I sicari del progresso

Massimo Adinolfi

Si rifiutano i vaccini, si bocciano le infrastrutture, si denuncia la finanza, si sputa sull’Europa, ci si dimentica di come nasce la pace, si trasforma il passato nell’unico antidoto contro le nostre paure. Perché un paese che fa diventare il futuro il nemico del presente è fottuto. Un manifesto e un appello

Era il 2 settembre, anno del Signore 2018: Al Bano. A Monza. Sulla griglia di partenza, in occasione del Gran Premio d’Italia di Formula 1. Vettel e Hamilton, cappellini rossi e bandiere del Cavallino sugli spalti, piloti e monoposto sull’asfalto, ingegneri e pneumatici, auricolari e commissari, frecce tricolori in cielo e, dagli altoparlanti, l’Inno d’Italia cantato da lui, il nuovo Claudio Villa: Albano Carrisi, classe 1943. L’autore di successi indimenticabili come “Felicità”, o “Nostalgia canaglia” – quella che “ti prende proprio quando non vuoi / ti ritrovi con un cuore di paglia / e un incendio che non spegni mai” – al centro della pista dell’autodromo nazionale ad arrotondare tutte le vocali dell’inno di Mameli. Nel tempio della velocità, un’esecuzione quasi in slow motion di “Fratelli d’Italia”.

 

Karl Kraus è stato uno dei più fieri avversari della tesi che associa progresso tecnologico a progresso morale

Semafori accesi: pronti, partenza, via! Ora parliamo di progresso. Tenendo ben presente, però, quello che cade sotto gli occhi. E cioè: non “le importanti pagine dell’automobilismo mondiale ma anche della ricerca scientifica” scritte sulla pista più veloce del mondo, come si legge nella orgogliosa homepage del “Monza Eni Circuit” (“Il telepass, il guard-rail e l’asfalto drenante sono stati studiati e messi a punto proprio a Monza”) ma il veterano del Festival di Sanremo, e veterano di chissà quante altre cose. Insieme: la performance di Al Bano e le prestazioni dell’ultimo 6 cilindri della Ferrari, il rombo dei motori e l’italica melodia. Non aveva allora ragione Karl Kraus, quando osservava che, altro che progresso, in realtà abbiamo a che fare con movimenti che vanno in tutte le direzioni? In effetti, almeno a un primo sguardo, la SF71H di Maranello e le canzoni di Al Bano non vanno affatto nello stesso verso, né procedono con lo stesso passo.

 

Kraus è stato uno dei più fieri avversari della tesi che associa progresso tecnologico a progresso morale. Ma l’idea che “l’umana gente” sia attesa da “magnifiche sorti e progressive” era, per la verità, poco convincente già per Leopardi, più di un secolo prima, quando alle pendici del “formidabil monte / Sterminator Vesevo” scriveva La ginestra, per scagliarsi contro il suo secolo “superbo e sciocco” che in quell’idea credeva per davvero e anzi l’aveva, se non proprio inventata, messa in gran lustro. Dove sarebbe questo progresso, si chiedeva, se bastano i moti poco men lievi del Vulcano per “annichilare in tutto” i giardini e i palagi costruiti ai suoi piedi? Ci volle dunque tutta la maestria interpretativa di Cesare Luporini per togliere al canto leopardiano la sua amarissima ironia e scrivere un saggio (quasi provocatorio, nel titolo) su un “Leopardi progressivo” che serbava ferma fiducia nel “generale progresso dell’incivilimento”. Ma si capisce: eravamo nel 1947, all’indomani del secondo conflitto mondiale, e i protagonisti della vita politica e intellettuale della nuova Italia provavano a ridefinire il proprio retroterra ideologico. Oggi, chi mai potrebbe impancarsi a critico letterario, cercando inedite dimensioni di indagine nell’officina del poeta recanatese, per costruire una nuova cultura nazionale accompagnando così “la nascita di una democrazia che pensavamo moderna”? (Le ultime sono parole di Luporini, trent’anni dopo). Ma poi: che cosa significa dirsi moderni, oggi? Che cosa è davvero moderno, progressista e moderno?

 

L’ultimo iPhone Xs Max, ad esempio, lanciato dalla Apple. O il nuovo gioiello, il Watch Series 4, che è un orologio per modo di dire visto che, fra le altre cose, è in grado, all’occorrenza, di farti l’elettrocardiogramma. E naturalmente sono nuovi, innovativi, moderni tutti i dispositivi tecnologici che cambiano continuamente automobili, fabbriche, case e città. Nuovi sono gli spettacolari sviluppi dell’intelligenza artificiale, nuova l’ingegnerizzazione biologica delle nostre vite. Ma in che senso tutto questo, e chissà cos’altro, oltre a essere indubbiamente moderno, modernissimo, anzi avveniristico, è anche espressione di un generale e progressivo moto di incivilimento? Perché non guardare con disprezzo un mondo saturato dai media e reso folle dalla tecnologia, come ha scritto Jonathan Franzen sul Guardian (mentre si accingeva a ripubblicare proprio Kraus)? Forse per la ragione che diceva un conterraneo di Kraus, Robert Musil: non si può mettere il broncio ai propri tempi senza riportarne danno.

 

Musil diceva che non si può mettere il broncio ai propri tempi senza riportarne danno. Franzen invece l’ha messo

Franzen invece è uno che il broncio l’ha messo, e se la prende con gli intellettuali di sinistra così instupiditi dal progresso da non rendersi conto, nemmeno loro, che celebrando la rivoluzione digitale si fanno complici del “monopolismo dei tecnotitani”: complici sino al punto di usare Twitter! Nientemeno! Salman Rushdie, il primo degli imputati, gli ha risposto con ironia beffarda: “Caro Jonathan, insieme a Margaret Atwood, Joyce Carol Oates, Amy Michael Homes, Nathan Englander, Gary Shteyngart io su Twitter ci sto benone. Divertiti nella tua torre d’avorio”.

 

All’inizio, comunque, non è che sia stato più facile. All’inizio: cioè alla fine del Seicento, quasi Settecento – per dirla come Troisi e Benigni in Non ci resta che piangere, quando vengono scaraventati indietro nel tempo, prima del viaggio di Colombo, con Leonardo da Vinci in difficoltà con i semafori, i treni a vapore e persino il gioco della scopa. Noi siamo invece al principio della civiltà letteraria moderna. 

 

Popoli e nazioni al posto dell’Europa, dicono sovranisti e populisti. Una narrazione regressiva per cui il locale è bello e il globale cattivo, lo spazio chiuso garantito e quello aperto incerto

 

Gli scrittori dell’epoca disputano, in Francia, intorno alle differenze fra Antichi e Moderni, e i sostenitori della superiorità degli Antichi hanno facile gioco nell’osservare che da nessuna parte si vedono ingegni pari a Omero, Aristotele o Virgilio. E’, peraltro, una cantilena che torna sempre: la televisione di oggi non è quella di una volta, non ci sono più registi del calibro di Orson Welles, la stagione del cantautorato italiano non tornerà più, trovatemi un altro Giuseppe Verdi. E anche in politica: Schumann, De Gasperi o De Gaulle, loro sì che erano statisti. Insomma, c’è sempre un buon tempo antico che giganteggia, e a confronto del quale i nostri tempi sembrano ormai poveri di spirito.

 

Senonché l’avvocato Bernard le Bovier de Fontenelle – un ottimo prosatore, dopo tutto, ma non un talento inarrivabile – sbaragliò il campo tirando fuori questa idea del progresso, per cui l’umanità si può immaginare che si muova su una linea retta, lungo la quale si cumula tutta la saggezza dei secoli passati, di modo che gli ultimi arrivati possono ben dirsi più ricchi e saggi di tutti coloro che li hanno preceduti. I Moderni sono dunque più avanti degli Antichi: ora – e per la prima volta – in un senso valoriale, non meramente fattuale. Sono quelli che ne sanno di più, e ne sanno anche meglio. Sono come nani sulle spalle dei giganti, per usare un’altra celebre metafora, di origine addirittura medievale: saranno pure stati dei giganti, quegli altri, ma noi, diceva per esempio Blaise Pascal, noi siamo accoccolati sopra le loro spalle, e quindi, anche se loro erano dei colossi ineguagliabili, noi che veniamo dopo vediamo comunque più lontano.

 

C’è sempre un buon tempo antico che giganteggia, e a confronto del quale i nostri tempi sembrano ormai poveri di spirito

A dare plausibilità a questa idea era anzitutto la nuova struttura del sapere scientifico, che si presentava effettivamente come un accumulo costante di conoscenze. Ma l’evidente progresso nel campo delle scienze naturali non sarebbe bastato a imporre la comune convinzione che, col tempo, migliorano anche le condizioni di vita degli uomini, se il mondo moderno non avesse conosciuto la straordinaria trasformazione capitalistica dell’economia e della società. Al suo culmine, il progresso materiale poté apparire anche come un indiscutibile progresso morale. Ecco in quali, entusiastici termini, a metà dell’Ottocento, poteva esprimersi Richard Cobden, uomo d’affari inglese: “Il commercio è la grande panacea che, come una valida scoperta medica, contribuirà a inoculare a tutte le nazioni il gusto del benessere e della salute propri della civiltà. Quella che parte dai nostri magazzini non è una semplice quantità di merce; essa porta ai membri delle comunità meno illuminate i germi dell’intelligenza e del pensiero produttivo; e quando un commerciante visita le nostre manifatture ritorna al suo paese come un missionario di libertà, di pace e di buon governo; mentre le nostre navi a vapore che toccano ora ogni porto d’Europa e le nostre miracolose ferrovie, di cui si parla in tutti i paesi, sono la migliore pubblicità e dimostrazione delle nostre illuminate istituzioni”.

 

Da Fontenelle a Cobden passano 150 anni, più o meno: di mezzo ci sono Isaac Newton e l’illuminismo, la rivoluzione francese e quella industriale, la spinta crescente verso la secolarizzazione della sfera pubblica e le prime riforme sociali, l’intensa urbanizzazione e la scoperta dell’elettricità. Un altro mondo, che però cospirava tutto nella medesima direzione – o almeno così sembrava – e di cui si poteva offrire una interpretazione unitaria: non cresce solo il livello di benessere, si eleva insieme anche il grado di civiltà, e persino la moralità individuale: come fai a non considerarlo un progresso?

 

Passano altri due secoli, e questa interpretazione naufraga, o perlomeno si fa parecchio più problematica. Questa volta, a incrinare la fede in un futuro sempre più radioso, ci sono un paio di guerre mondiali e i totalitarismi. Negli anni in cui il mondo si inabissa nella più grande delle sventure, Walter Benjamin scrive le sue tesi di filosofia della storia, e dà alla sua critica del progresso, con cui cincischiavano i socialdemocratici, le sembianze quasi apocalittiche dell’Angelus Novus dipinto da Paul Klee, “un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta”.

 

La tempesta, in effetti, infuriava. Ed era difficile mantenere un senso di superiorità nei confronti dei secoli passati, in mezzo a tante carneficine. Così scienza e tecnica continueranno a progredire, ma il nesso fra i loro progressi e la diffusione della libertà perderà ogni evidenza. E, ai piani alti della cultura, la spina nel fianco della critica francofortese all’idea di progresso rimarrà conficcata a lungo: Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer, apparsa nel 1947, fu scritta negli anni del conflitto.

 

Tuttavia nel dopoguerra, durante i Glorious Thirty, i trent’anni gloriosi, l’equazione fra benessere e civiltà celebrata da Cobden sembrerà potersi ristabilire, almeno nel mondo occidentale, anche se il filo delle narrazioni riannodato in quegli anni ci metterà molto poco a imbrogliarsi nuovamente. Sul piano delle idee, infatti, non erano (e non sono) più disponibili generose filosofie della storia che tengano le redini del tutto. E vadano, per dirne una, da oriente a occidente, dal dispotismo asiatico allo stato europeo moderno (Hegel). O avanzino col passo sicuro di una legge dalla teologia alla metafisica alla scienza positiva, per dirne un’altra (Comte). O ricorrano alla lotta di classe e alla violenza levatrice della storia per capovolgere finalmente l’oppressione in libertà (Marx).

 

La scienza continua a macinare scoperte, annotava nel 1979 Jean-François Lyotard, ma sono venute meno le cornici che davano
un senso al suo procedere,
ai suoi oggetti e ai suoi metodi

Una dopo l’altra sono infine venute meno le “tre grandi narrazioni” – così le chiama Yuval Noah Harari, nel suo ultimo libro – formulate dalle élites globali nel corso del XX secolo. Non finiscono in soffitta solo la narrazione fascista e quella comunista: ormai anche la narrazione liberale mostra la corda. Del resto, e più in generale, è il concetto stesso di grande narrazione a essere entrato in crisi.

 

E non da oggi. Il celebrato rapporto sul sapere di Jean-François Lyotard, quello che mette in circolo l’espressione “postmoderno”, è, infatti, del 1979: quasi quarant’anni fa. Postmoderna è, per l’appunto, “l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni”, definite, più precisamente, come potenti dispositivi di legittimazione. Certo, la scienza continua a macinare scoperte, annotava allora Lyotard, ma sono venute meno le cornici che davano un senso al suo procedere, ai suoi oggetti e ai suoi metodi. Lyotard discuteva, in particolare, il funzionamento delle due cornici tradizionali, quella speculativa e quella emancipativa. La prima, di più antico lignaggio, inquadrava la scienza moderna dentro il progetto di fondazione universale del sapere coltivato dalla filosofia, ma è franata per l’impossibilità di trovare in essa i princìpi primi della conoscenza. Nessuno confida più che da qualche corso universitario possa venir fuori la filosofia prima di un novello Aristotele, o un progetto enciclopedico à la Hegel. Tutti, anzi, nell’arena dei discorsi contemporanei, pretendono di dire la loro: con pari titolo, per giunta, e su qualunque questione, come nota piuttosto sconsolato Tom Nichols, parlando di fine della competenza, e della “falsa convinzione che democrazia significhi ‘la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza‘” (I. Asimov).

 

La seconda procedura di legittimazione, di più recente conio, nasce con l’Aufklärung, con l’illuminismo, e cerca di risolvere il problema in una chiave pratica, subordinando il sapere alla destinazione ultima dell’umanità, pensata come un unico soggetto universale. Là era l’immortale vita dello spirito il soggetto della grande narrazione legittimante, qui è l’emancipazione del genere umano. Ma, come in quel caso, così anche in questo a prevalere è lo scetticismo circa la possibilità di tenere un simile racconto, in cui siano iscritti da qualche parte (e additati come raggiungibili) i fini ultimi della storia o dell’uomo.  

 

Se questo è lo sfondo teorico, variato mille e mille volte in termini di crisi della metafisica, crisi della ragione, tramonto dell’Occidente, fine della filosofia, morte del soggetto, e via denominando, c’è anche un terreno più ravvicinato, sul quale si può misurare l’attuale disorientamento. Dicevamo del libro di Harari, 21 lezioni per il XXI secolo. Lo storico della Hebrew University di Gerusalemme la mette così: prima è stata sconfitta la narrazione fascista, poi, nel secondo dopoguerra, si sono scontrate fieramente la narrazione comunista e quella liberale. Infine, con il crollo del Muro di Berlino, è andata in frantumi anche la narrazione comunista. Ora è la volta dell’“aggiornato pacchetto liberale composto da democrazia, diritti umani, liberi mercati e stato sociale” a passarsela piuttosto male. Difficile dargli torto: la democrazia rappresentativa è sempre più in affanno. I diritti umani paiono essere diventati un impaccio (vedi alla voce: migrazioni), e non è più così ovvio che debbano costituire il lessico fondamentale della politica democratica (vedi alla voce: Orbán). Quanto ai liberi mercati, sono sottoposti alla pressione di un protezionismo crescente, essendo sempre di più sentiti come un intollerabile limitazione della sovranità popolare. Lo stato sociale, infine, boccheggia un po’ dappertutto. Nessuna meraviglia, dunque, che i campioni della politica mondiale, i Trump e i Putin, non parlino affatto il linguaggio del liberalismo. Certo, “la maggior parte delle persone che hanno votato per Trump e per la Brexit non ha respinto il pacchetto liberale nella sua integrità: ha perso la fede soprattutto nella globalizzazione”, ma poiché i componenti di quel pacchetto hanno una naturale declinazione universalistica, è ragionevole pensare che una frenata dello spirito internazionalista abbia ripercussioni sul tasso di libertà e diritti delle nostre società.
Il dilemma dinanzi al quale ci troviamo è peraltro aggravato dal fatto che le sfide più impegnative che l’umanità deve affrontare nel prossimo futuro non hanno una risposta ovvia nel liberalismo. Lo storico israeliano si riferisce in particolare al collasso ecologico e al cambio di paradigma tecnologico. Se la dottrina liberale incoraggia e favorisce la crescita economica, e la crescita economica illimitata è la causa della crisi ecologica, non è essa parte del problema, anziché della soluzione? D’altra parte, se la crescita spinge ed è spinta dalla incessante innovazione tecnologica, e l’innovazione tecnologica “potrebbe annullare il valore economico e il potere politico della maggioranza degli esseri umani”, in che senso questi scenari potrebbero essere rubricati ancora come un progresso? E cosa ci garantisce che in un futuro non troppo remoto l’umanità non si divida addirittura in “caste biologiche”, e ciascuno di noi non diventi una “mucca da dati”?

