Antonio Spadaro, gesuita, nato a Messina nel 1966. Teologo, "Cybertech. Pensare il cristianesimo al tempo della rete", pubblicato per Vita e Pensiero, è il suo ultimo libro (Foto Imagoeconomica)

Scrive, legge, twitta. Chi è Antonio Spadaro, l'uomo che sussurra al Papa

Marianna Rizzini

Ritratto del direttore della Civiltà Cattolica, consigliere ufficioso del Pontefice, tra supposizioni, verità, vanità, web e politica. Amico di Scorsese. Interprete e suggeritore della linea post Ratzinger

È uno degli uomini più vanitosi del mondo (non che non abbia di cui vantarsi). O almeno questo suggerisce l’intensissima attività social: scrive, legge, viaggia, twitta, si affaccia su Instagram con albe e foto (sue e di Papa Francesco, con e senza Papa Francesco). Non vive nascostamente, anzi: commenta, interviene, sottolinea e ritwitta, anche in qualità di pioniere della cosiddetta (parole sue) “cyberteologia”. E gira, va, vede gente (ma non nel senso di Nanni Moretti). Soprattutto, anche se senza cariche ufficiali, ricopre il ruolo informale di consigliere del pontefice, gesuita come lui. Di nome fa Antonio Spadaro. Di mestiere fa il direttore dell’antica rivista gesuita Civiltà Cattolica – talmente antica, con più di 150 anni di vita, e talmente al centro delle attenzioni vaticane, da essere vistata, in fase di bozza, dalla Segreteria di Stato.

 

Difficile dire, per i profani e forse anche a volte per i non profani, che cosa (chi) sia esattamente un gesuita ai tempi del Papa gesuita Francesco, anzi che cosa sia ai tempi di Francesco un “gesuita perfetto”, come da titolo del libro scritto nel 1960 da Furio Monicelli in cui però il protagonista, da novizio che è, gesuita lo diventa soltanto a prezzo di un grande tormento (l’autore invece il noviziato lo abbandona presto).

 

E, nel contesto del pontificato di un Papa gesuita sudamericano mediatico e politico nel senso più ampio e meno ampio del termine – un Papa che parla dall’aereo, vive a Santa Marta, ama Dostoevskij, sta nel mondo, dice “chi sono io per giudicare?”, definisce la chiesa un “ospedale da campo” (proprio in un colloquio con Spadaro) e poi dialoga con Eugenio Scalfari – è ancora più difficile richiamare alla mente le pur sudamericane gesta dei gesuiti drammatici e settecenteschi del film “Mission” di Roland Joffé, quello con Jeremy Irons e Robert De Niro che scalano le cascate dell’Iguazú e, da missionari combattenti (uno dei quali in penitenza dopo un fatto di sangue), si inoltrano nella foresta e difendono tribù e terre indigene dalla brama coloniale. Né ci si può con spericolatezza affidare a Honoré de Balzac, che nel 1825, sotto pseudonimo, scrisse una “Storia imparziale dei gesuiti” che imparziale non era (giudizio del biografo di Balzac Pierre Sipriot, riportato anni fa da Nicoletta Tiliacos su questo giornale: il fatto che Balzac avesse frequentazioni liberali non gli impediva di pensare che, “sotto l’influenza dei gesuiti”, la Francia potesse trovare il modello di una “cooperazione armoniosamente ripartita… l’Ordine di Ignazio è una vera repubblica con le sue leggi, i suoi capi, i suoi amministratori, il suo sigillo, la sua polizia, il suo governo, infine simile a un vascello galleggiante liberamente sui mari…”).

Esperto di letteratura americana, ha intervistato Francesco nei giorni in cui Francesco parlava con Scalfari

 

Sia come sia, Balzac, nel pamphlet scritto sotto falso nome, difende la Compagnia di Gesù: “Come si può supporre”, scrive, “che la Compagnia formata da Ignazio di Loyola coll’intento di procurare benefici a tutte le nazioni indistintamente e con l’ordine di conformarsi ovunque ai costumi, alle leggi, alle usanze vigenti – la Compagnia che istruiva la Cina sotto il mantello del mandarino – sarebbe nemica al governo della costituzione, incompatibile con la libertà…?”. Non la difende invece James Joyce (anzi): nel quinto capitolo del “Ritratto dell’artista da giovane”, così parla di un gesuita tipico: “…Come Ignazio, era zoppo, ma nei suoi occhi non ardeva nessuna scintilla dell’entusiasmo di Ignazio. Persino la leggendaria astuzia della compagnia, un’astuzia più sottile e segreta dei suoi favolosi volumi di segreta e sottile sapienza, non gli aveva infiammato l’anima di energia apostolica. Sembrava che si servisse dei ripieghi, dell’esperienza e della scaltrezza del mondo come gli era stato ordinato, per la maggiore gloria di Dio, senza gioia nel trattarli oppure odio per quanto in essi ci fosse di male, ma ritorcendoli con un gesto fermo di ubbidienza…era similiteratque senis baculus, come il fondatore avrebbe potuto volerlo, simile al bastone nella mano di un vecchio, da appoggiarcisi per la strada di notte o nel maltempo, da lasciare con il mazzolino di una signora sul sedile di un giardino, da brandire minacciosamente…”.

