(foto LaPresse)

Il benessere “oltre il pil”, senza rancore

Massimiliano Valerii

Superare il Prodotto interno lordo come misura unica della prosperità di una società non più semplice si deve, ma attenti a non cadere nella nostalgia del pil

Il nuovo Rapporto dell’Istat sul bes – la misura del “benessere equo e sostenibile” – pubblicato qualche giorno fa pone una sfida radicale mascherata da mero problema di definizioni. Quando la crescita economica si traduce in sviluppo sociale? Come si quantifica la prosperità di una nazione? Andare “oltre il pil” e considerare il benessere secondo più dimensioni (dalla buona salute all’istruzione, dalla qualità del lavoro alla ricchezza delle relazioni personali) significa superare una contabilità che andava bene per una “società semplice” e che oggi non basta più. 

 

 

Semplice era la società italiana segnata dalla grande espansione del ceto medio, quando nel giro di un paio di decenni, tra gli anni ’60 e i ’70, i figli delle famiglie operaie e contadine si erano ritrovati insieme ai figli della borghesia percorrendo una traiettoria di crescita economica che era al tempo stesso una formidabile parabola inclusiva, che riduceva le disuguaglianze e favoriva la coesione sociale. Era una progressione apparentemente infinita, con due sole brevi eccezioni recessive: la crisi inflazionistica alla metà degli ’70 e quella monetaria del ’92-’93. Si cumulavano la forza di riscatto del lavoro, la spinta trasformatrice dei consumi, la leva securizzante della patrimonializzazione, la garanzia di ultima istanza del welfare pubblico. Risultato? Una stratificazione al rialzo del tenore di vita per tutti.

 

Nella società complessa non è più così. E se ci domandiamo come mai negli anni della grande recessione non siamo arrivati a un collasso, con riferimento al segmento dei giovani (quello che ne è uscito più malconcio), la risposta è che i giovani sono pochi e non più in grado di innescare un conflitto sociale come avevano fatto in altre fasi della nostra storia recente. Nel leggendario 1968 le persone con meno di 35 anni erano 29 milioni e rappresentavano più del 53 per cento della popolazione, erano ancora il 52 per cento durante la contestazione del ’77, mentre oggi si sono ridotte al 34 per cento e i giovani di 18-34 anni (con diritto al voto) non arrivano a 11 milioni: meglio parlare di pensioni. Ma se non c’è mobilità sociale, né conflitto sociale, allora cova il rancore: l’intima convinzione di andare incontro a un destino senza stella polare.

 

Il bes ci sfida anche su un altro piano: quello identitario. Perché la crisi delle tre grandi narrazioni post-ideologiche in voga nell’ultimo ciclo storico ci interroga sul “luogo” del benessere in cui ora costruire la nostra identità. La prima grande narrazione sosteneva che avremmo trovato una nuova patria in una Europa unita senza più frontiere: un sogno che si è infranto di fronte al fallimento della governance europea alla prova della recessione e dei flussi migratori, quando abbiamo conosciuto l’Europa matrigna dell’austerity, quando si sono levate le voci del leave inglese. Avevamo anche creduto che la globalizzazione avrebbe dispensato benefici su una tavola imbandita per tutti, mentre poi abbiamo dovuto constatare che in molti sono rimasti indietro: non solo i forgotten men di Trump, ma anche chi si trincera dietro muri e fili spinati alle diverse latitudini europee. Infine, avevamo confidato nel fatto che internet e la rivoluzione digitale avrebbero sparso conoscenza e democrazia ai quattro angoli del pianeta, mentre oggi ci ritroviamo a districarci tra fake news e post-truth.

 

Certo, non aiuta il fatto che galleggiamo su un profluvio di dati. Siamo arrivati al “dataismo”, come scrive pungente Roberto Calasso nel suo ultimo libro (“in un secolo siamo passati da Dada a big data”). Il bes va nella giusta direzione, riducendo la complessità con la forza della sintesi. Ed è un gran merito l’averlo incardinato – almeno parzialmente – al processo del Def e della Legge di bilancio.

 

Il bes ha dunque sotterrato il pil? Tutt’altro. Il 1° Rapporto è del 2013 e coincide con il secondo momento di massima caduta del pil nella crisi (si sono persi più di 4 punti tra il 2012 e il 2013, più di 5 nel 2009). Dopo sono stati anni di passione per una Italia intrappolata nel limbo della crescita (del pil) da “zero virgola”. Il desiderio di andare oltre il pil ha rischiato di tramutarsi in una nostalgia per il pil. Perché il nuovo corso, da Maastricht al fiscal compact, è tutto centrato sulla sostenibilità della finanza pubblica: i nuovi moloch con cui confrontarci sono il debito pubblico e il rapporto deficit/pil. Allora un nuovo ciclo finalmente imperniato sul benessere equo e sostenibile inizierà davvero quando nell’immaginario collettivo degli italiani il bes avrà preso il posto dello spread, lo spauracchio che non vogliamo torni a toglierci il sonno.

 

*Direttore generale del Censis

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