Benedetto Croce, critico, filosofo, storico, politico: l’incarnazione dell’intellettuale nella prima metà del Novecento (foto LaPresse)

Il tramonto degli intellettuali

Sabino Cassese

In Italia parlano ancora, ma chi li ascolta? Frequentano poco i nuovi canali di comunicazione e parte del pubblico li identifica con l’élite e li ignora. E dove dovrebbero stare: sul campo o nella torre? Appunti per una nuova alba

Sono tempi bui sia per gli intellettuali, sia per i mezzi di cui si valgono per farsi ascoltare. Se “uno vale uno”, l’uno vale l’altro, non c’è differenza tra il sapiente e l’ignorante. Se tutti possono dialogare con tutti, se Internet dà voce a più di metà degli abitanti del pianeta, se i media tradizionali (“one to many)”, di cui di solito gli intellettuali si valgono per raggiungere il proprio pubblico, sono in crisi, chi ascolta gli intellettuali?

 

Dobbiamo rassegnarci al trionfo degli apedeuti, come veniva chiamato nella Francia dell’illuminismo chi, non capace o non incline a seguire un corso severo di studi, congiura a screditare il sapere, così facendosi un merito della propria ignoranza? Si può ritenere che la figura dell’intellettuale sia ancora riconosciuta?

 

E che dire degli intellettuali stessi, metà dei quali apprezza, metà critica gli intellettuali? Accanto al filosofo americano Michael Walzer, sostenitore dell’intellettuale generalista che scende dalla montagna e diviene critico sociale, e al filosofo italiano Norberto Bobbio, ammiratore dell’intellettuale mediatore, il cui metodo di azione è il dialogo razionale (ascolto dell’interlocutore, messa in questione della propria verità, apertura verso l’altro), si levano le voci di un Julien Benda, critico delle passioni politiche dell’intellettuale che schierandosi tradisce il suo compito, di un Noam Chomsky, contestatore degli intellettuali asserviti ai potenti, di un Richard Posner, indagatore del declino della figura dell’intellettuale e di un Alberto Asor Rosa, che si chiede se siamo dinanzi alla liquidazione delle forme tradizionali della cultura o all’esaurimento della funzione intellettuale tout court. Insomma, “non bisogna lasciar giocare gli intellettuali con i fiammiferi”, come iniziava una bella poesia di Jacques Prévert?

  

2. Chi è l’intellettuale?

Dotto, chierico, saggio, “maître à penser”, maestro, “public intellectual”, “public moralist”, “ideal worker”, “social critic”, “political theorist”, segretario del principe, intellettuale-funzionario: già la pluralità di termini con la quale è indicato fa pensare che la figura sia ben poco definita e che convenga cercare di delinearne i contorni, cominciando da quello che un intellettuale non è.

 

Non è il seguace di Epicuro, che aspira a vivere nascosto, né l’onesto tecnico, né l’ottimate o l’aristocratico “che si traggono nell’ombra lasciando la scena” e aspirano a “intendere senza partecipare” (Benedetto Croce), né chi contempla sé stesso (il “nombriliste”, dicono i francesi), né l’“anima bella”, incapace di agire nel mondo, né la mosca cocchiera, che pensa di poter fornire una guida ad altri pur non possedendone la capacità.

 

Bisogna anche, però, abbandonare l’idea che gli intellettuali siano solo i “litterati”, perché può giocare il ruolo di intellettuale anche il medico, il giornalista, l’editore, il parroco. Come ha osservato Antonio Gramsci, che ha tradotto in italiano una questione che travagliava la più accorta cultura europea, quella dei “clercs”, “tutti gli uomini sono intellettuali… ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali”. Il “quid proprium” dell’intellettuale è indicato con chiarezza proprio da Gramsci. Consiste “nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, ‘persuasore permanente’”.

 

L’intellettuale si rivolge, con lo scritto o la parola, a un pubblico più vasto degli specialisti del suo settore o della sua disciplina, disposto ad ascoltarlo. A ragione, quindi, lo storico Corrado Vivanti, nell’introdurre, nel 1981, un “Annale” della Storia d’Italia Einaudi su “intellettuali e potere”, scriveva che questi sono “una categoria generica di soggetti di cui si può cogliere la funzione e – quando esiste – la coscienza soltanto in relazione al loro contesto socio-culturale e soltanto nel momento in cui tale relazione è attiva”.

 

Ma a che titolo e su quali temi parla? Se uno storico affronta problemi sociali, un filologo classico il tema della democrazia, un fisico questioni di organizzazione della ricerca, cioè se un esperto si esprime su materie che non rientrano nel suo campo diretto di studi, a che titolo parla, visto che non è legittimato a fornire la sua opinione dagli studi compiuti? Non rischia di diventare un “tuttologo”?

 

La risposta a questa domanda è difficile. Nello spazio pubblico, gli intellettuali portano sia un sapere specialistico, ma in forme accessibili, sia una attitudine alla ricerca, alla ragionevolezza, al dialogo, anche – ove necessario – una “vis polemica”. Hanno, quindi, titolo a essere ascoltati per il loro impegno nel dibattito pubblico, in quanto portino teorie, punti di vista, pensieri nutriti dalla ragione. Devono tener conto di un divario sul quale nel 1770 Edmund Burke richiamava l’attenzione nei suoi “Thoughts on the cause of the present discontents”: “E’ invero assai raro che gli uomini si sbaglino nei loro sentimenti circa la mala condotta della cosa pubblica; altrettanto raro che vedano giusto nel riflettere sulle sue cause […]; la maggior parte degli uomini, in fatto di politica, è in ritardo di almeno cinquant’anni”. Gli intellettuali dovrebbero contribuire a ridurre questo “gap”.

 

Detto questo in generale, bisogna poi distinguere, come faceva Norberto Bobbio, secondo il quale gli intellettuali si distinguono in due principali categorie, gli ideologi e gli esperti. I primi “elaborano principi in base ai quali un’azione si dice razionale in quanto conforme a certi valori proposti come fini da perseguire”. I secondi “suggerendo le conoscenze più adatte per raggiungere un determinato fine, fanno sì che l’azione che vi si conforma possa dirsi razionale secondo lo scopo”. Ma molti altri sono i tipi di intellettuali: l’intellettuale universale, l’esperto e uomo di scienza, l’intellettuale impegnato o militante, l’artista-figura di riferimento intellettuale, il consigliere del principe.

 

Gli intellettuali possono contribuire a ridurre o aumentare la distanza tra Stato e società, alimentando il dibattito che si volge nella seconda e la comprensione oppure la critica dell’azione di governo.

 

Quando è nata questa figura dell’intellettuale che dialoga con un pubblico più vasto dei suoi simili, diversa da quella del sacerdote, del filosofo, del predicatore rispettato? Alberto Asor Rosa in uno scritto del 1979 ha affacciato l’idea di una contemporaneità tra l’ascesa della borghesia a classe dirigente e la presa di coscienza degli intellettuali come ceto. Si tratta di una idea discutibile nella parte nella quale definisce ceto quello degli intellettuali, perché è piuttosto vero che gli intellettuali non formino – come osservato da Gramsci – un gruppo sociale autonomo e indipendente; ma interessante nella parte nella quale assegna al nuovo rapporto, che la borghesia riconosce tra sé stessa e la società nel suo insieme, la funzione di intellettuali che operino da coscienza critica e punto di snodo di una relazione difficile, ma finalmente riconosciuta tra popolo e Stato.

  

3. La parola e lo stile dell’intellettuale

L’intellettuale si rivolge a un pubblico più largo degli specialisti. Ma ha un dovere di parlare? Su quali temi? Per dire che cosa? Rivolgendosi a chi? Si affollano anche qui le domande.

  

L’intellettuale non ha un suo pubblico. Si rivolge genericamente a coloro che sono nello spazio pubblico, non solo le persone colte. Non può tacere perché non è ascoltato. Deve parlare anche se non ascoltato. Anzi, proprio quando non è ascoltato deve parlare. In altre parole, non c’è un rapporto stabile tra l’intellettuale e una parte del pubblico. Tra di loro non c’è un “dare e avere”.

 

In Italia, oggi, non c’è un silenzio degli intellettuali. Sono numerosi quelli che parlano con continuità per un largo pubblico. Parlano – per citarne solo alcuni - antichisti (Luciano Canfora), filosofi (Massimo Adinolfi), economisti (Tito Boeri, Emanuele Felice, Francesco Giavazzi, Mario Monti, Romano Prodi, Guido Tabellini, Giovanni Tria), scienziati politici (Giovanni Belardelli, Alessandro Campi, Mauro Calise, Ilvo Diamanti, Sergio Fabbrini, Maurizio Ferrera, Angelo Panebianco), storici (Ernesto Galli della Loggia, Alberto Melloni, Giovanni Orsina, Paolo Pombeni), cultori delle “hard sciences” (Gianfranco Pacchioni), psicologi (Massimo Ammanniti), giuristi (Michele Ainis, Giuliano Amato, Paolo Armaroli, Cesare Mirabelli, Valerio Onida, Gustavo Zagrebelsky, ma furono molto più numerosi quelli che intervennero nel 2016 nella discussione sulla modificazione costituzionale).

  

E’ difficile, non essendo stata scritta una completa storia degli intellettuali, fare un paragone con il passato. Dopo l’Unità, un ruolo importante è stato svolto, in epoche diverse, da intellettuali come Francesco De Sanctis, Benedetto Croce e Tullio De Mauro, tre intellettuali che non hanno rifiutato di fare il salto e di prestarsi alla politica, sia pure per breve tempo. Hanno svolto un ruolo importante, nel settore giuridico, Arturo Carlo Jemolo, Massimo Severo Giannini, Giuliano Vassalli, Giovanni Conso, Paolo Barile, più tardi Leopoldo Elia e Stefano Rodotà.

  

Sono state meno presenti le voci di culture che si sono sottoposte a una rigida divisione del lavoro disciplinare, nel senso di assegnare un ruolo limitato alla propria riflessione e avere un pubblico composto di operatori professionali. Molti studiosi sono rimasti prigionieri di un orientamento nato in Germania, che dettava rigidi confini tra le discipline, non consentiva di scavalcarli, richiedeva che ognuna avesse un suo proprio metodo (quindi, il diritto andava studiato con “metodo giuridico”, l’economia con “metodo economico”, e così via). Questa chiusura ha impedito per lungo tempo ai cultori di tali discipline di affacciarsi su un proscenio più vasto.

  

Il “quid proprium” dell’intellettuale è indicato con chiarezza da Gramsci. Consiste “nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, ‘persuasore permanente’”. L’intellettuale si rivolge a un pubblico più vasto degli specialisti del suo settore o della sua disciplina, disposto ad ascoltarlo

Sappiamo inoltre che, negli anni più recenti, gli intellettuali hanno perduto quei luoghi di formazione e di aggregazione che erano le riviste generaliste (si pensi a Leonardo, La Voce e Lacerba nella prima parte del Novecento, nonché alla Critica di Benedetto Croce, più tardi a Società, sotto la direzione di Gastone Manacorda e di Carlo Muscetta, e Belfagor di Luigi Russo). Esse una volta servivano a mettere a punto argomenti, a cimentarsi in aree diverse da quelle disciplinari, a farsi notare. Davano una voce collettiva e servivano da introduzione al grande pubblico. Di qui lo sviluppo di una vera e propria “cultura delle riviste”, come la chiamò Giacomo Debenedetti nel suo bel libro, edito nel 1971, “Il romanzo del Novecento”.

   

Meno frequente, oggi, è anche l’uso degli intellettuali di parlare collettivamente. Penso al “Manifeste des intellectuels”, del 1898, sull’“affaire Dreyfus” (da cui ha origine la fortuna moderna del termine, usato inizialmente in senso critico da Maurice Barrès), al “Manifesto degli intellettuali fascisti”, opera di Giovanni Gentile e a quello degli intellettuali antifascisti, opera di Benedetto Croce, ambedue del 1925.

  

Purtroppo, non esistono storie italiane degli intellettuali comparabili a quella scritta da Stefan Collini sugli intellettuali pubblici britannici tra il 1850 e il 1930, anche se l’opera collettanea curata nel 1981 da Corrado Vivanti copre in parte questa lacuna.

  

Se, però, è ancora numeroso il gruppo degli intellettuali che fanno sentire la propria voce, l’influenza loro è minore. Il primo motivo di questo minore impatto deriva dal mezzo usato, che è in prevalenza costituito da giornali e televisione. Quindi, l’uso dello strumento “one to many” – ora recessivo – colloca i molti intellettuali italiani fuori del circuito degli strumenti di comunicazione “many to many” (sostanzialmente il digitale e Internet), che raggiungono un pubblico più vasto. Il secondo motivo del minore ascolto è costituito dal rifiuto di una parte del pubblico (i destinatari del messaggio degli intellettuali), che identifica gli intellettuali come una parte della casta o della élite, e quindi ne rifiuta l’insegnamento.

  

Lo stile degli intellettuali è estremamente vario, da quello oracolare a quello polemico. La lingua tedesca è molto più ricca di quella italiana e consente di distinguere il “Vordenker”, il precursore, il “Nachdenker”, il riflessivo, il “Querdenker”, il pensatore laterale, l’Umdenker”, quello che cambia radicalmente il proprio pensiero, il “Kenner”, il conoscitore, il “Liebhaber”, l’amatore. Per l’epoca nostra è da privilegiare un altro tipo di intellettuale, il “trespasser”, quello che coglie le connessioni e le connessioni tra connessioni (un esempio è stato Albert Hirschman).

  

L’intellettuale deve esser chiaro se vuole stabilire un rapporto con il pubblico più vasto dei non specialisti. Ma questo non vuol dire che in taluni casi l’oscurità non sia una chiave per comprendere il successo di alcuni intellettuali. Ma questo è dovuto in larga misura alla reputazione, all’“effetto della conferma”, l’insieme delle opinioni che si formano circa un certo intellettuale.

 

4. I compiti dell’intellettuale

Veniamo all’argomento più difficile, quello della funzione dell’intellettuale in quanto si rivolga a un pubblico più vasto degli specialisti.

 

Nello spazio pubblico, portano sia un sapere specialistico, ma in forme accessibili, sia una attitudine alla ricerca, alla ragionevolezza, al dialogo, anche – ove necessario – una “vis polemica”. La funzione di operare da coscienza critica e punto di snodo di una relazione difficile, ma finalmente riconosciuta tra popolo e Stato

In termini generali, il grande storico della filosofia e della cultura Eugenio Garin ha così definito la funzione dell’intellettuale come “coscienza critica”: egli è l’autore di una “riflessione teorica consapevole della situazione civile del Paese, capace di esercitare la sua forza nei confronti di ogni parte”. Ma questa definizione generale non basta. Quali sono, in particolare, i suoi compiti?

  

Provo a elencarli. Deve, innanzitutto, definire il significato dei concetti e delle parole: “Caesar dominus et supra grammaticam”. Per quanto possa apparire strano, vi sono oggi nello spazio pubblico tante parole che vengono caricate di un sovrappiù di significati e che finiscono per creare aspettative, valori, ideologie: popolo, democrazia, rappresentanza sono solo tre esempi. Bisogna, quindi, liberare le persone dall’“esclavage de l’esprit” che discende da un cattivo uso del vocabolario.

  

Il secondo compito è quello di evitare che i morti si trasformino in antenati, cioè di aiutare una società a ricostruire nel modo più corretto il proprio passato. Questo, come è noto, è ricostruito, reinventato nello spazio pubblico. Gli stessi storici collaborano a questa opera: ogni storia è storia contemporanea.

  

E’ stato calcolato che quasi ogni generazione di storici ha riscritto la Rivoluzione francese. In Italia, ad esempio, sarebbe ora di accorgersi dei molti tradimenti che sono stati fatti alla tanto accanitamente difesa e discussa Costituzione del 1948, e che, al di là delle sue debolezze, c’è anche una Costituzione dimenticata che andrebbe riscoperta.

 
Il terzo compito dell’intellettuale è quello scolpito da Ernest Renan nei suoi “Souvenirs d’enfance et de jeunesse”: “L’essentiel dans l’éducation, ce n’est pas la doctrine enseignée, c’est l’eveil”. Questo vale anche per il compito dell’intellettuale che si rivolge al pubblico. Bisogna far pensare, mettersi tra gli “anywhere”, coloro che guardano il mondo da tanti punti diversi, perché sono troppi i “somewhere”, quelli che guardano il mondo da un solo posto.

 
In una delle sue “Lettere a Milena”, Franz Kafka spiega perché non leggesse i giornali: perché illustrano le cose, senza far intendere il “senso delle cose”. Ecco il quarto compito dell’intellettuale, fornire una prospettiva, spiegare quel che sta sullo sfondo, permettere di capire in quale direzione ci si muove, illustrare i significati, tradurre il linguaggio di una tradizione culturale nel linguaggio di altre tradizioni, o fare affermazioni autorevoli che arbitrano controversie di opinioni (queste due ultime sono le funzione indicate dal sociologo polacco Zygmunt Bauman).

 
Da ultimo, c’è la funzione internazionale o cosmopolita degli intellettuali, come la chiamava Antonio Gramsci, divenuta particolarmente importante a causa del progresso di quel complesso di fenomeni che chiamiamo riassuntivamente globalizzazione.

 
Nello svolgere questi compiti, possono esser molte le occasioni nelle quali l’intellettuale può esser tentato di giungere a compromessi, per i quali occorre ricordare l’insegnamento di Max Weber per cui “l’uomo politico può venire a compromessi, ma il dotto non li deve coprire”. Ma questo non vuol dire che l’intellettuale non deve esser tentato di mettersi al servizio del potere, come fece Turgot accettando la nomina a ministro nel 1774, tanto da far evocare a D’Alembert, in una lettera a Federico II “la vertu au pouvoir”. Questo, però, non è lo scopo dell’azione intellettuale, come dimostrò a metà del secolo scorso con due novelle raccolte in un volume intitolato polemicamente “Engaged in writing”, una chiara parodia dell’intellettuale francese “engagé”, l’inglese Stephen Spender.

 
5. I mezzi e il linguaggio dell’intellettuale


L’intellettuale parla da una “cattedra”: fa una conferenza, scrive su giornali e settimanali, partecipa a trasmissioni radiofoniche o televisive. La “cattedra” è parte del suo ruolo: è anche per questo che viene ascoltato più di altri. Che cosa succede all’epoca di Internet, quando tutti possono salire in cattedra e alcuni dei mezzi di cui solitamente si vale l’intellettuale raggiungono sempre meno persone (penso principalmente ai quotidiani)? L’intellettuale non perde certo il suo pubblico, ma questo può ascoltare anche quella cacofonia di voci che possono trovarsi e cercarsi “on line”. L’intellettuale perde una parte della sua funzione di guida, di selezione, allo stesso modo in cui il giornalista perde la sua funzione di selettore e ordinatore, o commentatore di notizie, quando ci si vale del “web” per informarci.

  
L’intellettuale al tempo di Internet deve affrontare un secondo problema, quello del suo modo di esprimersi. Se prima poteva articolare il suo pensiero, spiegare, entrare nei particolari, ora deve “stringere”, esser breve. Questo fa sorgere un paradosso. Quanto più assertiva è la politica (e lo è molto, ai tempi del cosiddetto populismo), tanto meno oracolare deve esser lo stile dell’intellettuale. Ma questo entra in contraddizione con lo stile imposto dal mezzo, che privilegia la brevità e comunque la concisione.

  
Tutto questo spiega perché gli intellettuali ricorrono ancora poco al mezzo “web”, nonostante la forza espansiva che esso presenta, nel senso che consente di raggiungere molte persone, specialmente quelle che non leggono giornali e non ascoltano la radio.

  
Il problema attuale è dunque quello di stabilire un giusto equilibrio tra vecchi e nuovi mezzi, e vecchio e nuovo linguaggio o stile. L’intellettuale deve, quindi, stare in equilibrio tra i mezzi tradizionali (giornali, radio, televisione) e quelli contemporanei (“social media” e altri che consentono, tramite la rete, colloqui “many to many”). Deve inoltre esser capace di aggiungere alle “lezioni” che fanno parte del suo mestiere, quelle “lezioni in pubblico” che sono richieste continuamente dallo sviluppo di festival (ve ne sono, in Italia, della storia, della filosofia, della comunicazione, e così via), scuole di politica, presentazione di libri, iniziative culturali di comuni, circoli, associazioni, licei e altri istituti scolastici. Quest’ultima attività spinge l’intellettuale verso un pubblico più vasto di quello consueto, che chiede qualcosa di più e di nuovo al vecchio mestiere dell’insegnante, di dare una guida, di indicare un futuro, non solo di analizzare il presente.

