Il Papa e il Patriarca di Mosca al termine dell'incontro all'Avana di venerdì scorso (LaPresse)

Piano con la festa, il patto tra il Papa e Kirill non è solo miele e sorrisi

Matteo Matzuzzi
"Non credo che la Dichiarazione congiunta dell’Avana avrà conseguenze davvero tangibili”, dice al Foglio Andriy Chirovsky, protopresbitero mitrato, fondatore e primo direttore dell’Istituto di studi cristiani orientali alla Facoltà di Teologia della St. Paul University, a Ottawa (Canada).

Roma. L’importanza storica della Dichiarazione congiunta firmata venerdì all’aeroporto dell’Avana da Francesco e Kirill sotto lo sguardo d’un Raúl Castro in veste notarile, sta anche nel fatto che vengono indicati con chiarezza anche i macigni che impediscono il pieno ristabilimento della comunione tra Roma e Mosca. E la cima più irta da scalare si chiama Ucraina. Il Patriarcato russo accusa i cattolici di fare proselitismo in diocesi ortodosse e lo stesso metropolita Hilarion – tra i grandi tessitori del negoziato riservato che ha portato al vis-a-vis in terra caraibica – annunciando lo storico incontro tra il Pontefice e il Patriarca, ricordava che il problema degli uniati (i cristiani d’oriente fedeli al Papa) resta insoluto – “Oggi è chiaro che il metodo dell’uniatismo del passato, inteso come unione di una comunità all’altra, staccandola dalla sua chiesa, non è un modo che permette di ristabilire l’unità”, recita il paragrafo numero 25 del documento. Anche per questo il vaticanista del Boston Globe, John Allen, invita alla cautela nell’interpretazione dell’abbraccio tra la Prima e la Terza Roma. Cautela necessaria soprattutto “per le motivazioni di Mosca”, che “portano ad avere seri dubbi” sull’agreement siglato davanti ai fotografi che affollavano l’austera saletta dello scalo José Martí. E’ una questione politica, scrive Allen: basta considerare il legame che intercorre tra Kirill e Vladimir Putin (che non è così stretto come potrebbe sembrare limitandosi a leggere le parole del Patriarca in appoggio all’operazione militare in Siria) e ricordarsi di quanto vorrebbero, al Cremlino, che i cinque milioni di cattolici ucraini acquietassero le proteste filo occidentali e anti russe. Se poi si considera che il testo dà spazio a parecchi argomenti fondamentali nell’agenda moscovita (la battaglia sui valori e la famiglia tradizionale, per citarne due) senza concedere neppure un momento di preghiera comune tra il vescovo di Roma e quello di Mosca – “gli ortodossi hanno sottolineato che Kirill non ha pregato con Francesco, sapendo che molti nel proprio gregge vedrebbero un tale gesto come quasi eretico”, osserva il vaticanista americano – si capisce quanto possano essere soddisfatti in oriente. “Da un punto di vista politico, Kirill ha ottenuto molto di più di Francesco, venerdì”, scrive ancora Allen: il Patriarca, “spesso accusato di avere a che fare con ricchezza e potere, è apparso a fianco del popolare ‘Papa dei poveri’. E’ considerato – prosegue il vaticanista – anche come il cappellano delle ambizioni imperiali della Russia, eppure eccolo lì a braccetto con il ‘Papa della pace’”.

 

Anche per questo, “non credo che la Dichiarazione congiunta dell’Avana avrà conseguenze davvero tangibili”, dice al Foglio Andriy Chirovsky, protopresbitero mitrato, fondatore e primo direttore dell’Istituto di studi cristiani orientali alla Facoltà di Teologia della St. Paul University, a Ottawa (Canada). Da tenere in considerazione, in particolare, le dichiarazioni di Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore di Kiev, che ha invitato a “non fare drammi” e a “non esagerare l’importanza” della Dichiarazione congiunta “nella vita della chiesa”. “Conoscendo Papa Francesco abbastanza bene – osserva Chirovsky – Shevchuk ha enfatizzato la dimensione spirituale dell’incontro. Per il Pontefice, gli incontri personali sono più rilevanti dei documenti. Nelle sue riunioni con le conferenze episcopali nazionali, ha l’abitudine di ignorare i testi preparati dalla curia e si mette a converesare con i vescovi, mostrando loro il suo personale sostegno e ascoltandoli. Credo che la stessa cosa sia accaduta a Cuba. La chiesa ortodossa russa aveva bisogno di un documento, di certe frasi che avrebbe potuto usare per i propri scopi. I funzionari del Pontificio consiglio per l’univtà dei cristiani, d’altra parte, avevano la medesima necessità, così da poter accertare i progressi conseguiti nel processo (davvero lento) di riconciliazione tra ortodossi e cattolici”.

 

[**Video_box_2**]L’arcivescovo di Kiev sa, poi, “che i documenti ecumenici generano molta attenzione da parte della stampa e tante speranze, ma poi sono relegate negli scaffali a raccogliere la polvere”, chiosa il nostro interlocutore. Shevchuk aveva già criticato l’atteggiamento della Santa Sede nei confronti della questione ucraina: “E’ sbagliato parlare di guerra fratricida”, aveva detto intervenendo un anno fa alla Radio Vaticana, perché così “si ferisce la sensibilità degli ucraini”. Espressione che, però, era stata usata proprio dal Papa. Commentando l’incontro dell’Avana sul sito internet della chiesa greco-cattolica ucraina, l’arcivescovo – che, dice Chirovsky, “non solo riconosce il dolore del suo popolo, ma anche soffre con esso” – ricavava l’impressione “che esistano due mondi paralleli; non so se queste due realtà si siano intersecate durante questo incontro, ma secondo le regole matematiche due rette parallele non si intersecano mai”.

 

 

 

 

 

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.