In tempo di coronavirus, evitare Spengler

Massimo Adinolfi

Leggere “Il tramonto dell’occidente” non è il miglior viatico per difendere quel che resta della libertà

Ecco quel che ci voleva: Il tramonto dell’occidente di Oswald Spengler. In una nuova, pregevole edizione (a cura di G. Raciti, Aragno editore), di cui si occupa a lungo Claudio Magris sul Corriere della Sera dello scorso 9 marzo.

 

Perché occuparsene? Ma perché si tratta di un libro importante, a cui hanno attinto in molti, in cui ha preso forma, la bellezza di cent’anni fa, il senso ineluttabile di una fine. Fine di una civiltà, di un mondo, di una tradizione culturale, di un senso tragico della vita che – diciamolo pure – fa pendant con il Covid-19. Negozi chiusi, strade deserte, stadi vuoti: quale lettura è più indovinata di un grosso volumone in cui si stila un’infausta diagnosi per l’occidente ammalato e infiacchito? Noi occidentali “siamo il popolo più debole della Terra”, spiegava, nello stesso, malinconico mood, Umberto Galimberti, studioso del pensiero di Spengler, intervistato non più tardi di una settimana fa da Peter Gomez. E perché mai? Ma perché per avere l’acqua ci basta aprire un rubinetto, e per avere la luce premere un interruttore: comodo, troppo comodo. Così son bravi tutti. Vuoi mettere spaccarsi la schiena per attingere l’acqua dal pozzo, o dannarsi per accendere un fuocherello nella notte? Se ci siamo infiacchiti, addirittura incartapecoriti, è per via di una tecnica che ci assiste a ogni passo. Siamo, noi italiani, tra i popoli più longevi al mondo. E, come occidentali, figli della tecnica, siamo pure i più assistiti di tutti, ragion per cui siamo i più fragili, i più esposti ai colpi della fortuna, alle rivincite di una natura indomabile. Ai virus, insomma.

 

Naturam expellas furca, tamen usque recurrat, diceva il poeta latino Orazio. E Spengler prendeva nota: hai voglia a scacciare la natura con la forza, essa ritornerà sempre, e si prenderà la sua vendetta, portandoti, senza antibiotici o vaccini, all’altro mondo.

 

“Famigerato e magniloquente” libro, dice giustamente Magris. Che ricorda, fra le altre, l’avversione di Benedetto Croce, il quale, pur impensierito dall’“operone” di Spengler, non si prese nemmeno la briga di confutarlo, avendo di meglio da fare (così scrisse, recensendolo), o quella di Thomas Mann, che lo definì in modo folgorante “l’astuta scimmia di Nietzsche”. Senza essere socialisti o radicali, quei due severi intellettuali avevano, in effetti, qualche preoccupazione per la civiltà liberale e democratica, laica e pluralista che Spengler vedeva ormai morente.

 

Dopodiché, però, siccome è passato il tempo degli ostracismi o degli anatemi, le polemiche ideologiche hanno meno forza e l’occidente effettivamente non scoppia di salute, due pagine Magris le dedica volentieri al geniale pastone di primo Novecento. Dove ci sono cose di straordinaria attualità, è indubbio. Non solo la fine di una visione progressista della storia, ma pure, che so, il contrasto fra la malsana città e la salubre campagna – la sinistra che prende voti solo nei centri storici, così, è bella che sistemata – o lo scontro inevitabile fra le civiltà – vedasi, in questi giorni, l’Europa spaventata che si erge a scudo dei propri confini, contro i barbari che premono alle porte della Grecia – o infine il nesso fra razza e storia – e per quello dateci tempo, ché sta arrivando.

 

Però Magris non me ne voglia, il punto non mi pare sia la spiacevole attualità dello zibaldone spengleriano, addirittura maggiore di quella che lo scrittore tedesco poteva presagire nel 1918 (e dire che l’avvenire sarebbe stato assai buio, per l’Europa). Se tu scrivi che l’occidente muore quando “si vedono, a Varsavia, sciovinisti polacchi marciare agitando bandiere hitleriane”, siamo d’accordo; ma non è proprio la stessa cosa, e non bilancia un bel nulla, mettere sull’altro piatto e presentare come errore uguale e contrario la “viltà travestita da mentalità evoluta”, per cui si rinnegano le radici cristiane dell’Europa. Perché c’è , ci può essere un modo per affermare senza prevaricare, e la ricerca di questo modo, di questa misura, non è come sfilare tenendo alte le svastiche. Si tratta proprio di ordini di grandezza differenti: se ti preoccupa il razzismo strisciante, non puoi preoccuparti nella stessa maniera dei bulli nei bar o degli ultra negli autogrill. E nemmeno, signora mia, dei troppi che non leggono però scrivono e ogni giorno ti mandano i loro insulsi manoscritti. La chiacchiera, il bavardage intellettuale: ecco un altro topos, un altro sintomo di decadenza. Ma un sintomo di decadenza dentro quella stessa cultura della fine celebrata da Spengler. E dai molti spiriti che, non a torto, l’associavano alla volgarità della democrazia e dei diritti umani.

 

Insomma, leggere oggi Spengler non è proprio il miglior viatico per tirarsi su col morale e difendere i residui spazi di libertà. A meno che non ci si voglia incupire perché noi occidentali, figli della modernità e del progresso, abbiamo rimosso la morte, non vogliamo più saperne del morire, mentre un tempo i nostri cari morivano in casa, e c’erano, immutabili, i cicli delle stagioni e le leggi della natura: tutto quello, insomma, che la tecnica ha l’ardire prometeico di voler sovvertire. E questo è di nuovo Galimberti, che spiega pensoso le nostre paure. Ma io, senza particolare ardore, con buona pace di Spengler, Magris e Galimberti (nell’ordine che si preferisce), sono invece ben lieto dell’invenzione così innaturale degli ospedali e dei ventilatori, e anche se ormai mi sono dovuto convincere che la storia umana non progredisce, saprei ben dire quali regressi rischiamo, e tutta questa voglia di imparare a morire come una volta, apprendendolo magari “sur le champ”, come diceva il buon Montaigne, confesso che sarà pure innaturale e tecnologico e vile, ma io, francamente, non ce l’ho.

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