(foto LaPresse)

Decreto salvo tampone. Ragioni per essere orgogliosi secondo Pardo

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Decreto approvato salvo tampone.

Giuseppe De Filippi

E salvo abbracci. 


 

Al direttore - L’angoscia che continuamente ci arriva dai bollettini medici è asfissiante. Ma stamattina mi sono svegliato con un piccolo, orgoglioso, ingiustificato senso di speranza (forse merito del sole pazzesco che vedo di fronte a me). Ho pensato che dopo questo enorme dolore e gigantesco spavento la società forse recupererà un approccio più umanista e solidale. Capirà che la salute delle persone deve essere sempre messa al primo posto, che certi campanilismi beceri possono essere accantonati, che la scienza e la cultura non sono un’opinione e devono tornare al centro di tutto, che le tasse se spese bene diventano risorse capaci di aiutare le persone quando sono in difficoltà. Ascoltavo, domenica sera, il passaggio del ministro Roberto Gualtieri sulla necessità di uno choc fiscale capace di sostenere la crescita. Più Keynes insomma, meno turboliberismo e soprattutto semplificazione del sistema, necessaria per aiutare le persone a costruire le proprie iniziative imprenditoriali. Se nell'emergenza riusciamo a costruire un ospedale in pochi giorni allora proviamo a mettere lo stesso senso di urgenza nel resto della macchina amministrativa. E si può certamente sforare un obiettivo di bilancio in nome di un interesse più grande (la salute della nostra gente, altro che immunità di gregge). Ragionamento possibile perché questa è un'emergenza globale. Se una nazione sola fosse entrata in crisi lo scenario sarebbe stato diverso. Ma il coronavirus è un trauma per tutto il mondo e allora forse può diventare un pensiero comune, una sensibilità condivisa che può lasciare spazio a un modello che rimetta al centro welfare e competenza. Con uno stato forte capace di aiutare chi è in difficoltà economica senza diventare il solito sprecone assistenzialista. Un forte abbraccio fogliante. Viva l’Italia.

Pierluigi Pardo 

 

Quando ci sono emergenze come quella che stiamo vivendo la vera mano invisibile che conta è quella dello stato. E più uno stato è forte e riesce a cooperare con gli altri stati, più il cittadino si sente al sicuro. La vera protezione è questa e speriamo sia una lezione anche per il futuro. Grazie e un abbraccio.


 

Al direttore - Da molti anni, periodicamente, di fronte alle difficoltà economiche del paese, si evoca più o meno impropriamente un nuovo Piano Marshall. Ha fatto bene Cingolani a ricordare il fatto banale che dalla crisi economica in corso, non uscirà alcun vincitore con la forza e gli interessi geopolitici degli Stati Uniti nel secondo Dopoguerra. Un vincitore che, tra l’altro, aveva un vitale bisogno di collocare le sovrapproduzioni ereditate dall’economia bellica e quindi ben disponibile a finanziare paesi distrutti e che dovevano risorgere acquisendo beni e servizi. Circa 35 anni or sono scrissi per le edizioni di Comunità un libro sulla politica economica dell’Italia centrista (sostanzialmente tra il 1948 e il 1960). Ricordo che nel leggere i documenti dell’epoca e nelle interviste ai protagonisti sopravvissuti, quel che mi saltava all’occhio e che più del Piano Marshall, può essere utile oggi, era la disposizione mentale del paese e della sua classe politica ed economica nell’affrontare la ricostruzione, che fu alla base del miracolo economico. Anche allora l’Italia soffriva di un grave ritardo di efficienza e nei livelli di produttività in tutti i settori economici: l’Italia era giunta all’industrializzazione dopo i maggiori paesi europei e l’autarchia degli anni Trenta aveva peggiorato la situazione. Ma, a differenza di oggi, si riscontrava una maggiore consapevolezza di quella situazione. Tutti i maggiori imprenditori (di aziende private e pubbliche) si misero per tempo a studiare e a copiare dai paesi più avanzati e segnatamente dagli Stati Uniti. Non parlo soltanto nel noto caso dell’industria automobilistica, perché ciò accadde anche nella siderurgia, nella cantieristica, nella chimica, nelle telecomunicazioni, ecc. Non vi erano remore a imparare (e i governi centristi agevolavano) malgrado si uscisse dall’ubriacatura e dalla retorica nazionalistica. Anzi, in molti casi, un certo amor patrio di cui erano pieni gli uomini formatisi dopo la Prima guerra mondiale, impresse una ulteriore spinta a far risorgere il paese per portarlo alla pari con le altre grandi democrazie occidentali. Insomma il diffuso e giustificato complesso di inferiorità servì da impulso per migliorare, senza cercare gli alibi forniti dalla passata grandezza (il Rinascimento, il supposto “genio italico”, ecc.) come spesso accade oggi. Ora è certo il momento dei provvedimenti d’urgenza per superare l’emergenza, ma coloro i quali, per loro fortuna, non sono in prima linea in questa guerra, hanno il compito di sostenere la prima linea, ma anche di predisporre idee, progetti e il clima culturale che valgano per il lungo periodo, da mettere in campo non appena superata la fase acuta della crisi. Ricordo che la politica economica riformista alla base del miracolo economico venne ideata già nel corso della guerra in clandestinità dalle migliori menti del paese. Prendiamo di petto i nostri ritardi (senza mascherarli con le scuse più diverse), dal sistema sanitario a quello dell’istruzione e della ricerca, al nanismo delle imprese, all’inefficienza degli apparati pubblici. Tutte cose note e straripetute, soprattutto sul Foglio, ma serve un passo radicalmente nuovo, senza consolarci con i nostri pochi punti di forza, questi ci sono, lavoriamo su tutto il resto che non è poco.

Cordiali saluti e buon lavoro,

Bruno Bottiglieri

Un tempo, a proposito di Piano Marshall, l’America ragionava su come trasformare la sua egemonia sul mondo in una condizione utile a creare maggiore benessere sul pianeta, oggi l’America, con Trump, usa la sua forza per tentare di acquistare vaccini in Europa, e in particolare, per utilizzarli in esclusiva sul suo territorio. O tempora, o mores. 


 

Al direttore - Perché i sovranisti si lamentano dell’assenza dell’Europa? Non è forse quello che vogliono?

Buon lavoro.

Paolo Moro

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