Una funzione religiosa solenne con il Patriarca Kirill a Mosca. Restano aperte le questioni che hanno lacerato la cristianità per dieci secoli

La terza Roma

Matteo Matzuzzi
Calma, fanno notare gli acuti osservatori di questioni vaticane, quando si mostra entusiasmo per la Dichiarazione congiunta firmata una settimana fa nel regno dei fratelli Castro dal Papa di Roma e dal Patriarca di Mosca.

Calma, fanno notare gli acuti osservatori di questioni vaticane, quando si mostra entusiasmo per la Dichiarazione congiunta firmata una settimana fa nel regno dei fratelli Castro dal Papa di Roma e dal Patriarca di Mosca. Francesco e Kirill, lì “come fratelli”, ha detto subito Bergoglio non appena accomodatosi alla scrivania per la storica firma. Ben più politico è stato il breve intervento del Patriarca, che ha sottolineato quale dovrebbe essere in campo di battaglia comune alle due chiese, primo fra tutti la salvezza del cristianesimo e la lotta a chi vuole l’eliminazione dei cristiani dalle terre che essi hanno da sempre abitato. Del venerdì cubano rimarrà l’abbraccio sincero, il testo che reca in calce la doppia firma, l’avvio d’un percorso di dialogo ai massimi livelli che si auspica fruttuoso dopo il tempo millenario delle scomuniche e delle lotte fratricide a colpi di vero o presunto proselitismo.

 

Le questioni aperte che hanno lacerato la cristianità per dieci secoli, però, restano tutte sul tavolo, come è naturale che sia. “Onestamente, il grande problema tra Roma e Mosca è che quest’ultima non concepisce la comunione con Roma, perché non l’ha mai sperimentata”, dice al Foglio padre Andriy Chirovsky, protopresbitero mitrato, fondatore e primo direttore dell’Istituto di studi orientali presso la facoltà di Teologia della Saint Paul University di Ottawa, in Canada. “La chiesa di Kiev, invece, era in comunione con Roma nel Decimo e Undicesimo secolo. Il metropolita Petro Akerovych partecipò al primo Concilio di Lione nel 1245. E poi Isidoro, il metropolita ‘campione’ dell’unità al Concilio di Firenze del 1439, che proprio per questa sua attitudine fu imprigionato dallo zar di Mosca nel 1448. La metropolia di Kiev poté ristabilire la piena e visibile comunione con Roma solo nel 1596. Ma anche dopo il ristabilimento della gerarchia ortodossa e della metropolia ortodossa di Kiev nel 1620 (in opposizione all’Unione di Brest del 1596), il popolo mostrò apprezzamento per i piani dell’allora metropolita Petro Mohyla, che nel 1640 sviluppò i piani per una nuova riconciliazione con Roma”. Chirovsky guarda al passato, come se sfogliasse un atlante storico con tutti gli scontri ben evidenziati sulle pagine: “In ogni parte dell’Ucraina e della Bielorussia occupata dall’impero zarista, la chiesa unita con Roma è stata sistematicamente distrutta e i suoi fedeli convertiti con la forza all’ortodossia russa. Stalin ha seguìto l’esempio e fece lo stesso nel 1946, rendendo la chiesa greco-cattolica ucraina il più vasto ‘corpo’ religioso al mondo messo al bando per il successivo mezzo secolo, fino al 1° dicembre del 1989, quando Mikhail Gorbaciov incontrò Giovanni Paolo II e la messa al bando ebbe termine. Quando ciò accadde, milioni di cattolici greco-ucraini decisero che le loro parrocchie sarebbero state cattoliche, non ortodosse. E questo perché quelle chiese erano state consegnate con la forza al Patriarcato di Mosca da Stalin”. Chiaro, dunque, l’imbarazzo in Russia: “Il patriarcato reclamava la validità dello pseudo Sinodo di Leopoli del 1946 – a cui non partecipò alcun vescovo ucraino cattolico, visto che erano stati tutti arrestati – e la conseguente riunificazione di Kiev con Mosca”. Dietro l’operazione, aggiunge il nostro interlocutore, “c’era la polizia segreta sovietica, in complicità con la chiesa ortodossa russa”. Da parte ucraina, sostiene Chirovsky, la disponibilità a un chiarimento su quel momento torbido c’è sempre stato: “Io stesso, a nome del mio istituto, invitai il patriarcato di Mosca a lavorare con noi a livello accademico, in trasparenza, per studiare ciò che realmente accadde nel 1946. Sfortunatamente, i nostri appelli sono stati ignorati”. Le ferite della storia stentano a rimarginarsi, quel che è accaduto quattro, cinque, sei secoli fa ha lasciato tracce indelebili: “Nel 1654, il cosacco ucraino Hetman Bohdan Khmelnitsky firmò un trattato con la Moscovia. Gli ucraini considerarono il tutto come un’alleanza militare temporanea, ma gli zar erano di parere diverso e interpretarono il patto come la sottomissione dell’Ucraina alla loro autorità. I moscoviti iniziarono a infiltrarsi in ogni aspetto della vita ucraina, fino a prendere il controllo della chiesa ortodossa locale nel Diciassettesimo secolo. Già duecento anni dopo, tutti i vescovi ortodossi in Ucraina erano d’etnia russa e le istituzioni dedite all’istruzione divennero strumenti per la russificazione della popolazione. Quando crollò l’impero, molti ucraini espressero il desiderio di avere una chiesa autocefala, ma Mosca (e i suoi gerarchi sul territorio) bloccarono questi auspici”, commenta Andriy Chirovsky.

 

La questione ucraina, insomma, pesa nella strategia verso il pieno ristabilimento dei rapporti tra Mosca e Russia, ma – spiega Chirovsky – “deve essere vista dalla prospettiva più ampia dell’imperialismo russo (politico ed ecclesiastico) oggi espresso nell’ideologia del Russkiy mir, il mondo russo)”, così come non può essere taciuta “la profonda xenofobia nonché la paura che Mosca ha riguardo Roma e la civiltà occidentale in generale. Mosca teme l’imperialismo concorrente del papato. La domanda, però, è se il moderno papato sia davvero imperialista o se la chiesa russa sia impaurita da qualcosa che non corrisponde più alla realtà. Il grande problema della Russia di oggi – aggiunge il direttore dell’Istituto di studi orientali alla Saint Paul University di Ottawa – è che sembra incapace di considerare l’esistenza dei vicini di casa. Divide gli altri paesi, i popoli e le chiese, riducendoli in vassalli o nemici”.

 

Sarebbe però fuorviante limitarsi a descrivere Kirill come una sorta di ciambellano del Cremlino, rispolverando l’antico mantra dell’alleanza imperitura tra chiesa e impero, come fossero un monolite a custodia della unicità russa. Lo spiegava bene don Stefano Caprio, docente al Pontificio istituto orientale di Roma e tra i primi sacerdoti a entrare, nel 1989, nell’Unione sovietica ormai prossima allo smembramento, quando sottolineava la “doppia interpretazione del nazionalismo ortodosso: da una parte c’è il Patriarca che preferisce darne un’idea più spirituale, che punta a un’ortodossia votata a essere faro spirituale del mondo, dall’altra l’ortodossia militante di Putin, più classica”. Kirill, diceva Caprio al Foglio qualche settimana fa, quando l’incontro cubano ancora non era di pubblico dominio, “ha una visione moderata, spinge sulla difesa dei valori tradizionali”. Se è corretto sottolineare l’assonanza che sussiste in riferimento alla crisi siriana – il Patriarca ha appoggiato, apparendo anche in televisione, l’operazione del Cremlino nel paese guidato da Bashar el Assad – non può essere taciuta la linea più soft che Kirill ha portato avanti riguardo alla crisi ucraina, “soprattutto sull’annessione della Crimea”, chiosava Caprio. Certo, si potrebbe fare di più, dice Chirovsky: “Sarebbe buona cosa se il Patriarca di Mosca dimostrasse la sua indipendenza dal governo e condannasse l’invasione russa dell’Ucraina o ammonisse le forze aeree del Cremlino a non bombardare i cristiani in Siria e agisse concretamente nel debellare lo Stato islamico e la sua campagna nell’eliminare la presenza cristiana in medio oriente. Potrebbe – prosegue il protopresbitero mitrato di base in Canada – dire ai suoi vescovi e al suo clero di non glorificare i teppisti guidati dai russi attivi nel Donbass, definendoli protettori dell’ortodossia contro l’occidente e contro il governo filo occidentale di Kiev. Sono sicuro – aggiunge – che ci sarà un po’ di mormorio e qualche forte denuncia delle inesattezze e dei pregiudizi contenuti nei tre paragrafi della Dichiarazione congiunta che si riferiscono direttamente all’Ucraina. Credo – chiosa Chirovsky – che la reputazione di Papa Francesco e il livello di fiducia in lui presso i fedeli ucraini ne soffriranno. A ogni modo, dopo un po’ passerà. Nel frattempo, nessuno può fermare la vitalità della chiesa greco-cattolica ucraina”, che quanto a vocazioni ha numeri record, se paragonata con l’occidente da decenni in crisi.

 

Che l’abbraccio fraterno tra Roma e Mosca abbia avuto l’effetto di un pugno nello stomaco per la densa comunità cattolica locale lo si comprende guardando a Kiev. L’arcivescovo maggiore della capitale, Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, in un’intervista rilasciata in patria due giorni dopo la firma della Dichiarazione congiunta, parlava di “due mondi paralleli”, aggiungendo di non sapere “se queste due realtà si siano intersecate durante questo incontro, ma secondo le regole matematiche due rette parallele non si incontrano mai”. Parole che hanno colpito anche il Papa, che nel corso della lunga e consueta conferenza stampa a bordo dell’aereo che lo riportava in Vaticano dopo il viaggio apostolico di una settimana in Messico ha affrontato la questione, soffermandosi in particolare sulla reazione di Shevchuk al momento storico: “Quando ho letto questo, mi sono un po’ preoccupato. Sviatoslav è un uomo per il quale ho rispetto e anche familiarità, ci diamo del ‘tu’, e per questo mi è sembrato un po’ strano. Ho letto l’intervista, e dirò questo: Shevchuk si dichiara figlio della chiesa, in comunione con il vescovo di Roma, con la chiesa; parla del Papa, della vicinanza del Papa, e di lui, della sua fede, e anche della fede del popolo ortodosso. Nella parte dogmatica nessuna difficoltà, è ortodossa nel senso buono della parola, cioè dottrina cattolica. Poi, come in ogni intervista, ognuno ha il diritto di dire le sue cose, e questo non lo ha fatto riguardo all’incontro, perché dell’incontro dice: ‘E’ una cosa buona e dobbiamo andare avanti’. Lui ha le sue idee personali che sono per dialogare, e ha diritto ad averne. Tutto quello che dice lui è sul documento: quello è il problema”.

 

[**Video_box_2**]E’ chiaro, commenta padre Chirovsky, che “Sua Beatitudine Shevchuk ha enfatizzato la dimensione spirituale di quanto avvenuto all’Avana. Conoscendo Papa Francesco abbastanza bene (in virtù dei quattro anni passati come vescovo greco-cattolico per l’Argentina), Sviatoslav si è soffermato sulla questione del dialogo. Francesco antepone l’incontro personale ai documenti. Nelle sue riunioni con le conferenze episcopali dei vari paesi, di solito ignora i testi preparati. Li distribuisce e preferisce conversare con i vescovi, mostrando loro il suo personale sostegno e ascoltando quanto hanno da dire. Credo che la stessa cosa sia accaduta all’Avana. La chiesa russa ortodossa aveva bisogno di un documento, e certe frasi contenute in esso potrebbero essere utilizzate per i suoi scopi. Anche i funzionari del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani volevano un documento, così da poter sottolineare i progressi ottenuti nel processo (davvero lento) di riconciliazione. Shevchuk ha espresso la sua gioia sul fatto che finalmente il Patriarca di Mosca abbia incontrato il Papa, dopo decenni passati a dire che una riunione del genere era impossibile a causa dei ‘terribili uniati’. Vertici del genere sono importanti, ma dovrebbero divenire da ora una routine, come lo sono tra Roma e Costantinopoli. Non è un segreto che l’arcivescovo di Kiev – dice il nostro interlocutore – avrebbe voluto incontrarsi con Kirill, parlandogli vis-à-vis. Ha espresso il suo disappunto sul fatto che ancora una volta i due ‘centri’ hanno parlato ‘di noi senza di noi’. Credo che avrebbero dovuto invitarlo. Il metropolita Antonii Pakanych, l’eminenza grigia della chiesa ucraina-ortodossa, era presente all’Avana, ed è stato presentato al Papa dal Patriarca Kirill come ‘il nostro uomo a Kiev’”.

 

E’ anche in virtù di tali tensioni che Chirovsky non esagera l’importanza della Dichiarazione congiunta: “Non penso che il documento avrà conseguenze tangibili. Si spera che questo sia solo il primo incontro tra il Papa e il Patriarca di Mosca. In futuro vedo il Pontefice chiedere a Kirill di fornire qualche prova delle incessanti accuse che il patriarcato muove ai greco-cattolici ucraini. Forse questa richiesta è già stata fatta. Quando il cardinale Edward Idris Cassidy, nel 1997 – erano i tempi del negoziato per portare Giovanni Paolo II e il Patriarca Alessio a incontrarsi in una città europea, Budapest o Vienna – sfidò la chiesa ortodossa russa a presentare le prove delle accuse lanciate alla nostra chiesa nei primi anni Novanta, essa non riuscì a tirar fuori nulla”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.