 
Più difficile, coniugare l’immediatezza, semplificazione e istantaneità richiesta oggi con la necessaria “riflessività” dell’intellettuale (se questo non ragiona e aiuta a ragionare perde il suo ruolo, tradisce la sua funzione).

  

6. I vizi degli intellettuali


Il medico, il professore, l’editore hanno ben definite figure professionali, alle quali attenersi. L’intellettuale svolge invece il suo compito “extra ordinem”. Non ci sono standard, criteri, principi, regole. Bisogna, quindi, guardarsi dal rimanere prigionieri di alcuni vizi. Provo a elencarli.

 
Il primo è quello dello scetticismo, che nega la funzione stessa dell’intellettuale. Questi, nel trattare un argomento, ne può diminuire il rilievo, o ritenerlo non realisticamente affrontabile, come Pasquale Villari che, a chi sosteneva che “bisogna aver fede nella libertà, il secolo, il progresso, i lumi”, consigliò “spegnete i lumi e andate a letto”.

 
Poi, “gli intellettuali amano più la veste degli araldi della disperazione che quella degli annunciatori di speranze” (sono parole di Paolo Rossi, ispirate da Bacone). Gli intellettuali italiani, in particolare, hanno sempre scelto un atteggiamento sdegnoso verso la realtà (rifiutandola), optando per la critica distruttiva.

 
Questo ha avuto due conseguenze. La prima veniva così notata da Benedetto Croce: i “moralmente disdegnosi e nauseati” si ritrovano con gli egoisti che provvedono unicamente a sé stessi. La seconda è quella di alimentare la protesta e il ribellismo, che finiscono per includere, come è accaduto negli ultimi anni, la contestazione degli stessi intellettuali e del loro compito “extra moenia”. Gl’intellettuali non devono, quindi, fare geremiadi (questo è un punto sottolineato da Richard Posner), ma assumere un atteggiamento cooperativo, “far sorgere speranze anche là dove sembra che prevalgano le tenebre” (è una espressione del cardinale Casaroli).

 
L’intellettuale, poi, non deve stare necessariamente sempre sul campo di battaglia. Gli fa bene di stare di tanto in tanto sulla “turris eburnea”, perché “l’uomo che sta a terra ha il potere di agire, ma non sempre il potere di vedere, né è il grado di scappare dalla rete che il destino e le sue precedenti azioni hanno intrecciato intorno a lui. L’uomo sulla torre ha il potere di vedere ma non quello di agire; la sola cosa che può fare è metter in guardia.[…] La sentinella può solo suonare l’allarme. Ma anche soltanto per fare questo deve rimanere nella torre” (Erwin Panofky). E, poi, l’intellettuale che vive immerso nella realtà deve di quando in quando esser avvertito di quel che Jorge Borges scriveva in “Altre inquisizioni”: “Il vero intellettuale rifugge dai dibattiti contemporanei: la realtà è sempre anacronistica”.

 
All’intellettuale, nella funzione che gli è propria, non fa male, infine, una certa dose di umiltà, non dimenticare che egli non è un “unto”, che non risponde a nessuno, che la sua opinione ha spesso un peso sproporzionato sia alla categoria alla quale appartiene, sia alla vastità delle sue conoscenze specialistiche. Sarà bene che quindi gli intellettuali mandino a memoria quella poesia di Jacques Prévert:

 
Il ne faut pas laisser les intellectuels jouer avec les allumettes
Parce que Messieurs quand on le laisse seul
le monde mental Messssieurs
N’est pas du tout brillant
Et sitôt qu’il est seul
Travaille arbitrairement
S’érigeant pour soi-même
Et soi-disant généreusement en l’honneur des travailleurs
du bâtiment
Un auto-monument,
Répétons-le Messsssieurs
Quand on le laisse seul
Le monde mental
Ment
Monumentalement.

Di più su questi argomenti: