Carole Cadwalladr durante il suo intervento al Ted Talk di Vancouver

Contro l'indifferenza

Paola Peduzzi

La reporter Carole Cadwalladr ci racconta come ha unito i puntini tra Facebook, la Brexit, Trump e i russi. Ma quando mostra il disegno completo, molti guardano altrove. Un viaggio nella nostra democrazia ferita.

Fa solo nomi noti, Carole Cadwalladr: Mark Zuckerberg, Nigel Farage, Boris Johnson, Steve Bannon, Donald Trump, Vladimir Putin. Unisce i puntini tra di loro, un segmento alla volta, una fonte alla volta, un tratto alla volta, e poi quando mostra il disegno finale, la figura completa, tutti si voltano da un’altra parte. Lei insiste, guarda qui non dirmi che non vedi niente, ma il più delle volte non riesce a spezzare il muro di indifferenza che le sta attorno, che ci sta attorno. “Per loro, questa è soltanto la teoria del complotto di Carole”, una fissazione, un’altra forma di propaganda, dice la Cadwalladr chiacchierando sui gradini davanti alla Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia a Venezia, interrotte da un diverbio sul canale di fronte a noi (questione di precedenze). La Cadwalladr, che è stata ospite del Festival dell’Innovazione del Foglio dello scorso fine settimana, è una giornalista d’inchiesta, scrive soprattutto sul Guardian e sull’Observer, ed è diventata famosa l’anno scorso quando ha rivelato lo scandalo di Cambridge Analytica – la società di consulenza che ha utilizzato i dati di migliaia di utenti di Facebook senza il loro consenso per fare comunicazione politica – e ancor più quest’anno, con il suo discorso alla conferenza Ted di Vancouver, ad aprile. Lo avrete visto, è popolarissimo, è stato tradotto in tutte le lingue: in quindici minuti la Cadwalladr unisce tutti i puntini, rivolgendosi direttamente a quelli che lei chiama “gli dèi della Silicon Valley”, seduti nel pubblico, e infine mostra un’immagine nitida e tremenda: “Questa storia è più grande di voi. E’ più grande di ciascuno di noi. E non riguarda la destra o la sinistra, il leave o il remain, Trump o no. Riguarda il fatto se sia possibile avere ancora elezioni libere e giuste. Perché, stando così le cose, io penso di no”. La democrazia si è spezzata sotto ai nostri occhi, mentre giocavamo con i nostri telefonini alla ricerca del filtro migliore e cercavamo di ignorare ogni cosa, comprese le “immaginarie” interferenze russe, come le definisce il capo del Cremlino Putin, “siamo noi che dobbiamo riprendere il controllo”, dice la Cadwalladr, utilizzando il celebre slogan della Brexit, “take back control”. Ma l’indifferenza spesso prevale, “incontro tante persone che mi fanno i complimenti, che dicono che la mia battaglia è giusta e che devo continuare, ma non riesco a spiegare che non è la mia battaglia, non sono io contro la Silicon Valley o io contro Farage o io contro il suo finanziatore Arron Banks e i russi. E’ la battaglia di tutti”, ma la combattono in pochi.

 

 

Questa storia va oltre la destra o la sinistra, Trump o la Brexit. Riguarda la possibilità di avere ancora elezioni libere

Per molti anni, la Cadwalladr si è occupata di tecnologia, “ricordo una Ted conference del 2005 che fu come un’epifania, la tecnologia avrebbe salvato il mondo, riscattato i popoli, abolito la povertà, curato il cancro, erano tutti certi che la tecnologia fosse una forza positiva, la via per la salvezza”. Era la stagione della grande fiducia e della grande leggerezza, i social erano gli altoparlanti della democrazia e noi costruivamo inconsapevoli e distratti le nostre gabbie, fornendo informazioni su noi stessi, i nostri gusti, le nostre ossessioni, i nostri amori: i nostri dati erano, sono, il nostro tesoro più prezioso e l’abbiamo dato via per un cuoricino in più. La Cadwalladr liquida in fretta quell’epifania, è passata ed è finita. Ricorda piuttosto di aver partecipato a una conferenza a due settimane dall’elezione di Donald Trump in cui si parlava di social, politica, ads, fake news, “disruption, non si faceva che ribadire la potenza della disruption, tutti volevano disrupt qualcosa”. Ancora una volta, la disruption pareva una forza creativa e dirompente, e la sua brutalità era il prezzo da pagare per ottenere il cambiamento. “Trovai quell’incontro molto interessante – dice la Cadwalladr – perché raccontava come la tecnologia stesse applicando la disruption alla politica, e se questa disruption ti riesce con la politica allora il passo successivo è applicarla alla democrazia. Qualcuno deve averne già parlato, ho pensato, ho fatto una ricerca e ho visto che in realtà c’erano soltanto pochi commenti. Poi Trump fu eletto, e in un attimo quelle chiacchiere, quelle intuizioni sono diventate la nostra realtà”. I puntini che si uniscono, per la prima volta. Da quel momento la Cadwalladr ha iniziato a occuparsi esclusivamente di questo, “prima scrivevo reportage e servizi speciali e poi mi sono trasformata in una giornalista d’inchiesta”, a caccia di segmenti. “E’ stato quasi immediato: appena mi sono messa a fare ricerche, ho scoperto che c’erano cose davvero strane, ma strane strane, che accadevano online. La mia prima storia, nel novembre del 2016, è stata su Cambridge Analytica”.

“Per loro questa è soltanto la teoria del complotto di Carole”, una fissazione, un'ossessione, un'altra forma di propaganda

Il primo puntino era il più banale di tutti: le ricerche su Google. “Metti ebreo e ti viene ‘evil’, metti donne e ti viene ‘evil’ e con islam pure. Che cosa sta accadendo? Sono entrata in contatto con Jonathan Albright, un ricercatore e professore americano, che aveva studiato questo fenomeno a livello di network: fu lui il primo a parlarmi di Cambridge Analytica”. La storia poi l’abbiamo conosciuta tutti, un puntino alla volta, l’ultimo nel marzo del 2018 quando, dopo contatti e conversazioni durati un anno, la Cadwalladr convinse Christopher Wylie a parlare pubblicamente del suo lavoro come direttore delle ricerche alla Cambridge Analytica: l’articolo si intitolava “Ho costruito lo strumento della guerriglia psicologica di Steve Bannon” (l’espressione esatta utilizzata da Wylie era: la guerriglia per “fottere il cervello”). Il disegno ci apparve chiaro tutto d’un colpo, anche se in realtà era dall’anno precedente che la Cadwalladr tirava righe su righe tra la Brexit, Nigel Farage, la campagna del leave, i russi, Donald Trump, una ragnatela sempre più limpida, che aveva effetti collaterali potenti anche in altri contesti, in altre elezioni, ma che cercavamo di ignorare, o forse speravamo di poter ignorare, perché era una storia, una ferita, enorme: più grande di noi. La testimonianza di Wylie creò una trama fitta di prove e di connessioni – quello che lo stesso Albright ha definito “un infocancro” – e sgretolò la cosiddetta neutralità dei social, di Facebook in particolare: nessuno era più un intermediario o un osservatore esterno, ognuno aveva avuto una parte attiva nel costruire un sistema di profilazione politico agguerrito – trumpiano, brexitaro – con un preciso scopo elettorale e con l’utilizzo di informazioni e contatti per i quali non era stato dato alcun consenso. In quel marzo di rivelazioni, l’indignazione toccò picchi altissimi, iniziò la campagna per uscire da Facebook, si moltiplicarono dichiarazioni di principio, cancelletti, ripensamenti, ora-basta, mentre i vertici di Facebook dovevano ingiacchettarsi e presentarsi davanti ai Parlamenti, con i senatori che non sapevano nemmeno che domande fare (è una questione generazionale, ci siamo detti, autoassolvendoci), ma l’importante era vederli lì, gli dèi della Silicon Valley, pronti a pentirsi e a prostrarsi e a prometterci che nulla di tutto ciò sarebbe mai più accaduto.

L’indignazione è tanto vanitosa quanto volubile, e appena ha cambiato obiettivo è arrivata l’indifferenza. Che ne è oggi di Cambridge Analytica, non esiste più vero? Esiste, ha preso soltanto un’altra forma. “Brad Parscale, il capo della campagna elettorale di Trump – dice la Cadwalladr – sta già investendo tantissimo sui social per il 2020, stessi metodi del 2016 ma con molti più soldi. E si appoggia su alcune società che sono state fondate da ex dipendenti della Cambridge Analytica. Sono cinque, create dai figli-zombie di Cambridge Analytica”. Format che funziona non si cambia, insomma, e tutti siamo rimasti su Facebook, perché dove altro vuoi andare? “C’è stata una grandissima pressione su Facebook – dice la Cadwalladr – E molti dentro alla compagnia hanno acconsentito a introdurre meccanismi di trasparenza. Ma non sono efficaci, c’è ancora una grande opacità su quel che accade lì”. Opacità è un eufemismo: “Ogni cosa che accade su Facebook accade al buio. E’ un modo completamente diverso di fare comunicazione e di fare politica. Ogni cosa accade al buio, è invisibile agli altri, non c’è nessuna traccia di quello che è successo, non ci sono prove, non puoi risalire a nulla, non c’è niente, e non sai chi c’è dietro alle cose che vedi”. La Cadwalladr parla di Facebook ma intende tutti i social, “le cose lì non sono come sembrano, sappiamo che ci sono molti interessi e molti obiettivi, e tanti che fingono di essere altre persone, altre entità. I russi lo fanno: fingono di essere americani”.

  

Sappiamo tutto, vediamo i puntini che si uniscono, vediamo questa fotografia – “grandi aziende che disperatamente non vogliono altre indagini ed esami e governi che disperatamente non vogliono fare altre indagini ed esami, perché non li vogliono nemmeno su loro stessi” – ma poi l’indifferenza vince. Ci assestiamo su nuovi standard, quel che ci sembrava inaccettabile fino a pochi anni fa oggi ci sembra normale, per ogni perversione c’è un’attenuante. “Nothing sticks”, ha detto Steve Bannon, non resta nulla degli scandali, delle connessioni, dei crimini anche, anzi lo scontro diventa sempre più feroce, tu non la pensi come me e sei il mio nemico, ogni news diventa fake, e viceversa. “Trovo preoccupante che molti, e parlo soprattutto del Regno Unito, non si stiano accorgendo che è in pericolo il sistema di cui vanno tanto fieri. Abbiamo esportato in tutto il mondo lo stato di diritto e la legge, siamo molto orgogliosi di questo nostro primato, e ora che quel progetto si sta deteriorando, e lo vediamo e lo sappiamo, non facciamo nulla. Anzi, viene alimentato lo scontro: la storia della Cambridge Analytica, per dire, così come tutto quello che ho scoperto e scritto sui finanziamenti russi della campagna per il leave e sulla provenienza dei fondi e il ruolo dei russi per cui è in corso un’inchiesta, è vissuto come la vendetta dei remainers, che non vogliono accettare la Brexit”. Il contagio è appena cominciato. Mentre parliamo, la Cadwalladr ha appena consegnato il suo ultimo articolo per l’Observer che è stato pubblicato la scorsa domenica: parte da un video in cui Steve Bannon parla dei messaggi che si è scambiato con Boris Johnson per il primo articolo che scrisse sul Telegraph dopo che si era dimesso da ministro degli Esteri, nell’estate del 2018 (Johnson era stato a lungo collaboratore del Telegraph, e anche la Cadwalladr ci ha lavorato). Nell’articolo si parla di questo filmato – fa parte delle registrazioni del documentario sull’ex consigliere trumpiano “The Brink” – e delle relazioni tra Johnson, Bannon e Nigel Farage, il leader del Brexit Party e uno dei primi ad accreditarsi presso la corte di Trump. Johnson ha smentito, in un intervento in radio ha detto che “questo è un carico enorme di fesserie”, e le fesserie portavano il nome della Cadwalladr.

 

Oggi la campagna di Trump per il 2020 si appoggia ancora “su cinque società, fondate dai figli-zombie di Cambridge Analytica”

“Non è certo la sua prima bugia, questa”, dice lei, e mentre anche i commentatori inglesi si attrezzano per fare l’elenco dettagliato delle menzogne di quello che sarà con tutta probabilità il prossimo primo ministro del Regno Unito esattamente come fanno i media americani con Trump, cresce il dolore per l’indifferenza. “Ogni tanto mi deprimo – dice la Cadwalladr – Ma poi penso che questo lavoro di ricerca sia necessario e indispensabile: ci sono molte inchieste in corso negli Stati Uniti, dal dipartimento di Giustizia alla Sec, la faccenda non è affatto conclusa”. Combatte, Carole, viene citata in giudizio di continuo, ma combatte, è convinta che ci sarà un momento in cui anche i più distratti, anche i più indifferenti, si renderanno conto che non è in gioco la carriera di un politico, o la credibilità di una proposta, o quel che ognuno pensa di Trump, di Putin, della Brexit, ma la tenuta stessa della democrazia. “Non posso credere che l’idea di non avere più elezioni di cui fidarci possa piacere a qualcuno”, dice, mentre un gruppo di turisti-vogatori ci passa davanti e ci saluta. Ride guardandoli, “nessuno vuole rinunciare alle proprie libertà”, è il senso di pericolo che ancora non è chiaro, ma la Cadwalladr è già alle prese con un altro segmento, ci sono i russi, ci sono i soliti nomi, anzi, anche uno nuovo. L’indifferenza, lei, la vince così, un puntino alla volta, e guardate qui: non ci credo che non vedete niente.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi