(foto LaPresse)

Non è la fine del mondo

Riscoperta della frontiera, della vulnerabilità, della morte. Ma anche del legame comunitario, dell’umiltà e del sacro. Parla Michel Maffesoli

Valeurs Actuelles – Il Covid-19 è forse l’impensato dell’occidente progressista? 

 

Michel Maffesoli – A partire dalla Riforma protestante, la dominante dei tempi moderni si è fondata sulla razionalizzazione generalizzata dell’esistenza: tutto era sottomesso alla ragione, tutto doveva essere spiegato con la ragione (Max Weber), da cui il famoso “disincanto del mondo”. E’ sulla base di questo razionalismo che si è costituito il grande mito del Progresso che, sviluppatosi dapprima in occidente, conquisterà il mondo intero. A cominciare dalla formula di Auguste Comte che il Brasile ha messo sulla sua bandiera, “Ordine e progresso”. Questa concezione progressista sfocia nella grande ideologia del transumanesimo come raggiungimento dell’immortalità. L’epidemia da Covid-19 può essere considerata come il ritorno del rimosso, perché ci ricorda che la finitudine è l’elemento essenziale della nostra specie animale. Cuore palpitante della filosofia heideggeriana tanto denigrata, lo “sein zum Tode”, l’“essere per la morte”, è l’elemento costitutivo della nostra essenza. Forse potremmo vedere in questo impensato che invade tutta la vita sociale il ritorno di una costante della tradizione cattolica, il “de usu” dei teologi, il buon uso della morte. Esso perdura nel culto di Notre-Dame de la Bonne-Mort, del morire-bene. Oggi, il mito progressista, come è stato elaborato nel corso del Diciannovesimo secolo, è saturo. Si basava su una concezione drammatica dell’esistenza. Secondo cui ogni cosa dovrebbe avere una soluzione, una risoluzione. A questo proposito, bisogna ricordarsi della formula di Karl Marx: “L’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere”. A questo ottimismo assai ingenuo, sta subentrando una concezione tragica, in sintonia con la saggezza popolare, consapevole che bisogna adeguarsi a ciò che accade, che non c’è una soluzione a tutto.


Assieme ad altri fattori, si può sottolineare che, nel corso della storia dell’umanità, le varie pandemie contribuirono al ritorno del religioso come elemento strutturante di ogni esistenza umana


 

Dopo la caduta del Muro di Berlino, si è diffusa la convinzione che saremmo stati eternamente felici. Qual è ormai il futuro di questa illusione di invincibilità?

Con l’attuale pandemia, sta svanendo la pretesa di immortalità (…). L’ambizione della filosofia dei Lumi fu quella di credere che fosse possibile apportare la luce ovunque nel mondo, ma la luce è diventata assai intermittente. Fatto che ci rimanda a una saggezza olistica, vicina a quella che San Tommaso, sulla scia di Aristotele, aveva teorizzato, il suo realismo. E’ ciò che ci ricordano le prove che stiamo attraversando in questa epidemia: non siamo invincibili in nulla, ma a partire da queste prove, bisogna raggiungere un equilibrio migliore. E’ l’armonia conflittuale, struttura antropologica essenziale, propria ugualmente di ciò che il filosofo cattolico Jacques Maritain chiama un “umanesimo integrale”.

 

Qual è secondo lei il ruolo del religioso dinanzi alla morte? 

 

E’ proprio nel quadro di questo rullo compressore del razionalismo moderno che la religione fu considerata, per riprendere un leitmotiv marxista, un “oppio dei popoli”. Assieme ad altri fattori, si può sottolineare che, nel corso della storia dell’umanità, le varie pandemie contribuirono al ritorno del religioso come elemento strutturante di ogni esistenza umana. Peraltro, è così che, dinanzi a un umanesimo progressista e dominato da un razionalismo morboso, l’umanesimo integrale di Maritain integra la nozione del sacro. In questo senso, il religioso ci obbliga, andando oltre l’abituale denegazione propria dei semplicismi dell’ideologia progressista, a guardare in faccia la morte, come elemento fondamentale di ogni esistenza individuale e collettiva. Questa anamnesi della morte ci forza a essere più umili, a dar prova di una saggezza tradizionale che ritroviamo nella Genesi: “Polvere sei e polvere ritornerai”. La liturgia cattolica non dimentica mai di sottolineare la necessità di ricordarcelo, incoraggiandoci, al di sopra di qualsiasi egoismo materialista, a praticare la generosità, la solidarietà, la beneficenza proprie di ogni ideale comunitario, che nel mio ultimo saggio definisco la “nostalgia del sacro”, la quale richiama le fondamenta della religione: essere legati all’alterità.

 

Oggi Prometeo sembra soltanto un ricordo lontano. Non pensa che la figura mitologica di Icaro sia un avatar rappresentativo di questa caduta? 

 

Effettivamente, se si riprende l’oscillazione proposta da grandi pensatori come Nietzsche tra epoca prometeica (o apollinea) e epoca dionisiaca, si può dire che la pretesa di dominare la natura, dai tempi di Cartesio, grande ideologia della modernità, ha fatto il suo corso. Così Icaro, ucciso dalla sua ambizione di sconfiggere l’ordine della natura (volare e avvicinarsi al sole che fece fondere le sue ali), è un avatar di Prometeo ed è emblematico di ciò che viviamo: la volontà di produrre sempre di più e di intensificare gli scambi di beni del capitalismo mondializzato, l’ambizione di superare le leggi della natura, tutto ciò ha contribuito alla comparsa di questa pandemia. In contrasto con la globalizzazione e lo sradicamento che essa produce, si può pensare che al termine di questa crisi, ci sarà un ritorno al locale, a rammentarci che il luogo crea un legame. Da questo punto di vista, il cattolicesimo tradizionale, insistendo sul mistero dell’incarnazione divina, indica la necessità di conciliarsi con questa Terra e di prendersi cura di essa. Una delle ultime encicliche papali, “Laudato Si’”, sottotitolata “Sulla cura della casa comune”, ricorda l’importanza di una vita incarnata, di un’“ecosofia”.

