Disegno per un bar del nightclub voluto da Curzio Malaparte. Copyright Dariusz Jasak © Malaparte

Night club Malaparte

Michele Masneri

Alla fine dei suoi giorni l’autore di “La pelle” progettò un locale a Forte dei Marmi che doveva essere “il più chic della Versilia”, prima del boom

Nel paese degli specializzati e specializzandi un eccentrico come Curzio Malaparte è sempre stato visto con sospetto. Lo scrittore toscano, vero nome Kurt Suckert, figlio di un tintore di stoffe sàssone trapiantato a Prato, non era però solo un giornalista e scrittore con piglio internazionale, polemista e amatore di vedove di Stato. Si sapeva che avesse anche un poliedrico talento visuale, che si espresse notoriamente nella casa di Capri, la “casa come me”, quella misterica e molto fotografata al cinema, dalla “Pelle” di Liliana Cavani al “Disprezzo” di Godard. Ma si ignorava quello imprenditoriale-notturno.

  

Invece, prima di approdare a Capri Malaparte, già fascista arditissimo e poi riluttante, era stato esiliato, a Lipari e a Ischia. E infine, a Forte dei Marmi. Dove avevano fatto epoca le scorribande amorose con Virginia Bourbon del Monte, nuora del Senatore e mamma dell’Avvocato. Ma al Forte l’autore di “Kaputt” e “la Pelle”, tornerà, nell’ultima fase della sua vita, con in testa un’idea anche più originale: aprire un night.

 

Sono i primi anni Cinquanta, Malaparte è sofferente per i postumi della tubercolosi presa in guerra, la prima, e poi trascinatasi fino alla fine, sebbene curata amorevolmente dai medici cinesi nell’ultimo viaggio della sua vita; decide di tornare al Forte nella casa che aveva comprato negli anni Trenta, la villa Hildebrand, già appartenuta al celebre scultore, e proprietà del professor Baltus, un belga. “Denaro onestamente guadagnato col mio lavoro letterario” scriverà sul Corriere, “grazie a due libri antifascisti, ‘Tecnica del colpo di stato”, e “Le bonhomme Lénine”, “pure quello proibito in Italia e Germania”. Forte dei Marmi lo interessa molto, non per i ricordi galanti ma perché prima di “Sapore di mare” è chiaro che è luogo di borghesia scalpitante pre-boom. “Una spiaggia in continuo sviluppo e in continuo aumento”, scrive nelle lettere al fratello di latte Baldo Baldi, che non sono mai state pubblicate, e che si è potuto consultare grazie all’archivio della famiglia Malaparte. “Tutto si deve adeguare a questo ininterrotto progresso”, scrive. “Già gli alberghi attuali sono arretrati, non bastano più. C’è necessità di negozi di lusso. I caffè, le osterie, sono rimaste a mezzo fra il carattere primitivo (magnifico) di un tempo, e un falso modernismo da piccoli borghesi. Quel che impera qui, come in tutta Italia in queste faccende, è il gusto degli indigeni, della gente locale, che non ha mai visto nulla, e crede che la luce al “neon” basti a soddisfare le esigenze della clientela. Qui son bagnini o contadini rifatti, e credono che il loro gusto sia quello dei turisti. Poveri bischeri! Il fatto è che il Forte dei Marmi è, scusa il bisticcio, in regresso sul proprio progresso: è come un magnifico transatlantico con cattiva cucina, cattivo bar, e senza stanze da bagno”.

 

L’idea di Malaparte era insomma quella di rianimare la costa creando il meglio locale della Versilia. Stufo dei lavori intellettuali malpagati, vuole anche divertirsi, forse, per un’ultima volta (non aveva che cinquant’anni). “Mi spiego? La stessa Capannina è ormai sorpassata. Ed è in grave decadenza. La gente a posto, quella che spende, non ci va più.C’è rimasta la marmaglia: piccoli pratesi, e la gentarella del luogo. Ci ritrovi tutti gli operai e i bottegai fortemarmini. Questo non vuol dire essere antidemocratico: vuol dire osservare la realtà”, scrive all’amico-fratello. Avanzando anche idee precise su come si gestisce un club, tipo impresario dello Studio 54. “Quel che ammazza un “night club” “è la selezione errata”.

  

“Ho cominciato col procurarmi le licenze necessarie”, scrive, “e le ho ottenute, compresa quella, difficilissima a ottenere, e che vale da sola 10 milioni (tanto mi darebbero se la cedessi), per i superalcolici. Ho messo a posto il parco: pini, cipressi, oleandri, ginepri, 250 piante di rose pregiate (2.500 lire la pianta!), geranii, pitosferi, cedri, allori, edera, rampicanti, viti canadesi etc. Ora il parco è pronto”.

 

Sugli arredi è altrettanto preciso, del resto Malaparte aveva un’anima architettonica che aveva messo tutta nella casa di Capri, che aveva disegnato dalle fondamenta all’ultimo comodino, con gli arredi brutalisti e scarni che costituiscono il suo manifesto di stile, contro l’ethos della villa o villetta imperante, ancor oggi in voga tra capresi veri e aspiranti: “Nessuna colonnina romanica, nessun arco, nessuna scaletta esterna, nessuna finestra ogivale, nessuno di quegli ibridi connubi tra stile moresco, romanico, gotico e secessionista”.

 

La stessa expertise la voleva impiegare nel suo night, di cui aveva previsto ogni dettaglio: “Ho pronto il marmo botticino per le due piste da ballo”, scrive nelle lettere. “In gennaio metteranno i pavimenti nuovi: travertino dorato di Siena al pianoterra, tavolato di quercia al primo piano (sale da gioco)”. Per l’illuminazione prevede di ingaggiare un giovane “architetto milanese, Gio Ponti”. Prevede anche i menu: “Ci sarà una pista per il ristorante (ristorante freddo, caviale, salmone affumicato, pesce maionese, vitello arrosto, charcuterie, foie gras, etc. etc. Di caldo solo gli spaghetti per chi li vuole. Insomma, all’americana, alla svedese), e una pista per il bar, che sarà situato in uno dei due padiglioni. L’orchestra starà sul terrazzo dello stesso padiglione. Un locale come non c’è in Italia, con annessa villa principesca, dove il pubblico farà pipì in bagni di marmo prezioso. Altro che le solite schifose latrine dei locali italiani (e anche parigini, purtroppo)!” (sui bagni era particolarmente esigente, avendo disegnato anche quelli spettacolari d’alabastro grigio per la casa caprese).

  

Il locale, scrive, si chiamerà “Malaparte’s House”, o “Chez Malaparte”. “Per le sale da gioco al primo piano ci vorrà l’aria condizionata: e allora saremo gli unici. Il pubblico giocherà non più sudando fra le mosche, ma in un ambiente fresco e igienicamente perfetto. A te toccherà provvedere all’orchestra, al personale tavoleggiante, al barman, agli impianti di ristorante e di bar (vasellame, frigidaires), e alla condotta della cosa. I camerieri tutti in giacca rossa abbottonata fino al collo (chiusa), all’inglese. (Pink coat)”. Malaparte ha un’idea anche di animazione: “In quanto a Filippina” (un’amica), “la metteremo a sedere per impressionare il pubblico con la sua pallida bellezza americana, e la sua tristezza sorridente. L’obbligheremo a parlare inglese da sola, ininterrottamente, per dar chic anglosassone al locale. E così farà Rebechita, che darà al locale l’ineffabile chic delle Ande, dei gauchos e delle praterie del Cile”. Del composito progetto appenninico-andino non si ne fece naturalmente niente. I polmoni continuavano infatti a peggiorare, nonostante le cure cinesi. Tornò a Roma, dove morì nemmeno sessantenne nel 1957. E “chez Malaparte” rimase solo un bellissimo divertimento su carta.

Di più su questi argomenti: