L'aula di Montecitorio (foto LaPresse)

Governi precari e crisi della democrazia

Redazione

I possibili rimedi all’ormai prossima (e duratura) instabilità governativa. Parla Sabino Cassese

Professor Sabino Cassese, dopo il 4 marzo, giorno delle elezioni politiche nazionali, andremo nuovamente verso un periodo di precarietà ministeriale, con tutto ciò che consegue (alta conflittualità, discontinuità delle politiche, governo dello “status quo”)?

 

Temo che questo ci aspetti, e sarà destinato a durare, visto che di riforme costituzionali non si parla e di quella elettorale è meglio non parlare, considerato che un paese non può cambiare vestito ogni giorno.

 

Possibile che all’Assemblea costituente non si sia pensato a questi inconvenienti del parlamentarismo?

 

Ci si pensò, eccome! Prima ancora, il 16 aprile 1946, al congresso fiorentino del Psi, Massimo Severo Giannini, che poi affiancò Nenni al ministero per la Costituente, propose che il voto di sfiducia fosse deciso solo con maggioranza qualificata. La sottocommissione della Commissione dei 75, quella che scrisse la Costituzione, approvò con 22 voti a favore e 6 astenuti, nessuna voce dissenziente, l’ordine del giorno Perassi, secondo il quale il sistema parlamentare doveva essere preferito “con dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”, “per assicurare una conveniente continuità del governo”.

 

Mortati, una delle voci più autorevoli delle Democrazia cristiana, propose che la fiducia durasse due anni. Un altro democristiano, Tosato, propose la sfiducia costruttiva, un istituto che in Germania avrebbero adottato tre anni dopo. Insomma, i costituenti erano ben consapevoli del fatto che la debolezza dei governi, a lungo andare, produce la crisi della democrazia. Calamandrei, il 4 marzo 1947, parlando sul progetto di Costituzione, dovette, però, constatare che del “fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo, nel progetto di Costituzione non c’è quasi nulla”.

 

Perché questo capovolgimento di posizioni? Che era successo nel frattempo?

 

La risposta va cercata forse nel peggioramento della situazione internazionale, nella sfiducia reciproca tra i due schieramenti in Italia, nel risultato elettorale del 1946 e nell’azione di De Gasperi, la cui posizione cambiò dopo le elezioni del 1948, che lo condussero al tentativo di nuova legge elettorale del 1953.

 

Questo spiega le conseguenze. Nel libro su “Governare gli italiani. Storia dello Stato”, lei ha calcolato 127 governi in 153 anni di unità, comprensivi del ventennio dominato dall’unico governo Mussolini. Quindi, escludendo il fascismo, poco più di un governo per anno.

 

Infatti, festeggiamo il settantennio della Costituzione con il sessantaquattresimo governo repubblicano. Tornando indietro, non dimentichi che il governo non era neppure menzionato nello Statuto albertino, che ha retto il Regno d’Italia e che la figura del presidente del Consiglio dei ministri fu riconosciuta nel 1867 e si stabilizzò solo nel 1876, ma principalmente nel 1901. L’Italia liberale aveva convissuto con frequenti crisi governative.

 

E il secondo Dopoguerra?

 

Qui veniamo al paradosso: le forze politiche, dominate dalla sfiducia reciproca, non vollero un meccanismo di stabilizzazione. Ma da stabilizzatrice funzionò la Democrazia cristiana, perché tutti i governi ruotarono intorno a questo partito-cerniera, tanto da far chiamare quella italiana una “uncommon democracy” (temine usato dal politologo americano T. J. Pempel per indicare democrazie come quella italiana e quella giapponese, senza alternanza e sempre con un partito al potere). Comunque, un centro politico indebolito dalla precarietà, accentuata dalle divisioni interne della Democrazia cristiana.

 

“Cui prodest”, a chi conviene tutto questo?

 

Dovremmo invece cominciare da chi ne paga i costi. Comunque, per rispondere alla sua domanda, direi che l’instabilità governativa, anche quella dei tempi della Democrazia cristiana, dà la parola a chi regge i fili, le segreterie dei partiti, che negoziano, contrattano, si oppongono, fanno cadere, rialzare, sostituiscono, cambiano governi. Poi, ai parlamentari, che decidono le sorti dei governi, consentendo le alzate d’ingegno, i mutamenti di umore, le trappole, gli intrighi. Infine, le corporazioni. L’instabilità governativa è la sagra delle corporazioni, che dialogano con i parlamentari, li spingono a invadere il campo amministrativo e governativo, con continue esondazioni dalla legislazione vera e propria. Poi ci si lamenta della scarsa chiarezza e della farraginosità delle leggi.

 

Come se ne esce? Ci sono rimedi?

 

Cambiare la Costituzione? Sarebbe la strada maestra, introducendo la sfiducia costruttiva o dando maggiori poteri al presidente della Repubblica, ad esempio prevedendo che un governo possa essere costituito anche senza preventiva fiducia parlamentare (ferma rimanendo la sfiducia). Oppure stabilendo che la fiducia abbia una durata predeterminata, salvo sfiducia: in fondo, il Parlamento ha una durata determinata, così come tutti i titolari di cariche pubbliche. Il popolo legittima il Parlamento per la durata di cinque anni, salvo crisi: perché il Parlamento non dovrebbe poter legittimare il governo per una durata predeterminata? Oppure procedere attraverso una convenzione costituzionale nella stessa direzione. Infine, rafforzare le capacità negoziali delle forze politiche. In fondo, non hanno problemi analoghi in Germania e in altri paesi europei? Non si mettono d’accordo, stipulando accordi di coalizione dettagliatissimi, e assicurando una base stabile ai governi?

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