 

E se Balzac si riferiva al “conformarsi” e all’azione gesuitica sotto i mandarini, è di nuovo la Cina che spunta oggi, ma non quella imperiale. Siamo nel quadro del problema “nomina dei vescovi”, argomento che padre Spadaro, dopo la firma dell’Accordo provvisorio tra Santa Sede e Cina, nel settembre scorso, ha salutato con aplomb e lieve sorriso, in tv (Vatican News), come un segno “di speranza e di pace”, ma che, qualora venga tirato fuori ex abrupto durante un convegno o una presentazione di libro, può suscitare nello stesso Spadaro, così si narra, reazioni in linea con il suo carattere gesuiticamente spigoloso. E per i suoi estimatori questo è un pregio.

 

Come dice dagli Stati Uniti l’amico Antonio Monda, “Spadaro non ha soltanto una grande apertura mentale e una curiosità intellettuale non comune, è anche un vero buono – mai buonista”. E’ amico anche di Martin Scorsese, Spadaro, e con il regista si incontra per interminabili caffè – come fosse di famiglia – ogni volta che va a New York, così come partecipa volentieri – come fosse di famiglia – alle tombolate natalizie delle conoscenze di vecchia data a Roma. E, racconta Monda, “non è capace di mentire. Come diceva Marcel Proust, i veri santi sono come i medici, devono dirti la verità, e Spadaro te la dice. Ed è questa la sua grandezza d’animo”. Capita dunque che Spadaro non nasconda il suo pensiero a proposito delle critiche al Papa provenienti dalla Cina. Si immagina dunque che non lo facciano impazzire commenti simili a quello del cardinale Joseph Zen, sull’edizione internazionale del New York Times: “… Se fossi un fumettista disegnerei il Santo Padre in ginocchio mentre consegna le chiavi del Regno dei cieli al presidente Xi Jinping e dice: ‘Per favore, riconoscimi come il Papa’”.

Il carattere gesuiticamente “spigoloso”. Gli scritti modernisti su hacker e fede, quelli antipopulisti contro Trump (e Salvini) 

 

Fuori dall’ufficiosa attività di consigliere del Papa, Spadaro è ufficialmente esperto di letteratura americana, da Flannery O’Connor a Raymond Carver, come testimoniano gli scritti dei suoi esordi e l’impegno tuttora profuso all’interno di “Bombacarta”, luogo di riflessione, think tank e sito internet nato come un laboratorio di scrittura creativa e scambio spontaneo di visioni a partire da uno o più testi portati dai collaboratori (che si vedono un sabato al mese). Spadaro da vent’anni partecipa agli incontri, da quando, a fine anni Novanta, un altro Monda lo coinvolse nel progetto: trattavasi di Andrea, allora professore di liceo, scrittore e saggista e oggi neodirettore dell’Osservatore Romano prima diretto dal Gian Maria Vian, storico della chiesa, filologo e biblista (il cambio di direzione, avvenuto un mese fa, pare sia ancora oggetto di osservazione e dibattito tra antibergogliani e bergogliani e anche tra profani curiosi, ché, negli ultimi tempi, ogni volta che qualcosa nei media vaticani si muove, c’è sempre qualcuno che ci vede dietro uno Spadaro in qualche modo “influencer”. Dopodiché tutti, in Vaticano e fuori, concordano nel tributare grande stima al direttore attuale e a quello emerito, tirati in mezzo ai discorsi tra fazioni loro malgrado, e tutti commentano: “E’ fisiologico”, “succede ovunque che cambino i vertici della carta stampata” – figurarsi se è il Papa in persona a decidere. Tuttavia non è ancora comparsa in gerenza, sull’Osservatore, la menzione di Vian come direttore onorario).

 

Al momento dell’ingresso in “Bombacarta”, Spadaro era un giovane conferenziere e professore al liceo (gesuitico) Massimo, quello dove hanno studiato, tra gli altri, Mario Draghi, Luigi Abete e Luca Cordero di Montezemolo. E “Bombacarta” si chiama così anche per via di Spadaro: gli era infatti venuta l’idea di chiedere ai suoi studenti di lasciare anonimi racconti o poesie in un armadietto, da cui periodicamente estraeva così tanta carta da essere soprannominato scherzosamente “bombarolo”. Sorte vuole, tra l’altro, che anche Papa Bergoglio avesse il pallino dei laboratori letterari creativi per novizi: pare che tanti e tanti anni fa, in Argentina, a un certo punto avesse chiamato addirittura “un certo Borges” (Jorge Luis, il poeta) a dare una mano per gli esercizi di scrittura. Fatto sta che, a inizio anni Duemila, il giovane Spadaro si addentrava in territori fino ad allora presidiati da critici di sinistra e partecipava a informali dibattiti per brevità chiamati, anche per via della libertà di contrapposizione tra argomenti, “Tolkien contro Kerouac”. A “Bombacarta” oggi dicono: “Non aveva e non ha paura del conflitto, anzi”. E quella vita da studioso, dicono gli amici, era la vita che gli piaceva (non che quella di oggi non gli piaccia). Viaggi del Papa permettendo, Spadaro, anche esperto di Bruce Springsteen, volentieri ascolta musica nel suo studio, arredato con mobilia bianca e moderna in mezzo ad antiche sedie lignee.

 

Gli esordi a “Bombacarta”, gli anni da professore al liceo Massimo, la nomea di “influencer”, le nomine mediatiche vaticane

Che avesse ragione Balzac o Joyce, conviene intanto spostarsi sulle parole pronunciate o scritte da Spadaro in persona, per cercare di capire qualcosa dell’uomo che dice cose che anche il Papa direbbe (e viceversa), e non dice mai, assicura chiunque lo conosca, qualcosa che esuli dal profilo e dalla natura del “gesuita perfetto”, inteso in senso moderno, a partire dall’espressione del concetto, caro a Francesco e a Spadaro, di “globalizzazione poliedrica” e non “sferica”, ma anche in senso modernista: vedi la passione di Spadaro per il web, talmente radicata da avergli ispirato un sito internet e un libro (“Cyberteologia-pensare il Cristianesimo al tempo della rete”, edizioni Vita e Pensiero), oltre a innumerevoli saggi su fede e tecnologia e a un articolo sugli hacker che ha sbalordito non poco, lì per lì, il borghese vaticano, ché si sosteneva che tra hacker e cattolici c’erano punti possibili di dialogo e una base speculativa comune.

 

Intervistato da Wired, Spadaro diceva infatti che “leggendo il classico di Pekka Himanen ‘L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione’”, aveva notato “ragionamenti ispirati dalla lettura di Padri della Chiesa come sant’Agostino e san Giustino, da Dante o da precisi riferimenti al Libro della Genesi: tutta una serie di questioni che si possono ricondurre alla domanda sul significato della vita. Così mi sono reso conto che la filosofia di vita hacker era anche teologicamente connotata. E la conferma l’ho avuta da Tom Pittman, uno dei primi filosofi hacker, che si definisce ‘a Christian and a technologist’, e da Larry Wall, che ha creato il linguaggio di programmazione ‘Perl’ che collega la sua azione creativa alla sua fede di cristiano evangelico. Tutto questo mi ha portato a concludere che quel mondo e il cristianesimo avessero davvero qualcosa da dirsi, temi seri su cui confrontarsi…”.

 


Gli piace Instagram. Commenta, gira, va, vede gente (ma non nel senso di Nanni Moretti). Dice le cose che anche Bergoglio direbbe (e viceversa)


 

Oggi, nel mondo gialloverde dove il web assume sembianze mostruose (vedi le casaleggiane profezie sulla fine del mondo, fine degli uomini, fine del lavoro), c’è chi si domanda che cosa ci faccia un padre gesuita così assiduamente sui social network, ma basta scorrere il profilo Twitter di Spadaro per uscire dallo straniamento: partendo dalla fine, c’è Spadaro che twitta sui migranti e sulla diplomazia multilaterale, e ritwitta link a un suo articolo sugli orchi, uscito su Famiglia Cristiana con un incipit che fa strabuzzare gli occhi a chi non si aspetti la presa di posizione che i profani definirebbero antipopulista e antisovranista: “Da bambino credevo che due anziani vedovi che abitavano in case vicine alla mia fossero orchi”, scrive, “uno era ‘l’orco buono’ e l’altro era ‘l’orco cattivo’.