 

Con l’epidemia da coronavirus, la frontiera, nozione malpensante per eccellenza, è ritornata improvvisamente nel nostro vocabolario. Secondo lei, cosa implica questo ritorno de limite, della barriera, nel nostro immaginario collettivo? 

 

Il dominio della globalizzazione è, bisogna dirlo, la conseguenza dell’universalismo proprio della filosofia dei Lumi del Diciottesimo secolo e del sistema di stampo socialista del Diciannovesimo secolo. La globalizzazione implica una negazione della frontiera e una pretesa di illimitatezza in tutti i settori. In un momento in cui ci troviamo ad affrontare le conseguenze di questa globalizzazione, il limite si ripresenta (frontiera politica degli Stati-nazione, ma anche tutti i limiti imposti dalla natura, che si vendica dell’onnipotenza dei poteri economici e politici) (…). Non dimentichiamoci che una delle divinità fondatrici della Roma antica si chiamava Termine (Terminus, “il limite”), era una divinità che presiedeva i limiti, guardiano all’entrata del mondo. Era rappresentato senza braccia e senza gambe affinché non lo si potesse spostare! Che dire se non che la pianta umana, come ogni altra pianta in generale, ha bisogno di radici per crescere? La globalizzazione, il materialismo dominante, il consumismo a oltranza, l’individualismo egoista ne sono le conseguenze più rilevanti. Dalla parte opposta, c’è ciò che San Tommaso d’Aquino chiamava “habitus” (Somma teologica, Questione 49), che lega a un territorio, che determina i modi di essere di un gruppo. Ossia la vita quotidiana, di cui si ricomincia a misurare l’importanza.

 

Questa nozione rigida, e forse tragica, è in contrasto con la concezione liquida della società postmoderna come viene descritta da Zygmunt Bauman. E’ oggi accettabile, comprensibile? 

 

Avendone parlato con Zygmunt Bauman (con il quale ho spesso discusso del mio libro sul nomadismo che cita in “Vita liquida”), bisogna prestare attenzione al rapporto fecondo che esiste tra radicamento e apertura all’altro. Il radicamento dinamico è il riconoscimento della fecondità delle radici, che permette di accordarti, quantomeno in parte, con la diversità delle culture. Al di là di un globalismo senza limiti e di un nazionalismo poco lungimirante, ciò che ci insegna l’attuale pandemia è la necessità di un ritorno alla frontiera nel senso romano del termine. Il culto di Giano, bifronte, è un culto iniziale e finale: il luogo che crea il legame, il luogo di partenza, il luogo di arrivo, il luogo di passaggio. Ma luogo delimitato, luogo terroir. Peraltro, è interessante notare l’utilizzo sempre più frequente, da parte dei politici, di termini come “territorio”, “terroir”, “paese”. Tutte cose che, fino a poco tempo fa, erano considerate reazionarie. Il localismo torna a essere una realtà imprescindibile, causa ed effetto, della solidità di ogni vita popolare.


Si può facilmente immaginare che alla fine del periodo di confinamento si creeranno dei nuovi legami tra professori e allievi, malati e medici, ma anche tra vicini, tra membri di una famiglia 


 

Eppure è proprio questa postmodernità che permette di reinventare i legami, di conoscere, di toccare gli altri, di far “risuonare”, come dice bene il sociologo tedesco Hartmut Rosa, la parte migliore di noi. Nell’epoca del confinamento, a che punto sono le tribù? 

 

L’ho detto spesso e qui possiamo dirlo nuovamente, la fine di un mondo non è la fine del mondo. La modernità fondava il legame sociale sulla sovramministrazione di cui gli enarchi sono i massimi esempi. Non è per l’attuale inefficienza di questa forma di legame sociale che non ci sono più legami tra uomini che vivono assieme. Ma le grandi strutture che le riunivano, la democrazia rappresentativa, il contratto sociale, l’economia dominata dal mercato e gli interessi finanziari sono minate da questo nemico invisibile contro cui né la scienza né le autorità politiche riescono a rispondere adeguatamente. Il confinamento assume forme differenti a seconda delle società in cui è praticato: in Italia e in Francia, potrà produrre i suoi benefici soltanto se può contare sulla volontà di ogni comunità di proteggersi non individuo per individuo, ma in maniera altruistica. E’ una forma di tribalismo l’applicazione del confinamento città per città, villaggio per villaggio, quartiere per quartiere. Ma è certamente una forma di tribalismo anche l’intensificazione dei legami digitali, sotto ogni forma. Si può facilmente immaginare che alla fine del periodo di confinamento, si creeranno dei nuovi legami, tra professori e allievi, tra malati e medici, ma anche tra vicini, tra membri di una famiglia inquieti per gli uni e per gli altri, tra utilizzatori dei social network. Un altro mondo sta emergendo. 

 

La traduzione è di Mauro Zanon