Max Weber

Vocazione politica

Lorenzo Ornaghi

Cent’anni dopo “La politica come professione” di Max Weber, il tema delle qualità dei leader e del ceto politico è ambiguamente aperto

Ancora oggi La politica come professione vale a identificare la visione realisticamente più appropriata (e appagante) della politica quale potrebbe o dovrebbe essere. Al tempo stesso e senza apparente contraddizione alcuna, le sue pagine suggellano anche il malinconico commiato da una “professione” della politica, la cui pratica più virtuosa (o meno toccata dagli ordinari vizi degli esseri umani) si è via via rarefatta e sembra sempre più dismessa nelle democrazie della tarda modernità.

 

Nessuno dei presenti alla conferenza, tenuta a Monaco dal professor Max Weber il 28 gennaio 1919, poteva certamente immaginare che stesse ascoltando una delle più grandi lezioni del Novecento, destinata a passare in eredità al secolo successivo. La conferenza era indirizzata particolarmente agli studenti del Freistudentischen Bund della Baviera. E il testo scritto di Politik als Beruf, ampiamente rielaborato, entrerà a comporre insieme con altri tre contributi l’opera Geistige Arbeit als Beruf, pubblicata nello stesso 1919, l’anno prima della morte di Weber. Il titolo della raccolta costituirà il calco di Il lavoro intellettuale come professione, cioè del volume che nel 1948 riunisce per i lettori italiani – con una nota introduttiva (specchio perfetto degli orientamenti dominanti nella “nuova” cultura post-bellica in Italia) di Delio Cantimori e nella traduzione di Antonio Giolitti – La politica come professione e un’altra importante conferenza, La scienza come professione, svolta da Weber nel novembre 1917.

 

Nessuno dei presenti, quel 28 gennaio 1919, poteva immaginare che stesse ascoltando una delle più grandi lezioni del Novecento

L’“inverno rivoluzionario 1918-19” e i suoi effetti sulla vita dello studioso tedesco ci sono raccontati da Marianne Weber. La quale, nell’imponente biografia da lei dedicata al marito, sinteticamente così elenca i principali eventi che scandiscono la sequenza dei drammatici mesi in cui la conferenza viene tenuta, rielaborata in mezzo a mille “fatiche” e finalmente pubblicata: il crollo della Germania, il bolscevismo russo, le rivolte spartachiste e la proclamazione del “governo popolare” dei Consigli degli operai e dei soldati in Baviera, l’agitazione chiliastica dei giovani, scossi dalla volontà (o dalla velleità) di edificare un mondo rinnovato perché purificato mediante la giustizia e la fratellanza.

 

Max Weber non è semplicemente un professore universitario, la cui effettiva o ipotetica influenza sulla politica dipenda dal numero dei lettori dei suoi saggi e dei suoi articoli giornalistici, o dal circuito chiuso dei reciproci riconoscimenti fra gli intellettuali di spicco durante una stagione politico-culturale più o meno lunga. Da giovane aveva preso parte attiva al movimento dei “socialisti della cattedra”, collaborando agli studi, alle inchieste e ai progetti di riforma economica e sociale della Germania. Dopo la disfatta tedesca, Weber era stato invitato dal ministro degli Interni, Hugo Preuß, tra gli esperti incaricati di redigere la nuova costituzione (e sarebbe un segno ulteriore della pericolosa smemoratezza che affligge questa nostra età lasciare impolverate nella soffitta le sue argomentazioni a proposito del federalismo/unitarismo dello Stato o dell’elezione a suffragio popolare del Presidente della Repubblica). Aveva anche partecipato alle conferenze del Comitato per le trattative di pace, sotto la presidenza del conte Bernstorff, e accompagnato la delegazione tedesca a Versailles.

 

Persino della politica più corrente, e delle sopraffazioni con cui talune “tecniche” di elezione parlamentare stavano sempre più divaricando il regime rappresentativo-elettivo dalla democrazia, Weber aveva conoscenza diretta e personale: la sua sicura posizione di capolista per il Partito democratico, a Francoforte, era stata ribaltata con un colpo di mano all’ultimo minuto.

Tuttavia, nonostante le sue insanabili miserie (o forse proprio per questo), la politica come professione non va mai degradata a un’attività di penultimo ordine. Giacché – come esordisce il capoverso finale del testo della conferenza – “La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. E’ perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”.