 

L’accordo Vaticano-Cina. L’articolo sulla “paura dell’orco cattivo come strategia per il successo e il consenso”

Sull’orco cattivo ero libero di proiettare tutte le mie paure e i miei fantasmi infantili. L’altro invece era il capitano delle mie sicurezze e dell’ordine nel mio piccolo mondo. La paura dell’orco cattivo è divenuta oggi una strategia per il successo e il consenso. Il cittadino che ha paura è facile preda di chi gli si presenta come il capitano dell’ordine… si innalzano i toni della conflittualità, si esagera il disordine, si agitano gli animi della gente con la proiezione di scenari inquietanti… e questo basta per creare il caos, che dunque richiede un ‘orco buono’ per essere domato… Chi sarà in grado di far capire che la sicurezza è l’esatto opposto della ossessione securitaria? Chi riuscirà ad aprire gli occhi di chi davvero si illude che solo conducendo i richiedenti asilo nel buco nero della clandestinità le nostre strade saranno davvero più sicure?”. Vallo a dire a Salvini, ma intanto Spadaro ha già detto ai rappresentanti degli enti locali: “Comprendiamo bene la reazione di alcuni sindaci italiani: la speranza ha bisogno di concretezza e di gestione della realtà, non di fantasmi”.

 

D’altronde Repubblica, due giorni fa, ha notato che “la chiesa ha cambiato rotta”, e non è più “neutrale” col governo: “Basta leggere che cosa scrive Antonio Spadaro, il direttore della Civiltà Cattolica, nell’ultimo numero della sua rivista”, scrive Claudio Tito: “Instillare la paura del caos è divenuta una strategia per il successo politico”, ma sui flussi migratori “occorre non tradire mai i valori di fondo dell’umanità”. E, sempre su Repubblica, giovedì scorso, si dava conto del prossimo inizio del summit convocato da Papa Francesco sugli abusi e sulla prevenzione degli stessi. Si puntava lo sguardo sulla presa di posizione gesuitica americana (“i gesuiti Usa rompono l’omertà… pubblicati gli elenchi dei religiosi sui quali pendono accuse di reato davanti ai tribunali”) e si ricordava che Francesco, per guidare le future sessioni plenarie del summit suddetto, ha nominato padre Federico Lombardi, colui che dirigeva la sala stampa vaticana proprio nei giorni del 2010 in cui, scrive Rep., “i primi casi di insabbiamento uscirono”.

  

 

Padre Antonio Spadaro alla presentazione del libro di Paolo Gentiloni, "La Sfida Impopulista". Da sinistra: Maria Latella, Walter Veltroni, Paolo Gentiloni, Paolo Mieli e Antonio Spadaro. 


Quando si aggirava con montagne di scartoffie creative degli studenti, quando lancia la linea in “sette parole” per il 2019

Tutto chiaro, dunque, buoni di qui, cattivi di là? Dipende (e soprattutto: con juicio, per dirla con Alessandro Manzoni). Qualche giorno prima, infatti, quando Peter Steinfels, ex direttore della rivista americana Commonweal, ha pubblicato un articolo in cui si faceva a pezzi il rapporto del Gran Giurì della Pennsylvania sugli abusi sui minori in sette diocesi dello Stato, Spadaro rilanciava la notizia su Twitter (“La rivista Usa @commonwealmag fa una radiografia del rapporto pubblicato ad agosto dal Gran Giurì della Pennsylvania in merito agli #abusi concludendo che il documento è in parte ‘grossolanamente fuorviante, irresponsabile, inaccurato e ingiusto’). E a quel punto, tra gli osservatori, qualcuno ipotizzava un volersi mettere gesuiticamente per un attimo anche nell’ottica di chi, sul tema, esige un sovrappiù di cautela e garantismo. E però poi sempre Spadaro, su Twitter, ricorda ai lettori l’imminente summit sugli abusi, e promette su Civiltà Cattolica nuovi contributi.

 

E insomma il tema, che all’inizio del pontificato di Francesco non era tra i primissimi in lista, è balzato in cima all’agenda anche per opportunità politica, per così dire, ché alcuni membri del consiglio di otto cardinali istituito da Francesco nel 2013, hanno avuto qualche problema a riguardo, vuoi per le accuse di “omertà” rispetto al clero sospettato di abusi in Cile (vedi il cardinale Francisco Javier Errázuriz Ossa) vuoi per i sospetti sul cardinale George Pell, sotto processo in Australia, vuoi per le voci che pendevano, tempo fa, sulla testa del vescovo Juan José Pineda, collaboratore del cardinale honduregno Oscar Andrés Rodriguez Maradiaga, coordinatore del gruppo.

 

La prima persona dello Spadaro cronista nel primo colloquio in cui il Papa scelse a “modello” un prete pellegrino scalzo

Flashback, a monte del pontificato di Francesco: c’è il giovane critico e gesuita Spadaro che scrive saggi letterari come altri “scrittori” della Civiltà Cattolica, così si chiamano tra loro e così li chiamano (mai redattori). E c’è il giovane Spadaro che percorre le strade d’America sulla scia della sua autrice d’elezione Flannery O’Connor, nel sud profondo di cui poi, in tempi più recenti, con Francesco già Papa, parlerà in una lunga intervista con Martin Scorsese, pubblicata su Civiltà Cattolica dopo l’uscita del film “Silence”. “Sono stato nella farm (della O’Connor,ndr) a Milledgeville tre volte per entrare dentro le sue storie.

 

Lei ha sempre visto la grazia nel ‘territorio del diavolo’”, diceva Spadaro a Scorsese a proposito della scrittrice. Ma, dopo l’ascesa di Francesco al soglio come primo Papa gesuita, e vista la successiva rivoluzione in usi e costumi della chiesa, tutto accelera e tutto cambia anche nel piccolo mondo gesuita della Civiltà Cattolica: e non solo perché il Papa bianco in un certo senso è anche un Papa nero (come è stato sempre chiamato il “generale” o moderatore supremo dei Gesuiti). Ma anche perché la rivista che, per dirla in termini profani, poteva essere vista, in tempi di Papi non gesuiti, come una sorta di enclave con una sua linea – mutatis mutandis, un Istituto Gramsci rispetto al Pci di Botteghe Oscure – oggi, quasi quasi, viene identificata dai non bergogliani con una specie di Pravda, tanto più che ogni gesuita, di suo, promette obbedienza ufficiale al Papa.

 

La posizione sugli abusi, la passione per Bruce Springsteen, il dualismo cinematografico (e non solo) con mons.  Dario Viganò 

E però non di nouvelle vague mediatica si tratta, ribattono di fronte a simili critiche gli estimatori di Spadaro: è questione, ancora una volta, di perfetto gesuitismo. Fatto sta che un gesuita (Spadaro) ha intervistato “il” gesuita (il Papa) nell’estate del 2013: era la lunga intervista su Civiltà Cattolica che ha segnato l’inizio dell’ufficiosa collaborazione, curiosamente quasi coeva al primo colloquio di Papa Francesco con Eugenio Scalfari, fondatore di Rep., colloquio poi “liberamente” interpretato e virgolettato, per sua ammissione, dallo stesso Scalfari. È in quell’intervista con Spadaro che si intravede in nuce il programma (religioso o politico a seconda dell’occhio del lettore). Intanto, nell’incipit, c’è l’occhio dello Spadaro cronista: il Papa, scrive, “si siede su una sedia più alta e rigida a causa dei suoi problemi alla schiena. L’ambiente è semplice, austero. Lo spazio di lavoro della scrivania è piccolo. Sono colpito dalla essenzialità non solamente degli arredi, ma anche delle cose”. Ecco la prima persona, quella usata anche nell’intervista a Scorsese: “Il 3 marzo 2016 ho suonato il campanello a casa Scorsese a New York: una giornata fredda, ma luminosa. Erano le 13. Vengo accolto in cucina, come in famiglia. La persona che mi fa entrare mi chiede se voglio un buon caffè. ‘Italiano’, precisa. Accetto. Infreddolito…

 

Ad accogliermi in soggiorno è la moglie di Martin, Helen. Ho una forte sensazione di casa… Siamo seduti sullo stesso divano. Mi dice del marito, della figlia diciassettenne, del film. Capisco che ‘Silence’ è in qualche modo un lavoro familiare, nel senso che ha coinvolto tutta la famiglia…”. Spadaro, in quell’occasione, trova tra Scorsese e il Papa incredibili comunanze di gusti: a entrambi piace Dostoevskij, e per entrambi il miglior libro di Dostoevskij è “Memorie del sottosuolo”. (Digressione: la prima persona è usata anche negli scritti di monsignor Dario Viganò, dimessosi tempo fa dalla carica di prefetto della Segreteria per le comunicazioni dopo il dramma mediatico scoppiato in seguito alla pubblicazione – si sospettava parziale – di una lettera “personale e riservata” che il Papa emerito Benedetto XVI gli aveva inviato. Suggestione vaticana vuole che, come in una sorta di dualismo/rivalità mimetica, il non gesuita Viganò abbia in comune con il gesuita Spadaro l’amore per il cinema, e l’amicizia con un grande regista: Wim Wenders, autore di un documentario sul Papa di cui Viganò ha raccontato il “dietro le quinte”: “… In molti mi hanno chiesto perché abbia pensato a Wim Wenders per dirigere questo film ‘con’ e ‘su’ Papa Francesco…la risposta, semplicemente, è legata agli ‘angeli’. Ho conosciuto il cinema di Wenders – e la sua poetica visiva – da giovane, in seminario, e sono rimasto folgorato dagli angeli de ‘Il cielo sopra Berlino’… così lontani dal cascame devozionale, marcati dalla poesia di Dante e di Rilke…”.

 

Intanto però i temi dell’intervista del 2013 di Spadaro al Papa hanno tracciato la linea: la suddetta “chiesa come ospedale da campo”, il “cercare e trovare Dio in tutte le cose”, e l’individuazione del “modello”: Pietro Favre, “prete riformato” (e non a caso canonizzato da Francesco all’inizio del suo pontificato). Favre: cioè uno dei primi compagni di sant’Ignazio, pellegrino scalzo e studioso di mistica. Mistico, non asceta, diceva infatti il Papa a Spadaro, raccontando di “arrabbiarsi molto” a sentir dire “che gli esercizi spirituali sono ignaziani solamente perché sono fatti in silenzio… in realtà possono essere fatti anche nella vita corrente e senza il silenzio”.

  

Quando parla del Dostoevskij che piace a Scorsese e al Papa (stesso libro) e quando segnala il rischio “Gattopardo”

E se l’intervista del 2013 in sé fa programma, e se questo programma pare indifferentemente calzare alla visione di Papa Francesco e a quella di Spadaro (a volte precursore, a volte interprete, a volte informale spin doctor e ambasciatore ex post presso le platee internettiane e cartacee), la canonizzazione di Pietro Favre, dicono gli esegeti delle azioni bergogliane, è il primo indizio del cambio di marcia. Da lì discende praticamente tutto, doppio sinodo sulla famiglia compreso, fino a quel “la chiesa aiuti i divorziati” che ha riscosso consensi presso piazze laiche e laicissime, e giù giù fino a oggi: l’annunciato sinodo ecologico sull’Amazzonia.

 

E si arriva, sempre oggi, a un “programma 2019” che discende direttamente dalla penna di Spadaro. Il “gesuita perfetto”, infatti, ha aperto l’anno, su Civiltà Cattolica, con uno scritto intitolato “le sette parole per tornare a essere popolari”: paura, ordine, migrazioni, popolo, democrazia, partecipazione, lavoro. La riflessione deve partire da quei sette punti, scrive. E da posizioni nette, com’è parsa quella espressa da Spadaro (a quattro mani con Marcelo Figueroa, direttore dell’edizione argentina dell’Osservatore Romano) in un articolo “sull’ecumenismo dell’odio” in cui si mettono in guardia i cattolici dai rischi del cattolicesimo integralista nell’America di Donald Trump, “presidente che”, scrivono i due, “indirizza la sua lotta contro un’entità collettiva genericamente ampia, quella dei ‘cattivi’ o anche ‘molto cattivi’…”. E insomma, per Spadaro e Figueroa, l’ecumenismo dell’odio non è compatibile con il pontificato di Francesco. E quando l’Osservatore Romano titola “Un’altra strada di migranti al largo della Libia”, Spadaro commenta su Twitter: “Chapeau”.

 

Gesuita perfetto, dunque, che vuol dire? Spadaro così si risponde nell’incipit del pezzo sulle sette parole dell’anno: “In questo tempo di cambiamenti e conflitti che ci sfidano… non possiamo correre il rischio di seguire ciò che leggiamo nel ‘Gattopardo’: ‘Viviamo in una realtà mobile alla quale cerchiamo di adattarci come le alghe si piegano sotto la spinta del mare’”. Bisogna reagire, dice, lui che già da tempo (con il Papa) ha reagito.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.