Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista (foto LaPresse)

I politici e la promessa della felicità

Per realizzarla, c’è bisogno di riscoprire altre parole: giustizia sociale e doveri

Professor Cassese, siamo in fase pre-elettorale e i candidati promettono la felicità. Il vicepresidente della Camera dei deputati ha prospettato, in una lettera al Corriere della Sera, un nuovo Eldorado. Il presidente del Senato, nel discorso di insediamento, ha proposto al popolo di scegliere liberamente (“avremo un programma scritto e ideato attraverso un percorso partecipato”).

Quando si deve chiedere il voto al popolo si fanno facili promesse, facendo balenare futuri rosei, specialmente se non si sa cosa sia la responsabilità del governare. D’altra parte, lo Stato si incarica del benessere (“welfare state”) e il benessere è condizione della felicità. Thomas Jefferson, nella dichiarazione di Indipendenza (1776), scrisse che vi sono diritti inalienabili, tra cui “life, liberty and the pursuit of happiness”. Dunque, la ricerca della felicità è persino valore costituzionale. Ma come assicurare la prosperità? Vogliamo parlarne prendendo le distanze dalla cronaca, facendo un percorso che ci porta lontano?

 

Sono pronto alla sfida, e anche un po’ curioso.

Comincio da molto lontano, addirittura da Voltaire, il quale ha scritto, inaugurando un modo nuovo di fare la storia, che gli interessava la “sorte degli uomini piuttosto che i mutamenti sul trono” (nel voluminoso “Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni”, di cui Einaudi ha pubblicato di recente la traduzione italiana). Emanuele Felice, giovane e grande storico italiano, ha seguito l’insegnamento di Voltaire e ha scritto un libro importante e ambizioso, di cui consiglio vivamente la lettura, la “Storia economica della felicità” (Bologna, il Mulino).

  

La felicità? Quale felicità?

Non sia precipitoso e ascolti. Felice sostiene nel libro che vi sono stati quattro stadi della storia dell’umanità. Il primo (“il giardino dell’Eden”) è quello della felicità, il secondo (“la valle di lacrime”) quello dell’infelicità, il terzo (“la città dell’uomo”) e il quarto (“il villaggio globale”) quelli nei quali si ritrovano isole di felicità. I lunghi secoli dei cacciatori-raccoglitori, compresa l’età della pietra, hanno visto l’uomo felice, con abbondanti risorse naturali, buon nutrimento, maggiore parità tra i sessi, un lavoro meno duro. Poi, la crescita della popolazione ha costretto a coltivare la terra: l’uomo ha dovuto adattarsi al pesante lavoro dei campi, sono state sterminate le comunità nomadi, la dieta è diventata più povera, vi sono state carestie, sono aumentate le malattie, sono emerse stratificazioni sociali e diseguaglianze, nonché domini territoriali (Stati, imperi) e discriminazioni, la felicità è diventata felicità individuale o promessa (ultraterrena). Lo sfruttamento del lavoro animale, il surplus di cibo, la specializzazione del lavoro, l’unificazione del globo, la peste, le esplorazioni geografiche, la riforma protestante, lo sviluppo delle scienze, la “repubblica delle lettere”, l’Illuminismo, poi la rivoluzione industriale, hanno fatto aumentare, in modi diversi, il benessere materiale, ridotto la mortalità, aumentato l’istruzione. Si sviluppa l’idea che l’uomo abbia diritto alla felicità. Infine, nel “villaggio globale” diminuiscono le diseguaglianze tra i paesi e si afferma lentamente l’idea, esposta per primo da Diderot, che “la felicità si coltiva contribuendo alla felicità degli altri, vale a dire coltivando la virtù”: essa, quindi, non consiste solo nell’arricchimento personale, ma anche nella qualità della vita di relazione, nell’istruzione, nella longevità, nel godimento delle libertà politiche. Ci lamentiamo ancora oggi della condizione umana, ma – osserva Felice – un miliardario dell’800 non aveva l’aria condizionata, il frigorifero, la televisione, l’auto dotata di radio e lo smartphone.

 

Ora capisco: è la felicità collettiva: prosperità, benessere, non per l’uomo solo, ma per l’uomo in società, la felicità che esiste solo a condizione che sia anche felicità dell’altro.

Non posso dire che Felice si spinga tanto lontano. Ma mi lasci tornare sul libro, per spiegare perché lo ritengo tanto importante. In primo luogo, in questo libro si ammira la capacità di abbracciare tempi e spazi, l’umanità dai suoi albori a oggi, muovendosi dalla Cina alle Americhe, all’India, all’Europa. Poi, l’abilità nel mettere insieme condizioni materiali di vita, clima, geografia e riflessioni di Epicuro, Diogene, Seneca, degli illuministi, del pensiero taoista e di quello buddista e confuciano, fino a Campanella, Muratori, Verri, in un abile tessuto nel quale si connettono gli eventi storici e il modo in cui contemporanei e discendenti li considerarono. Insomma, in questo libro c’è una visione “panottica”: passato, presente e futuro si uniscono; storia economica e altre discipline sociali non sono separate; condizioni materiali e aspirazioni rivivono insieme.

 

Insomma, lei consiglia la lettura del libro.

Sì, la consiglio specialmente a coloro che hanno ammirato le grandi e acute sintesi, quelle del Max Weber di “Economia e società”, quell’opera multipla di cui di recente meritoriamente l’editore Donzelli ha pubblicato in traduzione italiana la edizione critica, quelle di Jared Diamond, quelle di Yuval Harari. Ma, rispetto a queste ultime, con attenzione anche per l’aspetto intellettuale, quello che gli illuministi chiamavano lo spirito delle nazioni e delle epoche.

 

Professor Cassese, non sarebbe ora di tornare al tema dal quale siamo partiti?

La promessa del benessere, della felicità. Sì, ma ancora facendo un passo indietro. Il Rapporto Censis dice che il 78,2 degli italiani si dice abbastanza soddisfatto della vita che conduce. Quindi, non è infelice. Aggiungo che la parola chiave sembra oggi un’altra, “giustizia”, a giudicare dai proclami grillini e dallo spazio dato a uomini della giustizia nel mondo della politica. Giustizia, più da aule di tribunali e di procure, che giustizia sociale, come si diceva ai tempi della Costituzione. Insomma, la giustizia piccola, quella del singolo caso, non la giustizia nella società. Un’altra parola dominante è “diritti”, nel senso di pretese individuali, ma disaccoppiati dall’altra parola con cui essi hanno viaggiato per due secoli, e persino nella Costituzione italiana, “doveri”. La diffusione di queste parole dà un segno della epoca che stiamo vivendo. Pensi anche alle parole che abbiamo dimenticato, come, ad esempio, “progresso”. Se la felicità si raggiunge coltivando la virtù, non sarebbe ora che la politica, che pare dormire, si riappropriasse di queste parole, giustizia sociale e doveri (accanto a diritti)?