 

Le sue pagine suggellano anche
il malinconico commiato da una “professione” della politica che si è rarefatta nelle democrazie moderne

Ma chi può ritentare ogni volta l’impossibile, senza che la follia cancelli la ragionevolezza insegnata dall’intero pensiero occidentale, senza che il dèmone acquattato in quasi ogni “causa” della politica abbia la meglio sul dio che vorrebbe guidarla? Quali siano le “qualità” necessarie pur con grado diverso non solo al capo politico, ma anche a ciascuno di coloro che aspirano a fare della politica la loro professione, diventa allora una questione centrale. Ed è anche il tema rispetto al quale la visione weberiana della politica più sensibilmente segna la propria distanza rispetto alle precedenti concezioni “moderne”, che – dalla precettistica dei “ragionatori di Stato” di fine Cinquecento e del Seicento, a quella dei Cameralisti sino alla prima metà dell’Ottocento – nello Stato e in chi lo impersona avevano intravisto la sola anima in grado di vivificare la politica.

 

Nella parte iniziale della conferenza, Max Weber ha già riproposto la propria definizione di Stato, costruita e rigorosamente argomentata nei suoi maggiori lavori scientifici: ossia, “quel rapporto di dominazione di alcuni uomini su altri uomini, il quale poggia sul mezzo della forza legittima (vale a dire, considerata legittima)”. E, fra i tre principali tipi storici – il tradizionale, il carismatico, il legale – che fanno ritenere o presumere come legittimo il potere politico, conformando sudditi o cittadini a obbedirgli per “timore” o con “speranza”, ha anche preannunciato di voler richiamare l’attenzione particolarmente sul secondo. Difatti, per l’Occidente è caratteristico “il capo politico impersonato anzitutto nel libero ‘demagogo’, sorto sul terreno dello Stato cittadino proprio soltanto dell’Occidente e soprattutto della civiltà mediterranea, e in secondo luogo nel ‘capopartito’ parlamentare, cresciuto sul terreno dello Stato costituzionale che solo in Occidente ha messo salde radici”.

 

Del resto, a imporre di osservare con cura speciale il tipo di legittimazione carismatica – quindi, di tenere sott’occhio il ciclico riaffiorare e stabilizzarsi di un potere personale “di natura straordinaria” (poco importa se il carisma sia autentico, fittizio perché più o meno abilmente simulato, o soltanto immaginato dalla folla che ne avverte il bisogno) – è proprio il complesso delle irreversibili trasformazioni dello Stato sino alla sua attuale forma parlamentare, è proprio il rapporto ormai osmotico fra tutto ciò che è politico e la “moderna” organizzazione statale del potere. Oltre che ubiqua, pervasiva e invasiva dell’intera società, la politica appare assai più larga e potente dello Stato. E della sua vecchia anima, sempre più spesso, si occupa malvolentieri e solo per necessità.

 

Passione (intesa come dedizione a una causa), lungimiranza, etica della responsabilità. Sono le tre qualità che deve avere l’uomo politico

Appartiene a una visione realistica della politica, però, la consapevolezza che la politica rimane – sotto ogni cielo e dentro ogni regime – un’attività degli esseri umani. O perlomeno di quella quota, quantitativamente e qualitativamente variabile, in cui si alleano o fronteggiano coloro che – con motivazioni nobili o grette, manifestabili con relativa sincerità oppure gelosamente celate – ambiscono a “partecipare al potere o ad influire sulla ripartizione del potere”, godendone gli onori e ogni vantaggio o tornaconto correlato. Certo, diversamente dalla stragrande maggioranza degli altri esseri umani, costoro vivono (è questo il passaggio della conferenza ancora oggi più frequentemente citato) per la politica e di politica: poiché fra le due possibilità non vi è affatto un’alternativa secca, tuttavia, “idealmente ma per lo più anche materialmente, si fa l’una e l’altra cosa”. L’impasto umano di chi fa politica è infatti lo stesso che la natura, anche se dosando con proporzione differente le propensioni al vizio e le inclinazioni alla virtù, usa per ognuno di noi da tempo immemorabile e con miglioramenti talmente lenti e piccoli, da risultare quasi impercettibili.

 

Eppure, quella che in altri suoi scritti Weber chiama “la grande politica” esige da chi intenda professarla seriamente un sovrappiù di qualità. Egli ne elenca tre, quando, oltrepassata ormai la metà della conferenza, incomincia a predisporre gli argomenti della conclusione. Le tre qualità, che “possono dirsi sommamente decisive per l’uomo politico”, sono: la “passione”, intesa come dedizione piena a una “causa”, il “senso di responsabilità” (o, come dirà poco oltre, l’“etica della responsabilità” da tenere fermamente distinta dall’“etica della convinzione”), la “lungimiranza”, la quale richiede l’attitudine a conoscere e mantenere intatta “la distanza tra le cose e gli uomini”.

