Carlo Ratti e Italo Rota, CURA (Connected Units for Respiratory Ailments), modello

Curare progettando

Michele Masneri

Un sistema open source per creare ospedali mobili evitando i contagi tra i medici. Milano dopo la pandemia. E il ruolo del design. Parla Italo Rota

Certo, sto lavorando molto più del solito”, dice al telefono Italo Rota, archistar milanese, allievo di Gregotti, futurologo impegnato su vari fronti, e come tutti nei giorni del Corona preso in uno smartworking forsennato. Però, se per alcune professioni è facile, “nel caso di un progettista pone problemi pratici: per portare modellini e schizzi dallo studio a chi li stampa in 3D per esempio stiamo utilizzando Glovo. Ma è tutta una cosa da inventare giorno per giorno”, dice Rota, che insieme a Carlo Ratti ha disegnato “Cura”, acronimo di Connected Units for Respiratory Ailments, un sistema di unità intensive “componibili” basate su una struttura a container che si monta e si smonta come un Lego.

 

“E’ un progetto in open source, che chiunque può dunque prendere e usare. E’ un oggetto molto complesso tecnologicamente, e l’abbiamo studiato anche per proteggere anche il personale sanitario ed evitare il contagio tra i medici, non solo tra i pazienti”, dice Rota, che in ospedale ci è finito, qualche tempo fa, per altri malanni, e dice che “lì capisci molto. Trovi molta umanità e sostegno. E tanta tecnologia. Un ospedale di oggi rispetto a un ospedale di trent’anni fa è irriconoscibile. Anche con le degenze; oggi ti fanno cose incredibili e dopo tre giorni sei già fuori”. Così ora sta progettando, sempre insieme al collega Ratti, altri sistemi che risolvano problemi ospedalieri, per esempio un modo per mettere in contatto i familiari con i pazienti quando si tratta di salutarli per l’ultima volta. Una specie di buco nero di questa pandemia, il momento del trapasso anonimo, tragico, senza comunicazione. “So che sembrano cose macabre”, dice l’architetto, “ma è molto importante. “Le tecnologie ci sono, ma bisogna trovare un meccanismo che sia etico e dignitoso, e pieno d’amore”.

 

Intorno alla pandemia c’è Milano, l’Italia, il mondo. “A Milano”, dice Rota, “tutti conosciamo qualcuno che si è ammalato, che è guarito. E qualcuno che ci ha lasciato le penne. Ognuno conosce tutti i vari livelli della malattia. Nel resto del paese la percezione è diversa. Prego solo che non succeda al centro-sud”.

 

A chi critica la sanità lombarda, e italiana in genere, Rota risponde che “stiamo sperimentando: nessuno può fare bilanci”: tutti ci hanno riso contro. Però la Spagna non sa come seppellire i suoi morti, la Francia esporta malati in tutti i paesi vicini perché non ha i posti letto, a New York si prevede l’apocalisse. Senza parlare di Sudamerica e Africa. Nessuno sa come fare”. Contro Milano, e il nord, feriti, gli sembra che ci sia perfino “un po' di piacere, sicuramente inconscio, nel resto del Paese, un po' come se il destino si fosse vendicato. Vorrei vedere cosa avrebbero fatto in altre parti”.

 

Certo la Milano che uscirà dalla pandemia non sarà quella di prima. Uno scenario che potrebbe ricordare quello del post-Tangentopoli, a cui lui ha assistito in prima persona. All’epoca fu chiamato infatti a far parte della prima giunta post Mani Pulite, guidata dal sindaco Marco Formentini. 1995, venticinque anni fa. “Gestimmo la crisi ecologica e sistemammo il problema della raccolta dei rifiuti”. Sembra incredibile, ma negli anni Novanta Milano aveva un’emergenza rifiuti. Formentini mette su una giunta variopinta. Il Financial Times titolerà: “Milan shows the way”, Rota realizza le “riciclerie di quartiere”; e la “prima rete internet pubblica d’Italia”. Emilio Tadini e Mimmo Rotella disegnano i cassonetti. In giunta, anche, Philippe Daverio. Consigliere comunale un giovanissimo Matteo Salvini (che difende il Leoncavallo dal sindaco che lo vuole estirpare). Si aspettava che sarebbe diventato un leader nazionale? “No. Ma era intelligente, molto. Di un’intelligenza furba”. La Milano del post tangentopoli era “una città che aveva preso coscienza di come aveva vissuto nei precedenti sette-otto anni, sopra le righe. Aveva perso di vista il manifatturiero, era arrivata la finanza, la criminalità, le multinazionali. Era una città molto traumatizzata”. E adesso che succederà? “Milano è ingovernabile”, dice Rota. Nel senso che “i sindaci contano fino a un certo punto. La forza vera di Milano son sempre stati i cittadini”. E i grattacieli, il boom, che fino a un mese fa dettavano la linea al resto d’Italia? “Ma i grattacieli sono un epifenomeno: certo c’era il desiderio che la città aveva da un secolo, di averli, questi grattacieli. Dipende anche da come andrà la Gran Bretagna, se molte società si trasferiranno qui ci sarà ancora voglia di grattacielo. Però la città vera non sta nei grattacieli, lì stanno le banche e le assicurazioni. Adesso le poche aree rimaste non costruite saranno sottoposte a progetti molto diversi. Io per esempio sto lavorando sempre con Ratti a un diverso tipo di progetto, un edificio con sette ettari di vigna vicino alla fondazione Prada”.