 

Se il progresso è solo un mito da sfatare, tutto questo tributo al bel tempo antico che cos’è? E’ il fastidio per l’apertura di Starbucks a Milano, la chiusura domenicale dei negozi, magari la naja obbligatoria e meno stranieri nel campionato di calcio?

Quando passa a delineare i contorni della sfida politica, Harari offre però una formulazione un po’ più confortevole: “La convergenza delle tecnologiche informatiche e biologiche minaccia il cuore dei valori moderni di libertà e uguaglianza. Qualsiasi soluzione per la sfida tecnologica richiede necessariamente la cooperazione globale. Ma il nazionalismo, la religione e la cultura dividono l’umanità in parti ostili e rendono molto difficile cooperare a livello globale”. Un simile pronunciamento è ancora espressione di un residuo credo liberale, in cui Harari continua a confidare, in mancanza di meglio. Il punto, in effetti, è proprio questo: va bene farsi perplessi riguardo al pacchetto liberale moderno, ma sostituirlo: con cosa, di grazia? Stesso discorso vale per l’Europa. Il vecchio continente non ha mai goduto di una così lunga e duratura pace, accompagnata dalla massima prosperità economica mai raggiunta. Ora l’Unione europea appare in crisi, e sulla copertina di Time ci finisce addirittura il nostro ministro dell’Interno, Matteo Salvini, “in missione per disfare l’Europa”. Benissimo (si fa per dire). Per metterci cosa, però, al suo posto? Gli Stati, i popoli e le nazioni, dicono sovranisti, nazionalisti e populisti, entità dotate di quel più intenso supplemento d’anima che la fredda macchina burocratica di Bruxelles non è mai stata, e mai sarà, in grado di sviluppare.

 

Un simile epilogo, però, diciamolo chiaramente, non equivarrebbe affatto al ritorno all’onesto buon senso, dopo la fine di ideologie ormai consunte, sostenute da bieche élite globali che lucrano profitti alle spalle della povera gente comune. Si tratterebbe, più semplicemente, di soppiantare il racconto progressista dei moderni con una narrazione regressiva, sostenuta dall’idea alquanto peregrina che il locale è bello e il globale cattivo, il vicino è affidabile e il lontano inaffidabile, il familiare benevolo e l’estraneo maldisposto, lo spazio chiuso garantito e quello aperto incerto e precario, l’omogeneo normale e quindi sano l’eterogeneo anormale e quindi malato. E infine il passato caldo e accogliente e il futuro pericoloso e buio. In generale, nessuna di queste coppie funziona davvero così. E in generale: se il progresso è solo un mito da sfatare, tutto questo tributo al bel tempo antico che cos’è?

 

Antonio Polito, qualche settimana fa, ha fatto l’elenco: è il fastidio per l’apertura di Starbucks a Milano, la chiusura domenicale dei negozi, magari la naja obbligatoria e meno stranieri nel campionato di calcio, e naturalmente macchina indietro su tutte le ultime riforme: dalla scuola al lavoro alle pensioni. L’altra settimana è toccato all’aborto, in quel di Verona: ormai manca solo che torni Al Bano in vetta all’hit parade (ma – come s’è visto – ci stiamo lavorando).

 

Oppure il ritorno dei Borboni. Anche quello, per la verità, non ci fa completamente difetto. Una volta che si tratta di recuperare la tradizione, non c’è motivo per non rifarsi alle differenze regionali e agli stati pre-unitari. Quel che però è degno di nota – a parte il folclore neo-borbonico, il revival neo-etnico, i briganti e la taranta – è che si è pensato di fare la critica della globalizzazione volgendo in positivo ritardi e arretratezze del Sud. Progresso significa velocità? E noi facciamo l’elogio della lentezza, di un altro ritmo dell’esistenza: più umano, più autentico, più vero. Il capitalismo ha dominato gli oceani, ha significato l’egemonia politica ed economica delle potenze atlantiche? E noi allora esaltiamo la civiltà mediterranea. Contro la prevaricazione della tecnica scatenata noi celebriamo l’accoglienza e l’ospitalità meridionale, e il “mare nostrum” culla antica di civiltà (come se sulle sponde di quel mare non fossero comparsi fascismi, nazionalismi e islamismi vari, ma pazienza). Sorta di libro manifesto, Il pensiero meridiano di Franco Cassano – uscito ormai più di vent’anni fa – provava a rinverdire la critica della modernità grazie a “un radicale rovesciamento di prospettiva: il sud come un punto di vista autonomo, non come non-ancora nord”. Il che, tradotto, vuol dire che non vi è soltanto una modernità, quella capitalistica, quella del calcolo e della razionalità, quella produttivistica ed efficientista, ma anche una modernità alternativa, un po’ indistinta e un po’ esotica, è vero, ma disposta comunque a percorrere altre strade. Che difende le sue specificità, che celebra il politeismo dell’immaginazione contro il monoteismo del profitto, che si fa dialogo fra le culture contro la protervia del pensiero unico, che reagisce insomma all’omologazione.

 

Si rifiuta l’idea che la modernità scientifica e tecnica porti con sé la possibilità di migliorare le cose, rimanendo però attaccati al suo carro, alimentando così rabbia e frustrazione

Per condurre in porto questa operazione c’era bisogno però di scardinare la concezione del tempo che condanna ogni differenza alla categoria semplice dell’arretratezza. E, naturalmente, può farlo, o pretende di farlo, in quanto dispone di una certa idea del progresso, senza di cui non vi sarebbe modo di indicare arretratezza di sorta. Progresso significa dunque egemonia, sul piano simbolico, di una determinata concezione del tempo storico, che assegna all’Occidente il posto di meta necessaria e ultima di ogni avanzamento. Solo così “le differenze culturali perdono significato e valore, e vengono trasformate in scarti temporali, in una gerarchia fondata sul grado di approssimazione al paradigma della perfezione, la civiltà del nord-ovest del mondo”. Se invece non c’è un’unica freccia temporale, non c’è progresso e, oplà!, non c’è nemmeno arretratezza. Ci sono, invece, gli amabili sketch di Luciano De Crescenzo in Così parlo Bellavista: gli uomini di cuore e gli uomini di libertà (o i latini e i germanici, per dirla ancora con Kraus), la doccia che i settentrionali si fanno in tutta fretta, divorati dalla dromocrazia capitalistica, e le comode vasche da bagno dove al sud ci si immerge a lungo, con la finestra aperta e il sole che invade la stanza.

 

Così è, se vi pare. Se, però, vi volete consegnare all’idea che il tempo storico non prende alcuna strada tracciata, non va a nord né ristagna al sud perché, in realtà, non porta da nessuna parte, e nessuno è in posizione migliore rispetto al passato. Eppure, è strano: come è ben evidente che i flussi migratori muovono da certi luoghi verso certi altri, il che sembra indicare una certa preferenza per questi ultimi – dal momento che capita che ci si voglia spostare da Bengasi verso Londra, mentre assai più di rado si verifica il contrario – così è ragionevole pensare che anche nel tempo potremmo avere le nostre preferenze, se si trattasse di spostarci, e difficilmente, se potessimo, preferiremmo andare in un posto in cui non ci sono l’acqua corrente, i medicinali o i treni, dove il cellulare non prende e la stampa non è libera. Certo, è difficile mettere insieme tutte queste cose e farne una sola: il progresso. Questo ci toglie qualche sicurezza circa il nostro posto nel mondo e la nostra destinazione ultima, ma non vuol dire che qualsiasi luogo andrebbe ugualmente bene per noi.

 

In un recente saggio su Il mito moderno del progresso filosoficamente considerato, il filosofo francese Jacques Bouveresse cita un breve dialogo che si sarebbe svolto fra Benjamin Farrington, docente di antichistica e fervente socialista, e il filosofo Ludwig Wittgenstein. Al primo che dichiarava di preferire la nostra epoca a quella in cui viveva l’uomo delle caverne (e in ciò non avrebbe deluso Karl Marx, che nel Manifesto del partito comunista mise ogni cura nel distinguere il suo socialismo scientifico dalle forme feudali, romantiche e reazionarie di socialismo, che pretenderebbero di “far girare all’indietro la ruota della storia”), il pensatore austriaco avrebbe risposto così: “Certo, è ciò che preferisce lei. Ma lo preferirebbe anche l’uomo delle caverne?”. Ora, che rispondere, a nostra volta? L’uomo delle caverne non amerebbe, come noialtri, spostarsi in aeroplano e dormire su un materasso? Può darsi, ma d’altro canto: perché dovremmo ragionare oggi come l’uomo delle caverne, e immedesimarci in lui? Noi non chiediamo all’uomo delle caverne di lasciare il suo antro, ma questo non vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato nel preferire una civile abitazione dei nostri giorni e nel fatto che a preferirla è la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta, compresi soprattutto quelli che non ce l’hanno. Possiamo persino lasciare impregiudicata la questione se il nostro punto di vista sia davvero superiore a quello difeso nelle caverne. Non è però, per questo, meno ragionevole, anche se la sua ragionevolezza è essa stessa figlia della nostra epoca.

 

Eppure, si fa ogni sforzo per sbarazzarsi anche di questo poco di ragionevolezza. Si prepara un cocktail micidiale, che mescola insieme l’acquitrino del relativismo culturale in cui è sprofondato il discorso filosofico della modernità con la difesa di valori tradizionali, che quel relativismo invece di relativizzare paradossalmente rafforza. Si rifiuta l’idea che la modernità scientifica e tecnica porti con sé la possibilità di migliorare le cose, rimanendo però attaccati al suo carro (e come potrebbe essere altrimenti?), alimentando così sentimenti di rabbia e frustrazione. Si fa la critica del pacchetto liberale, senza avvedersi che, priva di elementi liberali, la democrazia minaccia di capovolgersi in autoritarismo. Si contesta il progresso, si rifiutano i vaccini, si bocciano le grandi opere infrastrutturali, si denunciano i giochi della finanza sopra le teste dei popoli, e mentre si maledicono l’euro, la Merkel e i vincoli di Bruxelles, non ci si accorge che è assente dal dibattito pubblico qualunque indicazione di obiettivi di sviluppo: che cosa si propone realisticamente il nuovo governo italiano? Di raggiungere quali livelli occupazionali, quali indici di produttività, quale numero di laureati?

 

Nessuno lo sa, purtroppo. Al posto del declino mettiamo la verde decrescita, al posto del lavoro la nobile dignità, avendo ormai scoperto che tutta questa storia del progresso, l’uomo sulla Luna e i diritti di libertà, diciamocelo: era tutta roba finta o sopravvalutata. Di bello rimane questo, allora, che Al Bano, buon per lui, canta ancora e non vuol saperne di smettere. Ne ha ben donde, a quanto pare.

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