Un Foglio internazionale
“Perché ho preso una pistola”. Matti Friedmann spiega come il 7 ottobre lo ha cambiato
Il racconto del giornalista. Per l’israeliano medio, le armi da fuoco sono semplicemente uno strumento di protezione contro la violenza araba che ha plasmato questa società nell’ultimo secolo. Come l’esercito, sono un male necessario
Di recente sono stato in un poligono di tiro al coperto a Gerusalemme e osservavo i nuovi richiedenti di una licenza di armi: persone comuni, un uomo sulla sessantina con l’aria di un professore di Talmud, una giovane madre che era stata evacuata dalla città meridionale di Sderot dopo che i terroristi di Hamas avevano ucciso dozzine di suoi vicini il 7 ottobre e che ora vive in un’angusta stanza d’albergo nella nostra città con suo marito e due figli”. Così Matti Friedmann in un lungo articolo pubblicato il 10 aprile sulla Free Press.
La giovane madre, continua, “ha sparato i suoi colpi con particolare intensità, o almeno così mi è sembrato, anche se ovviamente nemmeno lei poteva riportare indietro l’orologio al 6 ottobre. Quando l’istruttore ebbe finito con lei, è stato il mio turno. Al bancone all’ingresso c’erano tre clienti: il personale non aveva mai visto niente di simile negli ultimi sei mesi. Un venditore stava spiegando i vantaggi della pistola israeliana Masada, chiamata, sfortunatamente, come il luogo del suicidio di massa degli ebrei che pose fine al nostro precedente periodo di sovranità nel 73 d.C. Una religiosa in gonna, con i capelli coperti da una sciarpa, stava provando una fondina addominale da nascondere sotto la maglietta: è una maestra d’asilo e non vuole spaventare i bambini.
Per l’israeliano medio, le armi da fuoco sono semplicemente uno strumento di protezione contro la violenza araba che ha plasmato questa società nell’ultimo secolo. Come l’esercito, sono un male necessario. La maggior parte delle persone armate che vedrai in una città israeliana sono soldati o poliziotti. Per me, il cambiamento si manifesta sotto forma di una piccola Glock, un piccolo e brutto monumento a un cambiamento in peggio in questo paese e nella vita dei suoi cittadini. Sebbene acquistare una pistola qui sia diventato più semplice, il possesso di armi è ancora strettamente limitato e comporta pratiche burocratiche che vanno oltre i sogni più sfrenati dei sostenitori del controllo delle armi negli Stati Uniti.
Sono stato addestrato all’uso del fucile automatico in fanteria durante il servizio militare obbligatorio, ma come tutti i miei amici sono stato felice di restituirlo. Non credevo che la forza letale fosse necessaria nella vita civile.
Quando ho compilato i moduli dopo l’attacco di Hamas, con diversi conoscenti morti e uno prigioniero in un tunnel di Hamas, mia moglie Naama ha rifornito il nostro appartamento di acqua, cibo e batterie nel caso in cui la guerra si fosse estesa a Gerusalemme. Naama non riesce nemmeno a guardare la pistola. Ma gli scenari da incubo si erano rivelati realistici e sembrava irresponsabile non prendere ogni precauzione.
In contrasto con il militarismo che alcuni osservatori esterni immaginano qui in Israele, non ci sono parate militari. L’esercito tende a evitare simboli e linguaggio bellicosi, preferendo eufemismi tratti dal mondo naturale: una volta ho prestato servizio, ad esempio, in una cupa base in Libano chiamata Outpost Pumpkin, dove i dispositivi per la visione notturna sono chiamati il Carciofo. Quando a famosi generali israeliani come Moshe Dayan veniva chiesto quale fosse la loro professione, rispondevano che erano agricoltori.
Per anni abbiamo subito episodi regolari in cui uomini palestinesi impazzivano in luoghi pubblici con coltelli o pistole, uccidendo persone fino a quando loro stessi non venivano colpiti e uccisi dalle forze di sicurezza o da un civile armato. Ma questo non si è mai tradotto in un possesso di armi, certamente non tra le persone che conosco. Sembravamo aspettarci che qualcun altro fosse a disposizione per proteggerci. Gerusalemme, dove vivo, e dove più di un terzo dei residenti sono palestinesi, è particolarmente vulnerabile: senza nemmeno consultare Internet, riesco a pensare a una dozzina di attacchi simili nell’ultimo anno. Eppure, nel panico dopo il 7 ottobre, quando uno dei miei vicini nel gruppo WhatsApp del nostro edificio mi ha chiesto quanti di noi possedessero armi, la risposta è stata nessuno.
Ovviamente la situazione sarebbe dovuta cambiare mano a mano che avessimo assorbito due lezioni dell’attacco di Hamas. La prima era che non potevamo permetterci ulteriori illusioni sulle intenzioni dei nostri vicini palestinesi. Queste delusioni avevano appena portato alla morte di 1.200 israeliani come noi, molti dei quali assassinati nelle loro cucine e nei loro soggiorni, e al rapimento di altri 250, con il sostegno entusiastico dell’opinione pubblica palestinese.
La seconda lezione riguardava il nostro presupposto di base secondo cui le forze di sicurezza sarebbero sempre arrivate velocemente. I massacri intorno a Gaza sono avvenuti ad appena un’ora di macchina da Tel Aviv, ma ho incontrato una donna di un kibbutz del sud che è stata salvata dai soldati israeliani solo 30 ore dopo l’inizio dell’attacco, durante il quale molti dei suoi vicini sono stati uccisi o presi in ostaggio. Se una mezza dozzina di camioncini di Hamas uscissero dai quartieri arabi a pochi minuti dal mio e tentassero qualcosa di simile, saremmo da soli. E’ stato in questo periodo che i miei amici, tra cui uno psicologo, un giornalista radiofonico, uno specialista in storia ebraica medievale e un professore di filosofia greca, hanno comonciato a richiedere il permesso di portare armi. Ed è stato in questo periodo che, come altre persone che conosco, mi sono ritrovato a calcolare gli angoli di fuoco all’interno della mia casa. Cosa posso colpire dalle scale? La porta d’ingresso potrebbe fermare un proiettile?
Qualunque fosse l’esito della guerra di Gaza, era chiaro che avevamo già subito una sorta di sconfitta spirituale. In Israele, le armi da fuoco sono meno una questione di libertà personale, come in America, che di difesa comunitaria – il che è logico, suppongo, in un paese la cui etica è stata forgiata non dagli individualisti di frontiera ma dai kibbutznik socialisti.
Recentemente ho partecipato a una sessione di formazione per nuovi proprietari di armi dell’Israele centrale, uno dei quali era Doron Ben-Avraham, 60 anni, della città di Elad. Questa città è stata teatro di un raccapricciante attacco con l’ascia da parte di due palestinesi nel maggio 2022 e una delle tre persone uccise era qualcuno che conosceva. ‘Se vedo un vicino che viene aggredito, voglio essere in grado di aiutarlo – mi sentirei male se non lo facessi’, ha detto Ben-Avraham, riflettendo quello che sembrava essere l’approccio dei venti uomini della classe. Dopo il 7 ottobre ha fatto domanda per il porto d’armi e ora è il nuovo proprietario di una Glock-19. Il corso era tenuto da un istruttore di tiro di nome Boaz, un istruttore antiterrorismo che mi ha chiesto di non usare il suo cognome. Lo fa da 20 anni. In mezzo alla corsa generale per le armi, Boaz è rimasto sorpreso nel vedere il numero di nuovi possessori di armi tra gli ultra-ortodossi, una comunità che in genere ha atteggiamenti antimilitaristi ed è felice di lasciare la propria difesa agli altri.
Al poligono di tiro dove ho preso la licenza, era chiaro che alcuni dei nuovi proprietari non erano affatto in grado di usare un’arma nelle condizioni sterili del poligono, per non parlare di un attacco vero e proprio in cui avremmo dovuto mettere a rischio la vita assaliti da adrenalina e paura. Quelli con addestramento al combattimento hanno una possibilità, anche se nessuna garanzia di successo. Quando sono tornato a casa con il mio porto d’armi e una Glock 43X, ho detto ai miei figli che se mai si fossero avvicinati a un attacco a fuoco avrebbero dovuto sdraiarsi e aspettare finché non fosse finito.
E’ difficile dire come ricorderemo tutto questo tra un decennio o due. Ma anche nelle settimane in cui ho lavorato a questo saggio, un israeliano con una pistola è riuscito a uccidere un terrorista, un altro palestinese di Gerusalemme, che stava sparando a persone innocenti su una strada nel sud di Israele, due dei quali sono morti. Questo è successo il 16 febbraio. Il 14 marzo, un sottufficiale in fila in un bar Aroma non ha notato il ragazzo palestinese con una felpa nera che gli si avventava al collo con un coltello, ma è riuscito comunque a estrarre la pistola e a sparare, evitando altre vittime. Un amico americano mi ha detto di recente che ogni ebreo che conosce ha un piano di emergenza, a volte segreto o difficilmente ammesso anche a sé stesso, su dove nascondersi o scappare se le cose si mettono davvero male nella diaspora: il tipo di pensiero che nasce dall’educazione alla storia ebraica mescolata con una lettura attenta degli eventi attuali, come le proteste aggressive fuori dalle sinagoghe, i colpi sparati contro le scuole ebraiche e la crescente febbre nei confronti dei ‘sionisti’. Riflettendo su questo, ho chiesto agli amici qui in Israele se avessero un piano simile. No, nessuno l’ha preparato. Il sionismo chiaramente non è riuscito a cambiare tutto nella condizione ebraica, ma sembra aver cambiato questo, per quello che può valere. Non conosco nessuno che stia preparando un nascondiglio. Ma conosco un numero notevole di persone con una nuova Glock”.
(Traduzione di Giulio Meotti)