Foto di Medialab Katowice via Flickr

Le fabbriche della competenza

Eugenio Cau

La Silicon Valley investe milioni per la formazione in Italia. E’ un gioco win-win anche per la politica

Nell’anno del techlash, in cui le aziende tecnologiche della Silicon Valley hanno subìto un disastro di reputazione via l’altro, dagli Stati Uniti al Myanmar, da Cambridge Analytica a Bernie Sanders, l’Italia è stata un’oasi relativamente tranquilla. La crisi delle fake news, che imperversa dalle elezioni americane del 2016 e si è estesa in Francia, Germania, Regno Unito, nei paesi scandinavi, perfino nei Balcani, in Italia ha avuto poche ripercussioni e scarsa eco – non certo per assenza di fake news, ma perché il tema è stato perennemente soverchiato dal circo politico. Di Cambridge Analytica hanno parlato soltanto i giornali, le proteste sociali contro Amazon sono storia vecchia, anche i grandi casi di antitrust europea di cui molto si è discusso a Bruxelles sono stati trattati in Italia come questione estranea. In tutto il mondo occidentale si discute dell’atteggiamento che i cittadini e i governi devono avere nei confronti di quei giganti che sono diventate le grandi aziende tecnologiche, dei problemi per la privacy e per la democrazia – ma in Italia, evidentemente, ci sono problemi più pressanti.

 

In tempo di “techlash”, l’Italia è stata un’oasi tranquilla per le aziende tech. Questo ha consentito di dare vita a progetti pubblici

Se non si fa in fretta la transizione verso il digitale, l’Italia rischia di rimanere fuori dal mercato, dice Donato Iacovone di EY Italia

Mentre in buona parte dell’occidente le aziende tecnologiche sono costrette alla difensiva, l’Italia è uno dei pochi luoghi in cui godono di un certo agio – non soltanto per presentare nuovi prodotti e ambiziosi piani di espansione, come fanno ovunque, ma anche per annunciare progetti di interesse pubblico e rilevanza politica, che altrove potrebbero essere accolti con scetticismo. Un filo rosso di iniziative che lega una parte consistente delle aziende tecnologiche americane è quello della formazione.

 

L’ultimo caso è quello di Facebook, che questa settimana ha inaugurato un grosso centro per la formazione tecnologica vicino alla stazione Termini di Roma, in quegli stessi spazi eleganti adiacenti ai binari che già ospitano uno degli incubatori più importanti del paese, Luiss Enlabs. Lo spazio si chiama Binario F, per ora è grande soltanto 180 metri quadrati, ma nei prossimi mesi arriverà a misurare 900 metri quadrati e ospiterà corsi, cicli di conferenze, iniziative didattiche, incontri. L’obiettivo, si dice all’evento di inaugurazione, martedì mattina, è quello di dare una formazione digitale ad almeno 97 mila persone entro la fine del 2019 – non tutte dentro a Binario F, ovviamente, ma con corsi digitali. Non ci sono ancora dettagli concreti su quale tipo di formazione sarà, ma il parterre istituzionale, composto dal sindaco di Roma Virginia Raggi e dal ministro delle Politiche agricole e del turismo Gian Marco Centinaio, appare estasiato.

 