Chi si sente chiamato a fare politica, chi avverte in sé la “vocazione” (Beruf), chi intende farne “professione” quale pubblica promessa di adempimento del proprio officium nei confronti di un’intera comunità e non di una sua “parte” soltanto, deve mostrare di essere dotato di queste qualità. Come corrispettivo, egli godrà del “sentimento del potere”. E si considererà un individuo cui la sorte ha permesso, o che per proprie virtù è stato capace, di mettere la mano “nei raggi della ruota della storia”.

 

Le qualità, indicate da Weber come “decisive” per un capo politico e (in misura discreta e riconoscibile, almeno) per un intero ceto politico, appaiono differenti dalla forza del “leone” e dall’astuzia della “volpe”, che dapprima Plutarco, narrando del generale spartano Lisandro, e poi Machiavelli, consideravano necessarie affinché l’azione politica consegua – quando il caso non sia ostile o la fortuna troppo capricciosa – ciò per cui essa ogni volta nasce e che definitivamente riesce a consacrarla, ossia il “successo”. Sono anche qualità che conservano poche tracce delle pie raccomandazioni impartite ai principi cristiani – insieme con i duri precetti della “ragion di Stato” – nel pieno fiorire dell’età moderna. E forse è significativo che, se altre qualità sono possibili e auspicabili, Weber si sia alla fine sentito in dovere di indicare soltanto queste tre.

Weber definisce lo Stato come “quel rapporto di dominazione di alcuni uomini su altri uomini, che poggia sull’uso della forza legittima”

Trascorso un secolo dalla conferenza, il tema delle qualità dei leader e del ceto politico (un tema di rilevanza tale, per Weber, da costituire l’immediata premessa alle finali riflessioni su quale sia, e dove stia, il “luogo etico” in cui la politica ha dimora) resta ambiguamente aperto. Forse si è complicato e aggravato, via via che le ossidate procedure rappresentativo-elettive e lo svuotamento ideologico-organizzativo dei partiti hanno lasciato che s’infoltisse a dismisura la folla di chi chiede un proprio posto nella politica. O, più probabilmente, è un tema che abbiamo reso sempre più confuso, un tema che solo alle prime e più superficiali apparenze riteniamo davvero rilevante (e già critico) per il futuro della “democrazia dei moderni”.

 

Ogni realistica considerazione della politica, del resto, deve oggi fare i conti con il fatto che la realtà della politica – di quella “grande”, così come di quella più modesta o insanabilmente mediocre – è sfuggente e forse indefinibile, incrostata com’è non solo dalle scorie delle ideologie del Novecento, ma anche dalla “politica immaginaria” in cui candidamente confidano pressoché tutte le convinzioni e le rappresentazioni sociali prevalenti. Più importante e suggestiva della politica quale essa davvero è, l’“attesa” della politica – di “nuovi profeti e nuovi redentori”, scrive Weber nelle ultime righe dell’altra sua conferenza, La scienza come professione – scandisce e falsamente unisce gli sconnessi momenti di questo nostro presente. Talché la “politica attesa” ci rende in qualche modo simili – è ancora Weber, nella medesima pagina – alle sentinelle del canto della scolta idumea durante il periodo dell’esilio: “Verrà il mattino, ma è ancora notte”.

 

Rimane un’ultima domanda. Che riguarda non più (o non soltanto) il rapporto fra Stato e politica della modernità europea, bensì e in particolare quello fra la politica nella conformazione e secondo i rendimenti attuali – con i suoi leader, il ceto eletto e il “popolo” degli elettori – e le consolidate, mature democrazie dell’Occidente. Marianne Weber racconta che, discusso ed esaminato durante un seminario tenuto da Max Weber il primo volume dell’opera di Oswald Spengler Il tramonto dell’Occidente, gli studenti chiesero un confronto diretto tra Weber, Spengler e alcuni altri pensatori. L’appassionante duello intellettuale durò un giorno e mezzo, durante il quale la costruzione teorica di Spengler venne pur rispettosamente smontata, pezzo dopo pezzo, dai suoi eminenti interlocutori accademici. Non è infondato congetturare che, oggi, l’esito di quel duello sarebbe probabilmente diverso.

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