 

Altre conseguenze della pandemia su Milano riguardano la sua industria più identitaria, il design, e il suo happening primario, il Salone del mobile, rimandato e poi cancellato. “Quello che sta succedendo”, dice Rota “è una cosa molto profonda: tutti stanno valutando gli oggetti che hanno in casa: funzionano, li hanno pagati troppo, vanno davvero sostituiti? O vanno invece buttati? Alla fine di un anno così cambierà completamente il panorama degli oggetti. E ci sarà un grande problema proprio col Salone. Ma non per gli slittamenti”. Secondo Rota la crisi è più profonda. “Ci saranno proprio aziende, anche famose, che non riapriranno. E non per la crisi del Corona; ma perché tanti marchi del design italiano non ci sono già più. Oppure sono stati rilevati ma solo in quanto brand. Un po’ di aziende poi hanno fallito perché fondate sul padre padrone, che è stato un limite del caso italiano; tanti poi rimettono in produzione cataloghi degli anni Cinquanta”. insomma, poche idee. “Prendono vecchi pezzi, li aggiornano alle nuove normative, e li rimettono sul mercato. Ma uno alla fine si comprerà sempre l’originale, ed è normale, perché una certa sedia a quei tempi rappresentava il top del design. Ma oggi il top del design non sta certo nei mobili. Sta nell’elettronica”. “Così oggi – dice Rota – devi essere seduto su una poltrona degli Eames degli anni Cinquanta, con l’ultimo modello di iPhone in mano. Non conta che la sedia sia dell’anno scorso”.

 

Poi l’architetto mette giù, perché ha altro smart working da fare, e ci risentiamo dopo cena. “Sono giornate lunghissime”, dice. “Ma è chiaro che la pandemia ci ha messo di fronte a quello che io chiamo l’analogico estremo; parliamo di case, oggetti, corpi. Anche il telelavoro è fatto comunque di sedie, di tavoli, di una voce che la sera è stanchissima, perché non riesci più a parlare dopo infinite telefonate. Tutto è tremendamente fisico. Anche le cose più basse: “In un progetto che stavamo portando avanti a Shanghai, e che spero riprenderemo presto, è previsto un sistema collegato agli scarichi che vengono scannerizzati, e analizzati automaticamente, e se c’è qualcosa che non va ti segnalano che sei ammalato e ti mandano dal medico. E non è una gran tecnologia, è una cosa a bassissimo costo. Non è neanche un’innovazione dovuta alla pandemia: le città stavano cambiando già prima. Del resto la pandemia è un grande pettine che sta passando e raccoglie tutti i nodi che erano già presenti prima. Molte aziende da noi chiuderanno. Anche molti studi di architettura. Le persone si rivolgeranno ai grandi studi, ci sarà una mutazione”. Tutto negativo, quindi? “No, assolutamente. ‘Siamo l’unico paese che ha i camici di Armani, le mascherine di Gucci, il disinfettante di Bulgari’, è una battuta che circola in Rete, ma dice molto sulla capacità rapidissima del sistema industriale italiano di riconvertirsi. Chi cambia produzioni usufruisce di leggi dello stato, e in questo caso di una legge fatta molto bene. Da noi si parla solo delle cose che non funzionano. “Invece bisogna parlare meno, e fare di più”. “Dopo una sola settimana Unicredit ci ha finanziato il progetto dei container”, dice. “E’ il momento di essere veloci. Servono team strategici, molte verticalità. Quelli che si chiamavano ‘layers’ oggi non funzionano. Infatti in crisi in questo momento sono gli scrittori, gli artisti. Adesso non è il momento del pensare. Soprattutto non bisogna ricordare. Bisogna costruire immagini nuove. Se ci mettiamo nell’ottica della memoria è finita. Perché tante cose non saranno più come prima”.

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