Papa Francesco (foto LaPresse)

Se la chiesa non cambia il mondo, tanto vale che s'adegui al mondo. Ma funziona?

I dubia nel nuovo libro di Ross Douthat sulla via di Francesco

La premessa “personale” del libro di Ross Douthat su Papa Francesco e la chiesa è che non esistono osservatori neutrali nel racconto di questa epoca a un tempo scintillante e opaca del cattolicesimo. L’autore dichiara dunque in apertura il suo punto di vista di conservatore senza oltranzismi, conseguenza naturale del suo essere un convertito nell’adolescenza, al seguito di una famiglia che si era disaffezionata alla proposta tiepida della chiesa episcopaliana in cui si era formata. Non essendo cresciuto in una fede cristallizzata in usanze e tradizioni ereditate, non è diventato un “cafeteria catholic”, come li chiamava William Buckley, ma allo stesso tempo non ha mai abbracciato lo zelo dottrinario militante che accomuna molti convertiti in età adulta.     

I suoi critici amano inserirlo nella schiera degli arciconservatori, quelli che ora si trovano sul lato perdente della storia, ma l’editorialista del New York Times è piuttosto un ibrido, un esemplare intermedio, uno degli (non molti) opinionisti cattolici americani che s’impuntano nel rifiutare il rigido bipolarismo politico applicato agli affari della chiesa. Se non è una convinta cheerleader di Francesco è per certi dubia di sostanza dottrinaria – vedi alla voce: indissolubilità del matrimonio – non perché ha dismesso le scarpe rosse o non stravede per la messa ad orientem. Certo, quando lancia le sue saettate – ormai codificate – contro i farisei, gli scribi, i clericali, i tradizionalisti, i cristiani adoratori di idoli polverosi, a Douthat sale un moto di simpatia per la legione farisaica, ma non sposa certo le tesi del Francesco antipapa o apocalittico prodromo della distruzione della chiesa.

 

Il libro, in uscita oggi negli Stati Uniti, s’intitola “To Change the Church” e fa il verso a “To Change the World”, il testo in cui il sociologo delle religioni James Davison Hunter sosteneva che questo mondo non si cambia, almeno non con gli strumenti della teologia politica, della guerra culturale, dello scontro frontale con la mentalità del secolo, e dunque l’inane tentativo va abbandonato in nome di una presenza in tenuta mimetica. Il controcanto esposto da Douthat è quello della chiesa che si rimodella, che aderisce alla sagoma del mondo, che accompagna invece di giudicare, che parla di processi e non di dogmi, che cura e non scoraggia, quella insomma rappresentata nell’immagine dell’ospedale da campo, nell’idea del pastore che sente l’odore delle pecore o in una a scelta delle metafore del fecondo repertorio di Francesco. Più che un libro su Francesco – genere battuto in modo asfissiante tanto dai tifosi quanto dai detrattori – è un libro sulla chiesa.

 

Douthat conduce sì il lettore nelle stanze vaticane di oggi, negli atti di governo e nelle preferenze stilistiche di Francesco, nelle pulsioni parascismatiche della chiesa tedesca, nello scacchiere delle influenze, delle nomine e dei sinodi, individuando nelle aperture di Amoris laetitia le questioni più gravi e gravide di conseguenze, ma si sforza di mettere ogni cosa nella prospettiva di una chiesa millenaria che è insieme istituzione mondana e Corpo mistico, nave che imbarca acqua e sposa di Cristo, casa di santi e rifugio di papi “davvero, davvero, davvero pessimi”, come dice lui. Gli occhiali della papolatria e della papafobia non sono adeguati per osservare adeguatamente il fenomeno. Se il libro non fosse già stato dato allora alle stampe, Douthat avrebbe aggiunto una parte sul caso della lettera con cui Benedetto XVI si è rifiutato di scrivere una pagina di endorsement agli undici “volumetti” sulla teologia di Bergoglio – ma alcuni stralci, estrapolati dal contesto, sono stati usati ugualmente in senso elogiativo – episodio che ha portato alle dimissioni di mons. Dario Edoardo Viganò, alle quali il Pontefice ha in qualche misura resistito e che poi ha mitigato invitandolo a collaborare in altre forme. 

    

Douthat lo legge come un episodio esemplare: “L’editing selettivo del suo predecessore – dice al Foglio – è un tema fondamentale di tutto il pontificato di Francesco, e nasce dal desiderio di controbilanciare il pensiero di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E’ la stessa, identica cosa che è stata fatta con Amoris laetitia sulla questione della comunione ai divorziati risposati: si è cercato in tutti i modi di dimostrare che ci fosse perfetta continuità con il magistero dei predecessori, e il risultato è che adesso ognuno interpreta come vuole una questione che tocca la natura sacramentale del matrimonio. Nel caso della lettera l’operazione è stata eseguita in modo molto più goffo e ignobile, ma il tentativo era sempre di dimostrare la continuità, anche laddove le differenze sono evidenti a chiunque. La domanda vera è: Francesco si sente in qualche modo costretto, limitato dalla presenza di Benedetto? Io ovviamente non ho la risposta, ma la foga maldestra con cui i suoi collaboratori hanno cercato di ottenere il suo imprimatur sulla teologia di Francesco non lascia trasparire un grande rispetto per il Papa emerito”.

    

Ma è possibile che il Papa non sappia ciò che fa la persona che ha messo a capo di un dicastero da lui appositamente creato e a cui ha affidato grandi responsabilità? “C’è sempre un entourage, una corte che il Papa non è in grado di controllare, ma io credo che sia un errore assolverlo completamente. Ci sono persone che inequivocabilmente rappresentano l’agenda di Francesco, ad esempio Blase Cupich nella chiesa americana, oppure Antonio Spadaro a Roma. Questo però non significa che il Pontefice sia d’accordo con tutto quello che dicono o con tutte le decisioni che prendono. Il Papa governa anche permettendo. Negli Stati Uniti il gesuita James Martin sta facendo una battaglia per l’apertura ai gay e al matrimonio omosessuale, e credo sia onesto considerarlo un segno del clima nella chiesa, anche se il Papa non ha mai dato segno di essere particolarmente interessato al tema”.

     

Il tema che innerva il libro è il tema che si presenta dai primordi della chiesa, il rapporto con il mondo, declinato nel presente nel senso di un’approvazione, di un abbraccio di riconciliazione desiderato e propiziato. “Francesco direbbe che non vuole essere accettato dal mondo, ma soltanto che cerca di spiegare che la chiesa non è soltanto dogmi e grigia dottrina, un’idea basata sulla premessa che ci sia un popolo là fuori che fa o vorrebbe far parte della chiesa ma chiede un approccio più accogliente. La grande domanda è: è vero che la gente desidera questo? L’impasse in cui il papato si trova ora e la fine dell’inesistente ‘effetto Francesco’ raccontato dai media suggeriscono di no. L’entusiasmo iniziale del mondo secolarizzato per il Papa ci dice un dato importante, cioè che non viviamo in un occidente del tutto post cristiano, ma ho molti dubbi sul fatto che basti dare alle persone un cristianesimo ‘più facile’, che richiede meno fatica e sacrifici, per conquistarle”. La famiglia è il campo di battaglia prescelto dal Papa per il suo rinnovamento, “perché capisce bene che il punto su cui si gioca questa fase della modernità occidentale è la questione affettiva e amorosa.

 

Ed è anche quella in cui c’era più spazio di riforma, come si è visto nei due sinodi e nell’esortazione apostolica che hanno originato. Uno degli aspetti che cerco di mettere in luce nel libro è che questo tentativo, qualunque cosa se ne pensi in termini dottrinari, non funziona, non ha successo, non ha un mercato, anche se sembra che sia così. Anzi, chi oggi si avvicina alla chiesa, soprattutto i giovani, è proprio attratto dalla promessa di una strada in salita che porta a una vita più bella, più autentica, più felice. In questo senso il matrimonio e la famiglia, così come li propone Gesù, sono istituti che resistono alla riduzione terapeutica di un cristianesimo sentimentale à la Oprah”. Douthat osserva che il mondo non celebra più Francesco come all’inizio del pontificato, “anche se è difficile scrollarsi di dosso la prima impressione”, e nota una certa ironia nel fatto che l’intuito populista del Papa latinoamericano non abbia afferrato i sentimenti antisistema che percuotono il demos occidentale, specialmente in relazione al tema dei migranti, su cui il Pontefice ha battuto senza posa. “Questa – conclude Douthat – è la grande occasione persa di questi cinque anni di pontificato: l’incapacità della chiesa di offrire a popoli evidentemente sofferenti, spaventati e arrabbiati un’alternativa credibile alle parole d’ordine populiste. Su molti temi la chiesa dovrebbe offrire idee sensate, non soltanto ribadire che dobbiamo accogliere i migranti”.

Di più su questi argomenti: