“Torniamo alle campagne”, sbraitano i francesi. Ma l'autarchia è un'illusione

Antonio Pascale

“Coltiviamo e mangiamo francese”, è stato l’invito di pochi giorni fa rivolto dal ministro dell’Agricoltura di Parigi, Didier Guillaume. Come se entro i confini nazionali si fosse al sicuro e la qualità venisse fuori naturalmente

Abbiamo messo i tricolori alla finestra. Alle 18, un po’ prima della conferenza stampa della Protezione civile, i dj amplificano l’inno di Mameli, ci sentiamo italiani e fratelli più che mai. Non siamo i soli. I tedeschi si sentono più tedeschi, gli anglosassoni idem e la stessa cosa succede ai francesi. Sono gli effetti del blocco, della chiusura, della ritirata fra le mura domestiche (per adesso indispensabile e sacrosanta), della chiusura dei confini. Altri effetti della crisi si possono osservare analizzando il trend di alcuni verbi, come per esempio: ritornare. Torniamo alle campagne, per esempio, per citare il trend topic francese: diamo una mano in campagna, “coltiviamo e mangiamo francese”, è stato l’invito di pochi giorni fa rivolto dal ministro dell’Agricoltura di Parigi, Didier Guillaume. Fa pendant con il “consuma italiano” di vecchia scuola reazionaria. Ai tempi, difatti, nei colorati anni ’80, lo proclamava il Fronte della Gioventù con brutti manifesti (mi ricordo). Poi se lo sono spartiti un po’ tutti, da Forza nuova al Pd. Come se entro i confini nazionali, chiusi a chiave, si fosse al sicuro, e la qualità venisse fuori naturalmente. Sentiremo il verbo ritornare più volte nei mesi a venire. Torniamo a sentirci tedeschi, francesi, italiani, stringiamoci a coorte no?

 

Ora, in questo momento, sotto il peso della contingenza, da una parte, sono portato a prendere bene questo genere di appelli. Voglio dire, sento il bisogno di gioco di squadra e concentrazione. Se posso dare una mano a una piccola impresa italiana, fosse una libreria o il ferramenta, lo faccio con piacere e spirito di squadra. Dall’altra parte, in qualche notte inquieta, spaventato dal suono del silenzio, temo che quegli appelli diano forza ai fanatici della coorte ad libitum. Togliamoci dalla coorte di Bruxelles, perché è il momento della piccola unità militare: stringiamo i confini, e visto che ci siamo, vanno bene muri tra Calabria e regioni confinanti.

 

L’agricoltura è la via privilegiata per questo genere di slogan. E’ la fabbrica del cibo. Il cibo è sacro per natura, crea vincoli di appartenenza dai tempi che furono. Ecco, spero che queste settimane finiscano, che i confini si riaprano. Certo, lo so, è anche difficile, pericoloso, complesso e foriero di squilibri economici. Ma da soli, nella nostra coorte non ce la possiamo fare. L’identità va bene, mi piace, e se diventa una base sicura per capire il mio prossimo e buttare un ponte, allora mi piace ancora di più.

 

Le pandemie si possono prevedere e spegnere sul nascere. Per farlo c’è bisogno di collaborazione globale. Idem per il cibo. Nessuna autarchia può funzionare in questo mondo complesso, tanto meno quella agricola. Possiamo tornare nelle campagne e dare una mano a raccogliere e coltivare. E’ importante, sia per il senso di unità, sia perché faremo esperienza di lavoro duro, e spesso, in alcune zone, ai confini dello schiavismo. Capiremo per esempio che molti prodotti che raggiungono la tavola e che elogiamo nelle cene tra amici e in tv, ogni volta che capita, sono raccolti sfruttando cittadini al di là del nostro confine. Per non parlare dei prodotti che amiamo considerare tipici. Basta smontarli per capire quanta gente ci lavora. I concimi sono francesi come marchio, ma la materia prima (fosforo, potassio) è roba da miniere sudamericane (i francesi lo sanno). Le macchine agricole sono assemblaggi di più pezzi e vengono da varie parti del mondo. I semi, cioè la genetica che ci permette buone prestazioni, non sono sempre roba nostra, più spesso francese o israeliana. Anche il letame non è italiano. Considerato che le vacche sono acquistate fuori dai nostri confini e hanno genetica ibrida (seme di toro canadese o altro) e che gran parte degli alimenti (soprattutto quelli proteici) che gli animali ruminano vengono dal Sudamerica (soia e affini). Si potrebbe continuare all’infinito.

 

Dunque, se da una parte, sotto la contingenza cupa e virale, sono portato ad ascoltare l’inno di Mameli, dall’altra parte sento la ristrettezza del richiamo della coorte, in campo agricolo e non. Non vedo l’ora di ritrovarmi in piazza, queste belle e assolate piazze italiane, dove una volta si mercanteggiava (quante variopinte piazze delle erbe), si scambiavano idee e sì, si aveva l’impressione che il mondo lo si costruisse tutti insieme: ognuno ne fa un pezzo. Al contrario, se si vuole costruire tutto da sé, poi manca il tempo, la materia, per lo sforzo ci si addormenta, ci si avvilisce a parlare solo col vicino, non si innova più perché non si esce più. Allora le piazze sono vuote, magari più belle, ma inutili e desolate. Che scegliamo? La coorte silenziosa e pretenziosa o la collaborazione, ostica e difficile ma vitale?

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