in me stesso, proprio a causa della mia natura decaduta. Quando affermo che non bisogna credere tanto in se stessi, vedo gli sguardi increduli, scandalizzati, dei miei studenti. Del resto, tutti i messaggi che li bombardano ogni giorno soffiano nell’unica direzione del “dogma” oggi vigente: credi in te stesso (Ferrara può stare tranquillo: il cristiano prima o poi sarà sempre segno di contraddizione).

 

Se credo in Dio, allora mi affido a lui e alla sua opera, più che alla mia. Non credo, infatti, alla mia intelligenza, so di non essere capace di “creare” il cristiano perfetto, che peraltro non esiste. Il mio lavoro, come ho cercato di spiegare nelle pagine precedenti, è soprattutto “demolitivo”, teso a incrinare tutte le certezze oggi in circolazione e sulle quali la società si aggrappa, a partire dalla certezza che l’uomo deve assolutamente avere delle certezze. Contro questa che è l’ideologia del tempo presente, e l’idolatria dei tempi antichi, il mio attacco a sorpresa è intenso e quotidiano: ogni certezza è una falsa certezza. Come chi ha certezze è un falso profeta.

 

In questo mio lavoro ho trovato molto conforto nelle seguenti parole di Papa Francesco: “Sì, in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione spirituale”.

 


 

Pubblichiamo un estratto di “Raccontare Dio oggi”, il libro di Andrea Monda edito da Città Nuova (116 pp., 16 euro)

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