Il Foglio ha parlato qualche giorno prima dell’inaugurazione con Luca Colombo, country manager di Facebook Italia (significa: il capo di Facebook in Italia), e lui ci ha confermato anzitutto che Facebook, qui, non conosce crisi. “Sicuramente questo è stato un periodo caldo a livello internazionale per Facebook”, dice Colombo quando gli ricordiamo gli scandali che hanno colpito il social network, da ultimo il bug del mese scorso. “Ma siamo sempre riusciti a gestire la situazione. Non abbiamo dati specifici sull’atteggiamento degli utenti italiani, ma a livello business i numeri dimostrano che le aziende italiane non hanno perso interesse nella collaborazione con Facebook, anzi”. E’ anche per questo che, dice Colombo, “l’Italia è uno dei tre soli paesi in Europa in cui facciamo questo investimento nella formazione”, con Binario F. Colombo parla di un “bell’investimento”, e durante l’inaugurazione si parlerà di “diversi milioni di euro”, ma l’entità esatta di quanto Facebook vuole investire per la formazione tecnologica in Italia non è disponibile. Gli altri due paesi sono la Spagna e la Polonia, individuati perché, come in Italia, c’è un gran bisogno di competenze tech e l’offerta non riesce a soddisfare la domanda. “Binario F sarà uno spazio aperto, in cui Facebook e i suoi partner faranno formazione digitale, ma a cui chiunque potrà accedere. Francesco Profumo guiderà un advisory board che ci aiuterà a focalizzare il nostro impatto e a renderlo misurabile. Per ‘impatto’ non intendiamo: quante persone sono passate da Binario F. L’impatto che noi vogliamo è riuscire a trasferire competenze tecniche concrete agli italiani in modo che, per fare un esempio, riescano a trovare un lavoro nell’ambito del digitale, ottengano gli strumenti per fondare una startup o, perfino, imparino a usare meglio il computer per gestire una realtà locale come potrebbe essere un oratorio”.

 

Binario F, o almeno il suo embrione visitato in questi giorni, è uno spazio decisamente siliconvalleyano per impostazione e design, di quelli che danno lustro startupparo alla città e deliziano gli amministratori. E’ successo lo stesso con Apple a Napoli, che in un certo senso è stata capostipite della tendenza ad aprire centri di formazione in Italia. Apple aprì la sua Developer Academy nel 2016, allora il governo era di Matteo Renzi, e per l’occasione fece visita perfino Tim Cook. Le cifre erano magniloquenti, si parlò di un accordo complessivo da 11 milioni di euro e di 400 posti di lavoro per iniziare. L’impatto dell’iniziativa è ancora da misurare sul lungo termine, ma anche in quell’occasione media e politica andarono in visibilio. All’inizio di quest’anno (il governo era di Paolo Gentiloni) anche Cisco ha aperto la sua Academy a Napoli.

 

Più recente è l’iniziativa di Microsoft, che non ha aperto uno spazio fisico ma, a fine settembre, ha annunciato un investimento di 100 milioni di euro in un’iniziativa chiamata Ambizione Italia (AI, come Artificial Intelligence). Silvia Candiani, ad di Microsoft Italia, parlando con il Foglio spiega che l’iniziativa nasce dalla diagnosi di uno dei problemi più pressanti per l’Italia: lo sviluppo del paese dipende dalle competenze digitali, ma a fronte di una disoccupazione molto alta ci sono centinaia di migliaia di posti nel settore tecnico e informatico non coperti. “Il 20 per cento circa degli italiani è laureato, e di questi soltanto il 20 per cento è laureato in materie STEM”, dice Candiani, indicando l’acronimo per science, technology, engineering and mathematics. “Ambizione Italia vuole formare 500 mila persone e dare un attestato professionale a 50 mila persone entro il 2020, ha una serie di partner (The Adecco Group, LinkedIn, che è di Microsoft, Invitalia, Cariplo Factory e Fondazione Mondo Digitale, ndr) e tra le varie iniziative ci sono la formazione nelle scuole e accordi con alcune università italiane per organizzare corsi della durata di circa 6 mesi per diventare data scientist”. Un terzo progetto, dice l’ad Microsoft, riguarda la formazione generale della popolazione italiana. Adecco, uno dei partner dell’iniziativa, ha presentato una piattaforma virtuale chiamata Phyd che userà l’intelligenza artificiale di Microsoft per la formazione, e l’anno prossimo inaugurerà un centro per la didattica a Milano.

 

Anche Google ha attività in questo senso: il lavoro del motore di ricerca si concentra sulla digitalizzazione Pmi e sulle startup, ma non solo. In Europa, Google ha formato sulle competenze digitali 4 milioni di cittadini dal 2013 a oggi. E nel 2015 ha avviato assieme al ministero del Lavoro il programma Crescere in digitale per dare competenze tech ai giovani disoccupati. Ha offerto corsi a 112 mila italiani, di cui 11 mila hanno ottenuto una certificazione professionale.

 

Facebook ha appena inaugurato a Roma “Binario F”, un centro di formazione per avere un “impatto concreto”, dice Luca Colombo

Microsoft organizza corsi di formazione con le scuole e prepara centinaia di data scientist, ci racconta Silvia Candiani

Amazon in Italia organizza delle Academy itineranti per formare gli artigiani e le Pmi sull’uso dell’ecommerce, e dal 2016 organizza insieme con le università dei concorsi che sostengono e premiano i progetti tecnologici più innovatiti. L’iniziativa ha coinvolto in tutto 400 studenti.

 

La formazione è sempre stata un pallino della Silicon Valley anche negli Stati Uniti, dove i dirigenti pompano milioni in progetti educativi e didattici per coniugare responsabilità sociale e un buon investimento per il futuro. La prima grande donazione benefica di Mark Zuckerberg, nel 2010, fu al sistema educativo di Newark, in New Jersey: 100 milioni di dollari per riformare il sistema scolastico di una delle zone più arretrate d’America – ci sono opinioni contrastanti sugli effetti benefici o meno della donazione di Zuck. Anche Bill Gates dedica all’educazione una parte consistente delle attività della sua fondazione benefica.

 

Per usare un termine caro alla diplomazia asiatica, gli investimenti benefici in programmi di istruzione e formazione sono investimenti win-win. Le grandi aziende della Silicon Valley sono liete di formare nuovi talenti tecnologici che presto andranno a ingrossare i loro ranghi, e al tempo stesso le amministrazioni pubbliche e i governi sono soddisfatti quando una multinazionale da centinaia di miliardi di dollari dà loro un po’ di sollievo nell’oneroso settore dell’istruzione.

  

Questi discorsi valgono anche per l’Italia, ma con due elementi caratterizzanti. Il primo è che l’Italia ha disperato bisogno di competenze digitali. “La transizione verso le competenze digitali riguarda tutte le professioni. Se non le acquisisci sei fuori dal mercato, e il sistema paese resta privo di quelle figure necessarie per crescere”, dice al Foglio Donato Iacovone, ceo di EY Italia, società tra i leader mondiali nei servizi professionali e nella consulenza che ha appena chiuso un evento, il Digital Summit di Capri, in buona parte dedicato alla costruzione delle competenze innovative. Il problema è che – tutti gli studi lo dimostrano – quando si tratta di formare professionisti pronti per l’èra digitale l’Italia è rimasta indietro di un paio di decenni, tanto che si stima che, di qui a cinque anni, 280 mila posti di lavoro specializzati di carattere tecnologico rimarranno scoperti – e questo, in un paese ad altissimo tasso di disoccupazione, è un peccato mortale.

 

Le grandi aziende tecnologiche lo sanno, e il gioco win-win di cui si parlava sopra diventa doppiamente importante: l’Italia è un mercato piccolo se visto da una prospettiva mondiale, ma strategico, e per la Silicon Valley è necessario sviluppare talenti locali. Diventa importante anche il suo risvolto politico: la situazione ha caratteri di urgenza tali per cui qualunque amministrazione e governo accetterà a braccia aperte e senza muovere obiezioni chiunque si proponga di investire nell’insegnamento della tecnologia. In assenza di strumenti adeguati di formazione, il know how della Silicon Valley diventa fondamentale.

 

E’ anche questa situazione che rende l’Italia un giardino pacificato in tempo di techlash. Il paese ha un bisogno d’aiuto così urgente che il techlash è un lusso giustificato che non ci possiamo permettere.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.